2
multinazionale, e si rapporta al contesto mondiale trascendendo i confini
nazionali.
In questa fase di crescente internazionalizzazione, sicuramente
favorita dalle politiche di liberalizzazione degli scambi di merci e di
capitali realizzate dagli Stati nazionali, le imprese guardano sempre più
ai mercati esteri come possibili destinatari dei propri investimenti.
L’espansione internazionale dell’attività d’impresa consente di
realizzare, attraverso una opportuna diversificazione degli investimenti,
un miglioramento nel rapporto rischio-rendimento, con evidenti benefici
sulle performance complessive.
Da ciò emerge la necessità di disporre di strumenti finanziari
che consentano una adeguata valutazione dei rendimenti da associarsi a
tali investimenti, strumenti che rendano conto sia dei benefici derivanti
dall’espansione dell’attività oltre confine, sia dei maggiori rischi, di
natura economica, politica, di cambio, e di altro genere, cui l’impresa va
incontro quando si rivolge a contesti ambientali non familiari.
L’applicazione degli stessi strumenti di valutazione utilizzati
per gli investimenti rivolti ad ambiti domestici, in particolare del costo
medio del capitale, incontra limiti di varia natura, riconducibili
all’inadeguatezza nel rendere conto del livello specifico di rischio cui il
progetto, il settore di business dell’impresa, e il Paese di destinazione
sono soggetti.
3
Alle stesse limitazioni è soggetta la validità degli strumenti di
valutazione degli investimenti di portafoglio realizzati nei mercati
internazionali dei capitali. La misurazione del rischio-rendimento di un
portafoglio titoli risulta dipendente dalla scelta del mercato di
riferimento, e può cambiare al variare degli indici di rischiosità
considerati.
Scopo di questo lavoro è stato verificare l’applicabilità, agli
investimenti rivolti all’estero, degli stessi strumenti di valutazione
utilizzati per gli investimenti domestici; in particolare si è voluto
verificare se agli investimenti esteri debba applicarsi un costo del
capitale maggiore, minore o uguale a quello applicato agli investimenti
realizzati in ambito domestico.
Nella prima parte si è voluto introdurre qualche elemento di
identificazione del contesto di riferimento, analizzando sia l’evoluzione
intervenuta nelle strategie di espansione perseguite dalle imprese, sia
quella che ha riguardato lo scenario competitivo mondiale. Nel capitolo
2 è trattata l’espansione dei mercati internazionali dei capitali, e la
“finanziarizzazione” dell’economia mondiale, con un’accenno alle crisi
verificatesi negli ultimi decenni ed al ruolo che hanno ricoperto e che
continuano a ricoprire, nel contesto mondiale, gli investitori istituzionali,
i nuovi strumenti finanziari, gli investitori privati, nonché gli organismi
sovranazionali di vigilanza.
4
Nella seconda parte, si è analizzato nello specifico il problema
della valutazione degli investimenti diretti e di quelli di portafoglio
realizzati all’estero, dalle imprese e dagli investitori, privati e
istituzionali. Nel capitolo 3, in particolare, dopo un’accenno ad alcuni
concetti finanziari basilari, si è sviluppata l’analisi del processo di
valutazione degli investimenti esteri, nonché del costo del capitale e del
modello CAPM, per verificarne la loro applicabilità ed i loro ambiti di
validità in riferimento a tale valutazione. Si è cercato di evidenziare i
benefici della diversificazione internazionale dell’attività d’impresa e
come questa influisca sul profilo di rischio-rendimento complessivo.
Infine, nel capitolo 4, si è analizzato il processo di formazione
di un portafoglio titoli internazionali, anche qui sottolineando i punti
deboli dei modelli di valutazione tradizionali ed i vantaggi derivanti
dall’uso di un modello alternativo.
5
CAPITOLO 1
I processi di globalizzazione: dal commercio internazionale
all’impresa transnazionale
1.1 Termini generali e cenni storici.
L’attuale fase dei processi di internazionalizzazione degli
scambi di beni, servizi e capitali, è intrisa nel concetto di “globalità”. Ciò
che acquista una connotazione “globale” o “transnazionale” non è più
soltanto il commercio o l’impresa, ma i modi di conoscere, di sentire e di
vivere
1
.
Il progresso tecnologico e lo sviluppo dei mezzi di trasporto, di
comunicazione e di informazione hanno l’effetto di accorciare le
distanze spazio-temporali tra realtà e contesti differenziati, connotati da
specifiche caratteristiche storiche e socio-culturali, rendendo possibile
attraversare, fisicamente e mentalmente, i confini nazionali per ritrovarsi
in un unico punto dello spazio, nel “villaggio globale” che travalica tali
confini.
1
Da Grandinetti-Rullani, 1996.
