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1. HIV, IL VIRUS DE L L 'IM M UNODE F ICIE NZ A UM ANA
1.1 Generalità
L'HIV (human immunodeficiency virus) rappresenta il principale retrovirus dell'uomo,
appartiene alla famiglia delle R etroviridae e al genere Lentivirus. Presenta due sierotipi,
HIV-1 e HIV-2. Tale virus è responsabile della sindrome da immunodeficienza acquisita
(AIDS), una condizione morbosa le cui manifestazioni cliniche sono costituite da infezioni
opportunistiche e da insolite e molto aggressive forme di tumori maligni, dovute a una grave
compromissione della risposta immunitaria cellulo-mediata.
1.2. Origini e storia
L'AIDS è stata riconosciuta come malattia nel 1981 negli Stati Uniti, in seguito a un numero
sorprendentemente elevato di infezioni polmonari da Pneumocistis C arinii e di tumori non
usuali, come il sarcoma di Kaposi, osservati in giovani adulti. Dopo circa due anni di ricerca,
nel 1983, l'istituto Pasteur di Parigi e il National C ancer Institute di B ethesda riuscirono
isolare il primo sierotipo del virus, che inizialmente venne denominato LAV
(Lymphadenopaty associated virus), poi HTLV-III (Human T-lymphotropic virus type III), e
infine HIV.
È stato dimostrato che il virus HIV si è generato in seguito a eventi multipli di infezioni tra
scimmia e uomo; l'ipotesi più accreditata è che il virus si è trasmesso all'uomo attraverso
una esposizione cutanea o mucosale a sangue infetto, causata dalle attività venatorie o di
macellazione degli animali infetti. Una attenta analisi filogenetica ha permesso di dimostrare
che entrambi i sierotipi di HIV sono corrrrelati con i SIV (i virus dell'immunodeficienza
delle scimmie), quindi l'infezione di HIV nell'uomo può essere considerata il risultato di una
zoonosi.
Nel 1986 è stato isolato il secondo sierotipo di HIV, HIV-2, un retrovirus con una diversa
composizione degli acidi nucleici, e di conseguenza diverse componenti antigeniche. I due
sierotipi condividono comunque una elevata omologia della sequenza virale. HIV-2 ha le
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stesse vie di trasmissione di HIV-1, ma la sua efficienza di trasmissione è molto più bassa, in
quanto esso si replica a basso titolo. Per questo motivo, la frequenza con cui si sviluppano
casi di malattia in seguito all'infezione da HIV-2 è molto inferiore a quella che si osserva nei
casi HIV-1 positivi, e richiede circa 10-20 anni per manifestarsi.
1.3. Classificazione
HIV causa un'infezione cronica associata, nella maggior parte dei casi, a una viremia
persistentemente positiva, e a un'immunodeficienza progressivamente ingravescente che
esita in gravi infezioni opportunistiche.
La classificazione clinica della infezione da HIV, elaborata nel 1987 dai C DC (C enters for
Disease C ontrol and Prevention), che divideva i soggetti in 4 categorie in base alla
sintomaticità della infezione, è stata considerata di scarsa utilità prognostica, e sostituita nel
1993 da una classificazione che non si basava solo sui sintomi clinici, ma anche su un altro
parametro fondamentale: la conta dei linfociti C D4+ . Anche questo ultimo sistema fu
considerato impreciso alla luce delle evidenze sulla importanza prognostica della carica
virale di HIV e sulla capacità della terapia antiretrovirale di indurre un ripristino della
funzione immunitaria e quindi di ridurre il rischio delle complicanze cliniche. Questi due
parametri infatti sono fondamentali per stimare i rischi di progressione della malattia e per la
valutazione della sopravvivenza, e non erano compresi in questa classificazione.
1.4. Caratteristiche del virus e ciclo vitale
Il virione di HIV-1 ha un diametro di circa 100 nm e una struttura icosaedrica con numerose
proiezioni esterne formate dalle sue due principali proteine di membrana: la gp 120 (proteina
di ancoraggio) e la gp41 (proteina transmembrana), contenute in un envelope lipidico. Il
virus si stacca per gemmazione dalla superficie della cellula infetta, potendo inglobare nella
sua membrana lipidica numerose proteine della cellula ospite, tra cui gli antigeni MHC .
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Il suo materiale genetico è costituito da due copie di R NA a polarità positiva, legate a due
proteine, p7 e p9, che costituiscono il capside del virus. Esso contiene, oltre all'R NA virale,
anche gli enzimi fondamentali del virus: la trascrittasi inversa, la proteasi e l'integrasi. Il
capside è a sua volta contenuto nella sezione centrale del virione, denominata core, di
sezione cilindro/conica e formato dalla proteina p24. Tra il core e l'involucro lipidico, o
envelope, è interposta la matrice, formata completamente dalla proteina virale p17.
Il genoma del virus presenta tre geni fondamentali per la sua replicazione: Gag, Pol e Env.
