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I.3 I diversi approcci alla disabilità
La disabilità, per buona parte della storia, è stata trattata esclusivamente da
un punto di vista biomedico. Tale approccio rispecchia perfettamente una
società che non accetta coloro che vengono considerati “anormali” e
suddivide il mondo in due categorie: “normali” e “diversi”. L‟approccio
biomedico non si concentra sulla persona intera, ma solamente sulla sua
disabilità, cercando di “guarirla”. Venendo considerata solo la disabilità e
non la persona nella sua totalità, l‟individuo viene ritenuto un malato, un
infermo colpito da un “tragico destino”. Gli interventi, dunque, si basano
principalmente sulle cure e perseguono l‟obiettivo della “guarigione” del
singolo, al fine di poterlo riadattare in società. Può accadere così che
famiglie e medici si accaniscano nei confronti della persona con disabilità,
affinché quest‟ultima, attraverso consultazioni di specialisti e in alcuni casi
l‟esecuzione di interventi chirurgici, possa “cancellare la macchia della
disabilità” e far parte così del “meraviglioso mondo dei normali”
31
. La
prendere il treno»,
http://www.vorreiprendereiltreno.it/, ultimo accesso 28 ottobre 2019
30
Cfr. Mucci A., Contro ogni barriera: Firenze accessibile, in «Molla lo scivolo»,
http://www.mollaloscivolo.com/, Gennaio 2016, ultimo accesso 28 ottobre 2019
31
Cfr. Sorrentino A. M., Figli disabili: la famiglia di fronte all‟handicap, Raffaello
17
ricerca insistente e asfissiante di una soluzione, di una “cura” al fine di
“rendere normale la vita del malcapitato”, è un processo destinato a fallire
miseramente. Da quanto affermato, appare chiaro che un approccio basato
su un modello medico discrimini le persone con disabilità e comporti
l‟esclusione di quest‟ultime dalla società.
Nel 1977, Engel considerando riduzionistico l‟approccio medico, diede vita
ad un nuovo approccio chiamato biopsicosociale, concentrato su tre aspetti
interdipendenti:
“1. Il funzionamento biologico: l‟insieme delle funzioni del sistema nervoso sottocorticale,
cioè tutti i processi che sono automatici ed esterni alla coscienza;
2. Il funzionamento psicologico: il mondo interno autocosciente che dirige l‟elaborazione
delle informazioni e la comunicazione intrapsichica e interpersonale;
3. Il funzionamento sociale: gli aspetti familiari e socioculturali del comportamento della
persona, in relazione all‟ambiente che influenza e che viene influenzato dall‟individuo”
32
.
Come si evince dagli aspetti evidenziati, l‟approccio biopsicosociale non
considera esclusivamente la disabilità della persona, ma piuttosto la
situazione viene considerata da un punto di vista globale, riconoscendo la
centralità dell‟individuo e tenendo conto del suo mondo interiore e del
contesto sociale. La disabilità non viene considerata una tragedia o una
“croce da portare in spalla” per tutto il resto della vita, ma piuttosto essa
viene ritenuta parte integrante della vita stessa. Il modello biopsicosociale
persegue la guarigione dell‟individuo solo se possibile, senza accanirsi sulla
persona dal punto di vista terapeutico. Tale punto di vista, quindi, non si
sofferma solo sulla “parte mancante”, sul “difetto” della persona, ma tiene
conto anche di quelle che possono essere le sue risorse, adottando così un
Cortina, Milano 2006, p. 15-28
32
Cfr. Martino S., Il modello biopsicosociale, in «Ambulatorio sociale psicoterapia»,
https://www.ambulatoriosocialepsicoterapia.com/il-modello-biopsicosociale/,
21 Ottobre 2017, ultimo accesso 28 ottobre 2019
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atteggiamento inclusivo. Ne L‟arte dell‟integrazione: Persone con disabilità
costruiscono percorsi sociali, Bruna Grasselli afferma che “[Bisogna]
rendersi conto che il difetto non è soltanto un deficit, una mancanza, una
debolezza, ma un sovrappiù, un elemento di forza e di valore, dotato di una
connotazione positiva”
33
. L‟obiettivo è quello di andare oltre la sensazione
di inettitudine e isolamento dei pazienti e dei familiari e di investire nella
relazione e nell‟incontro, instaurando in questo modo un rapporto
collaborativo, un legame profondo tra curante, famiglia e paziente
34
.