6
Protagonisti di questa evoluzione sono i mercati, le imprese, le
istituzioni, i consumatori, in una interconnessione che cambia la base
territoriale su cui insiste la divisione del lavoro. Chi ha un buon prodotto
da vendere, o un sapere da trasferire, o un servizio da prestare, non
guarda più ai confini nazionali come limiti al proprio operare, ma guarda
oltre di essi nella ricerca di clienti o partners.
Si assiste ad un ulteriore cambiamento negli scenari economici
internazionali: alle tradizionali forme di internazionalizzazione,
tipicamente commercio internazionale e investimenti diretti all’estero da
parte di imprese multinazionali, si affiancano oggi nuove metodologie,
accomunate da una crescente interdipendenza degli attori che
partecipano agli scambi e alla condivisione del sapere e delle esperienze.
Volendo rintracciare nella storia le fasi di questo percorso
evolutivo, le prime forme di commercio internazionale si rinvengono già
ai tempi delle città-stato italiane, che in epoca medievale e
rinascimentale furono le fautrici e le beneficiarie dell’espansione dei
commerci oltremare. Il sistema di dominio delle citta-stato dell’Italia
settentrionale rappresenta il prototipo e l’antecedente del sistema
capitalistico moderno
2
; l’accumulazione di capitale derivante dal
commercio di lunga distanza, particolarmente dal controllo
monopolistico di un nodo cruciale della catena di scambi commerciali
2
Da G. Arrighi, “Il lungo XX secolo”, 1996.
7
che univa l’Europa occidentale all’India e alla Cina attraverso il mondo
islamico, favorì una straordinaria concentrazione della ricchezza e del
potere nelle mani delle oligarchie che governavano tali città-stato, e di
Venezia in particolare.
L’intensificarsi del conflitto di potere nel panorama politico
dell’Europa, determinò lo spostamento dei centri di potere economico-
finanziario dalle città-stato italiane ai mercati dell’Olanda, che,
attraverso il controllo del commercio sul Baltico, riuscirono ad
organizzare le operazioni commerciali su scala più ampia. La ricchezza e
il potere dell’oligarchia capitalistica olandese del XVII secolo, si
basavano, in effetti, più sul controllo delle reti mondiali della finanza che
di quelle commerciali; ciò significa che essa era meno vulnerabile alla
creazione di rotte commerciali alternative, e fu in grado di trovare nella
speculazione finanziaria un nuovo e redditizio settore di investimento.
L’ascesa dell’Olanda ad una supremazia mondiale derivò in gran parte
dal trasformare Amsterdam non solo nel magazzino centrale del
commercio mondiale, ma anche nel principale mercato monetario e dei
capitali dell’Europa. E’ qui, infatti, che fu creata la prima Borsa valori in
seduta permanente.
Alla fine del XVIII secolo, il successo del mercantilismo
francese e di quello inglese in particolare, imposero seri limiti alla
8
capacità del sistema commerciale olandese di continuare ad espandere le
proprie dimensioni, ed anzi ne segnarono il declino.
La Gran Bretagna del XVII e del XVIII secolo, diede ai
commerci un’organizzazione più vasta e più complessa, conquistando un
impero commerciale e territoriale di dimensioni mondiali, e dando ai
suoi gruppi dominanti e alla sua classe capitalistica un controllo senza
precedenti sulle risorse umane e naturali del mondo
3
. Con la diffusione
della meccanizzazione nell’industria tessile e delle altre innovazioni
introdotte sul finire del XVIII secolo, l’impero commerciale britannico
offrì lo sbocco ai nuovi prodotti, e assicurò per questa via l’entrata di un
flusso considerevole di capitali a Londra, che presto divenne il nuovo
centro finanziario mondiale.
L’affermazione generalizzata della produzione industriale,
basata sull’uso della scienza e delle macchine, dà corpo ad uno specifico
ciclo di internazionalizzazione; all’espansione geografica della
produzione corrisponde l’espansione dei mercati, collegati l’uno all’altro
dalla politica del libero scambio e dalla riduzione delle barriere doganali.
Tale espansione incontra un periodo di interruzione tra le due guerre
mondiali, che anzi determinano un arretramento nello sviluppo del
commercio mondiale.
3
Da G. Arrighi, 1996.
9
Nella seconda metà del XX secolo, i princìpi del fordismo
ispirano l’espansione oltre confine della produzione industriale,
rendendo protagonista l’impresa multinazionale, che dissemina cicli
produttivi e filiali nel mondo. Ad attraversare le frontiere non sono solo
le merci, ma le persone e i comandi, lungo i circuiti delle linee di potere
interne alle imprese. Si connotano come “multinazionali” le imprese che
effettuano investimenti diretti all’estero o controllano, attraverso linee
proprietarie, attività in più Paesi esteri; e tale controllo avviene
integrando, verticalmente ed orizzontalmente, varie fasi della catena del
valore, fino ad internazionalizzare l’intero processo produttivo e
distributivo. Il vantaggio competitivo di queste imprese deriva dalla
capacità di mettere in comunicazione Paesi diversi trasferendo le proprie
conoscenze, replicando tecniche e soluzioni organizzative da un Paese
all’altro, integrando i diversi apporti conoscitivi in un unico sistema.