Gag codifica per le proteine componenti il core del virione: p24, p17, p7 e p9. Pol codifica
per i tre enzimi del virus, mentre da Env derivano le proteine dell'involucro esterno gp120 e
gp41. Il genoma di HIV contiene anche altri 6 geni, codificanti per proteine coinvolte nella
modifica della cellula ospite per aumentare la espressione dei geni virali e quindi il tasso di
replicazione (tat, rev, nef, vif, vpr e vpu). Questi geni differenziano HIV dagli altri retrovirus
in cui non sono presenti, e lo rendono molto più complesso. Ai due estremi di questa
sequenza genica si trovano i long terminal repeats, sequenze contenenti elementi regolatori
coinvolti nella espressione genica. La probabilità che dopo l'ingresso del virus
nell'organismo umano si verifichi effettivamente una infezione è dipendente da due fattori
fondamentali: la carica infettante e il numero di cellule recettive presenti nella sede di
infezione.
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Le cellule recettive nella infezione da HIV sono tutte quelle che presentano sulla propria
superficie il recettore C D41. C hiaramente, quindi, il principale bersaglio del virus sono i
linfociti T C D4+ (T-helper) maturi e immaturi. Il C D4 è però presente anche a livello dei
monociti, delle cellule di Langherans del derma, delle cellule follicolari dendritiche dei
linfonodi, dei macrofagi alveolari polmonari, delle cellule retiniche e delle cellule della
cervice uterina. Il recettore virale per la molecola C D4 è rappresentato dalla gp120. Negli
anni novanta è stato dimostrato che i recettori per le chemiochine C C R 5 e C XC R 4,
rispettivamente posti sulle cellule della linea monocito-macrofagica e sui linfociti, sono
fondamentali nella infezione da HIV-1. Essi sono stati quindi denominati secondi recettori o
corecettori di HIV-1.
Una volta penetrato nell'organismo, il virus si diffonde attraverso il sangue in tutto
l'organismo, accumulandosi in particolare a livello di fegato, linfonodi, midollo osseo, milza
e SNC , dove può replicarsi nelle cellule monocito-macrofagiche per poi colonizzare le
cellule bersaglio.
Il virione di HIV si lega, tramite la gp120, al recettore C D4 e poi ai secondi recettori. Questo
legame consente la fusione tra l'involucro lipidico virale e la membrana della cellula
bersaglio, ed è favorito dalla proteina transmembrana gp41. In seguito all'ingresso del virus
nella cellula, il suo R NA genomico viene trascritto a DNA dalla trascrittasi inversa, e poi
integrato nel genoma cellulare grazie all'enzima integrasi.
Il virus quindi rimane latente all'interno delle cellule T finchè esse non ricevono un segnale
di replicazione cellulare. A questo punto infatti, HIV sfrutta gli apparati trascrizionali e
traduzionali della cellula per replicarsi: l'R NA messaggero virale viene tradotto in più
poliproteine che sono scisse dalla proteasi in tutte le proteine strutturali del virus. Si
producono così nuovi virioni che abbandonano la cellula bersaglio per gemmazione,
acquisendo così l'envelope lipidico. Il ciclo termina così con le nuove particella virale che
sono in grado di infettare numerose altre cellule bersaglio.
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1.5. Vie di trasmissione
Il virus HIV si trasmette in primo luogo per via sessuale (per contatti sia eterosessuali che
omosessuali), per via parenterale attraverso il sangue e gli emoderivati, per via
transplacentare e perinatale dalla madre infetta al prodotto del concepimento.
1.5.1. T rasmissione sessuale
L'infezione da HIV è considerata in tutto il mondo come una malattia sessualmente
trasmessa (MST). La più frequente via di trasmissione è sicuramente rappresentata dai
rapporti eterosessuali, i quali sono più praticati rispetto a quelli omosessuali, ma in generale
la via di trasmissione sessuale non è molto efficiente: uno studio pilota effettuato nel
distretto di R akai in Uganda su coppie eterosessuali e sierodiscordanti ha dimostrato che il
rischio complessivo di trasmissione di HIV era dello 0,12% per atto coitale in assenza di
terapia antiretrovirale. Il virus si concentra nel liquido seminale, nelle cellule della cervice
uterina e nelle secrezioni vaginali.
Il rischio di infezione da HIV è chiaramente molto aumentato nei rapporti non protetti,
specialmente nel rapporto anale, che è più pericoloso del rapporto vaginale in quanto la
mucosa anale è molto sottile e fragile, e il suo sfaldamento durante il rapporto favorisce il
contatto tra il virus contenuto nel liquido seminale e i linfociti posti al di sotto della mucosa.
Studi condotti negli Stati Uniti e in Europa hanno dimostrato che la trasmissione di HIV da
maschio a femmina è generalmente più frequente rispetto a quella da femmina a maschio.
Questa differenza tra i due generi potrebbe essere dovuta alla prolungata esposizione della
mucosa vaginale, di quella cervicale e dell'endometrio, al liquido seminale contenente il
virus.
Inoltre, l'analisi dei possibili cofattori nel contesto della trasmissione eterosessuale ha
dimostrato che la presenza di altre malattie sessualmente trasmissibili è fortemente associata
alla infezione da HIV. In particolare, le infezioni che sono in grado di causare ulcerazioni
degli organi genitali come Treponema pallidum, Haemophylus ducreyi, Herpes simplex
sono molto correlate. Alcuni studi suggeriscono infatti che il trattamento di queste malattie
sessualmente trasmissibili riduce fortemente il rischio di infezione da HIV; questo effetto è