Offrono una prospettiva molto interessante dei nuovi studi che prendono il
nome di Disability Studies. Si tratta di una nuova disciplina di studio che
analizza la disabilità da un punto di vista globale e rifiuta la semplice
concezione di disabilità come condizione biologica o malattia. Ciò che
differenzia i Disability Studies dall‟approccio biopsicosociale è che essi
indagano la società all‟interno della quale vive la persona con disabilità.
L‟obiettivo di tale tipo di approccio è quello di promuovere il cambiamento
di una società colpevole della nascita e della diffusione del fenomeno della
discriminazione nei confronti delle persone con disabilità. I Disability
Studies, dunque, non mirano a eliminare o a migliorare le carenze
individuali che d‟altronde abbiamo tutti e non solo le persone con disabilità,
ma aspirano a individuare ed eliminare le condizioni discriminanti che
confinano le persone con disabilità in una sorta di ghetto, seppur astratto,
comportando così la loro esclusione dalla cittadinanza attiva. Questa
prospettiva mette in dubbio lo stesso concetto di “normalità” tanto caro al
modello biomedico, sostenendo che tutte le persone siano “normali” così
come sono e non da “aggiustare” per essere consegnate come macchine
perfette, pulite e produttive alla nostra società super efficiente
35
. Possiamo
33
Grasselli B., L‟arte dell‟integrazione: persone con disabilità costruiscono percorsi
sociali, Armando Editore, Roma 2006, p. 27
34
Cfr. Sorrentino A. M., Figli disabili: la famiglia di fronte all‟handicap, Raffaello
Cortina, Milano 2006, p. 55
35
Cfr. Borzetti R. A. (a cura di), L‟handicap nella società: che cosa sono i Disability
Studies, in «Didaweb»,
https://www.didaweb.net/handicap/leggi.php?a=480, 24 Giugno 2010, ultimo accesso 28
ottobre 2019
19
affermare che, sostanzialmente, è stato realizzato un passaggio basato su un
approccio assistenzialista ad uno basato sull‟acquisizione dell‟autonomia da
parte degli individui.
I.4 La percezione della disabilità nel corso della storia
Spesso, ciò che non conosciamo ci fa tremendamente paura. La paura verso
tutto ciò che è diverso da noi o si discosta dalla norma può portarci ad avere
dei pregiudizi, che a loro volta possono rivelarsi assai pericolosi. A questo
proposito, assai calzante è una frase del famoso scrittore Georges Simenon
che, come riportato nel libro Psicologia generale, dello sviluppo e
applicata, ha sostenuto in una delle sue pubblicazioni che “[…] [Il genere
umano ha] costruito un uomo-tipo, che varia a seconda delle epoche, e ci
aggrappiamo a lui tanto da considerare un mostro o un malato chi non gli
rassomigli” […]
36
. Il pregiudizio può essere superato solamente cercando di
conoscere e incontrare l‟altro, riconoscendo l‟importanza della relazione.