Attraverso le linee organizzative interne, si realizza, oltre al
trasferimento fisico dei beni tra contesti differenziati, anche il
trasferimento delle conoscenze in essi incorporate, “conoscenze
proprietarie”, ovvero know-how, informazioni codificate, materiali e
persone.
10
Il potenziale di profitto di queste imprese multinazionali
deriva sia da loro intrinseche qualità soggettive, non trasferibili
attraverso il mercato, sia dalla disponibilità di risorse nel Paese d’origine
da sfruttare in modo allargato, ovvero da condizioni oggettive dovute ai
differenziali nazionali
4
.
4
Da Grandinetti-Rullani, 1996.
11
1.2 Fordismo ed egemonia economica delle multinazionali
americane.
La burocratizzazione aziendale, il trionfo della meccanica e la
produzione di massa di beni standardizzati hanno trovato la loro
perfezione nella grande impresa industriale, a partire dall’ azienda di
Henry Ford e dal settore automobilistico nascente all’inizio del
ventesimo secolo
5
.
L’internazionalizzazione discendente dalla forza della grande
dimensione delle imprese fordiste poggiava in modo determinante sul
potere regolatore e sulla progettualità politica dello Stato, che finanziava
i grandi investimenti, conteneva i rischi, regolava le relazioni sociali,
assicurava i livelli di domanda. I destini dell’impresa e i destini della
nazione di origine erano uniti; politiche economiche e relazioni
industriali erano il frutto del compromesso fra le grandi organizzazioni
sociali (sindacati e imprenditori) e lo Stato.
Allo Stato che proteggeva le operazioni multinazionali delle
imprese “domestiche”, si opponevano, identicamente, le misure di
deterrenza degli Stati che ricevevano gli investimenti esteri, impegnati a
loro volta a proteggere, insieme, la propria sovranità politica e i mercati
5
Da R. Cafferata, a cura di, 1999.
12
delle proprie imprese
6
. Gli Stati erano, in definitiva, il cardine di tutta
l’organizzazione economica.
Elemento portante del successo delle operazioni internazionali
delle imprese, soprattutto americane, nel “periodo d’oro” successivo alla
seconda guerra mondiale, era proprio la loro identificazione con lo Stato
di appartenenza.
La multinazionalizzazione delle imprese americane è stata
sicuramente favorita dalla posizione egemonica che gli Stati Uniti hanno
rivestito a partire dai primi decenni del secolo scorso sul resto del
mondo. Gli Stati Uniti erano un complesso militare-industriale di
dimensioni continentali, dotato di un potere sufficiente a garantire a un
gran numero di governi subordinati e alleati un’efficace protezione
7
.
Assieme alle dimensioni e alla ricchezza naturale del territorio di origine,
questo potere permise alla classe capitalistica statunitense di espandere la
propria attività anche all’estero, riuscendo ad internalizzare i costi di
produzione anche nel contesto dei mercati internazionali.
Le grandi corporation americane, particolarmente nel periodo
1945-1960, partendo da una consolidata base di esportazioni,
modificarono progressivamente la loro presenza sui mercati esteri,
soprattutto europei, attraverso investimenti diretti. Questi investimenti
erano garantiti da ogni rischio politico dalla netta supremazia politico-
6
Da A. P. Salimbeni, 1999.
7
Da G. Arrighi, 1996.
13
militare degli Stati Uniti su tutta l’Europa occidentale. Dovendo
affrontare la delicata fase della ricostruzione post-bellica, gli Stati
europei incoraggiavano anzi tali investimenti, anche per recuperare il
divario tecnologico, finanziare gli investimenti interni e aumentare
l’occupazione.
In questo periodo, e fino agli anni ’70, la
multinazionalizzazione delle imprese americane si pone come l’”one
best way” per operare sui mercati internazionali; enfatizza la
pianificazione interna e la sua superiorità rispetto alla instabilità dei
rapporti di mercato; si fa espressione di efficienza, modernizzazione ed
evoluzione; e si fa portatrice di un disegno di unificazione a scala
mondiale del mercato.
Ma l’internazionalizzazione delle grandi imprese americane
non rappresenta un fenomeno universale e generalizzabile, ma piuttosto
un fenomeno peculiare legato all’eccezionalità della fase storica in cui si
manifesta (la “golden age” della stabilità post-bellica) e al presupposto
egemonico che lo sostiene (l’egemonia del capitalismo nazionale
americano sugli altri capitalismi nazionali)
8
.
8
Da Grandinetti-Rullani, 1996.