La concezione della disabilità nel corso della storia è stata piena di
pregiudizi. Nell‟antica Grecia la disabilità, soprattutto quella fisica, venne
condannata. Le persone con disabilità vennero considerate inutili,
innanzitutto perché si pensava che loro non potessero apportare dei
miglioramenti alla società, e soprattutto perché l‟imperfezione estetica di
questi individui si scontrava con il culto del bello e del corpo perfetto
vigente all‟epoca
37
. Tale visione venne sostenuta anche dai filosofi del
tempo, come Platone, che immaginò la “Città Ideale” abitata da individui
sani e perfetti dal punto di vista fisico e mentale; mentre invece, secondo il
filosofo, le persone con disabilità fisiche dovevano essere lasciate morire
36
Zonta R., Psicologia generale, dello sviluppo e applicata, Edilpsicologiche, Cremona
1998, p. 13
37
Cfr. Amendolagine V., Da castigo degli Dei a diversamente abili: l‟identità sociale del
disabile nel corso del tempo, in «State of Mind»,
https://www.stateofmind.it/2014/11/identita-sociale-disabile/, 7 Novembre 2014, ultimo
accesso 28 ottobre 2019
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per non correre il rischio di compromettere il progetto relativo alla
costruzione di una società basata sulla ricerca della perfezione e
dell‟armonia
38
. Secondo Aristotele, lo stato doveva attuare una legge che
vietasse l‟allevamento e la cura dei neonati deformi
39
.
La visione della civiltà romana fu molto simile a quella greca; ciò viene
testimoniato dalle parole di Seneca che scrisse “Soffochiamo i feti
mostruosi, ed anche i nostri figli, se sono venuti alla luce minorati e
anormali, li anneghiamo, ma non è ira, è ragionevolezza separare gli esseri
inutili dai sani”
40
. Da queste parole emerge come nella cultura greco-romana
venne perseguito il culto del “bello”, del “sano”, del “forte”.
L‟avvento del Cristianesimo fu di fondamentale importanza, perché con
esso ebbe luogo una prima forma di accettazione e riconoscimento della
dignità e del valore della persona malata e con disabilità. Gesù di Nazareth,
non solo riconobbe la sofferenza della persona malata o con disabilità
cercando di alleviarla, ma vide nell‟altro un fratello e predicò la carità e la
fratellanza. Il vescovo Basilio di Cesarea trovandosi d‟accordo con il
pensiero cristiano e vedendo Dio nell‟altro da lui, mise in pratica le buone
intenzioni fondando intorno all‟anno 370 D.C. una sorta di ospedale rivolto
agli individui bisognosi di cure. Questa specie di ospedale prese il nome di
“Basiliade” in onore del vescovo. La Basiliade, non deve essere immaginata
come un ghetto dove rinchiudere “il diverso”, ma piuttosto come un luogo
che aveva l‟aspirazione di far sentire la persona malata o con disabilità parte
di una comunità. Così come Gesù di Nazareth, Basilio di Cesarea fu un
precursore dei tempi grazie alla sua immensa opera caritatevole, che già
38
Cfr. Platone, πολιτεία, trad.it. Adorno F., Gabrieli F., La Repubblica, RCS Rizzoli libri
S.p.A., Milano 1981, p. 111
39
Cfr. Aristotele, Τὰ πολιτιϰά, trad. it. Laurenti R., Politica, Editori Laterza, Bari 2006, p.
258
40
Scianchi M., La terza nazione del mondo: i disabili tra pregiudizio e realtà,
Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2009, p. 89
21
celava in un tempo da noi lontanissimo il desiderio di fondare una società
egualitaria
41
.
Durante il periodo medievale, la madre venne considerata la responsabile
della deformità del proprio figlio e alla nascita di quest‟ultimo spettava ad
entrambi un tragico destino: bruciati al rogo. In questa fase, la Chiesa
considerò la disabilità come conseguenza dell‟intervento di forze diaboliche,
credendo che essa “colpisse” i figli di genitori che non rispettavano con
l‟astinenza le festività. La disabilità, dunque, venne percepita come una
giusta punizione nei confronti dei peccatori. I vagabondi, i disoccupati, le
prostitute, i poveri rientrarono nella categoria dei cosiddetti “folli” e
vennero isolati dalla comunità. A partire da quest‟epoca si diffusero i primi
manicomi in tutta Europa.
Durante il periodo dell‟Illuminismo, in cui si assistette all‟affermazione
della scienza e della razionalità, sorsero molti ospedali che tentarono di
curare la disabilità fisica, considerata ancora una sorta di malattia e perciò
trattata da un punto di vista medico. La sorte per le persone con disabilità
psichiche invece, fu ancor più crudele, in quanto vennero considerate
incurabili e passarono la loro vita nei manicomi.
Alla Rivoluzione Industriale corrispose un notevole aumento delle persone
con disabilità a causa dell‟aumento della popolazione e dell‟allungamento
delle aspettative di vita. In Italia, a partire dalla fine dell‟Ottocento, lo Stato
incominciò a sviluppare le prime forme previdenziali, attraverso la
creazione alla fine dell‟Ottocento della “Cassa nazionale di previdenza per
l‟invalidità e la vecchiaia”. Nella prima parte del Novecento, nell‟arco di
pochi anni vennero compiuti molti passi in avanti, prima con l‟apertura del
primo ambulatorio di pronto soccorso italiano per i lavoratori infortunati,
poi con la fornitura di protesi a favore di persone con disabilità in un
41
Cfr. La Matina M., Il posto del Malato tra Ethos e Logos. Luoghi di Cura e Saperi nel
Mondo Antico e Tardoantico, in «Medic»,
http://www.medicjournalcampus.it/fileadmin/MEDICS/archivio/MEDIC_2-2007.pdf,
Agosto 2007, p. 23-29, ultimo accesso 28 ottobre 2019
22
contesto lavorativo e infine con l‟obbligatorietà dell‟assicurazione per
invalidità e vecchiaia.
Al termine della prima guerra mondiale si assistette ad un altissimo numero
di mutilati tra i soldati; ciò comportò la nascita a Milano, verso la fine della
guerra, di un‟associazione che prese il nome di “Associazione nazionale
mutilati e invalidi di guerra”. In un periodo di dolore e morte, la tecnologia
fornì lo strumento delle protesi, all‟epoca rivoluzionario, nel tentativo di
recuperare o quantomeno compensare la grave perdita. Grazie
all‟introduzione di questi nuovi strumenti, gli individui iniziarono a
prendere in considerazione la possibilità di poter reintegrare all‟interno della
società le persone che avevano subìto una mutilazione durante il conflitto
42
.
L‟atrocità della guerra lasciò nei soldati delle ferite non solo dal punto di
vista fisico, ma anche dal punto di vista mentale, come conseguenza del
trauma vissuto. Per riferirsi agli individui che avevano subìto uno shock
durante la devastante esperienza della guerra, comparve l‟appellativo
“scemo di guerra”
43
. Quello della Seconda Guerra Mondiale fu uno dei
momenti più bui e tristi dell‟umanità. La furia nazista non fece sconti a
nessuno, nemmeno alle persone con disabilità considerate un peso e non
degne del dono della vita. Nel 1933, Hitler emanò la “legge sulla
sterilizzazione”, rivolta a coloro che presentavano deficit intellettivi o
mentali, problemi psichiatrici o malattie ereditarie. Nel 1935, venne
promulgata una legge che impediva i matrimoni tra persone con disabilità,
per evitare che esse potessero dar vita ad individui considerati a loro volta
non degni della “razza ariana”. Hitler, qualche anno più tardi, attraverso la
messa in atto di un decreto obbligò ostetriche e dottori a dichiarare allo
Stato tutti i bambini nati con menomazioni fisiche o disturbi mentali, al fine
di ucciderli. In seguito, egli passò allo sterminio delle persone adulte affette
da malattie genetiche inguaribili e da disabilità mentali, completando la sua
42
Cfr. Scianchi M., La terza nazione del mondo: i disabili tra pregiudizio e realtà,
Giangiacomo Feltrinelli, Milano 2009, p. 91-102
43
Cfr. Fano L., Gli scemi di guerra, in «Il Sud Est»,
http://www.ilsudest.it/sociale-menu/78-sociale/6974-gli-scemi-di-guerra.html,
19 Ottobre 2015, ultimo accesso 28 ottobre 2019