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L'attuazione del progetto di psicomotricità
relazionale
Da quanto brevemente esposto nel paragrafo direttamente
precedente che vuole fare da cappello teoretico a quanto
sarà di seguito, e in modo più esteso e intrecciato anche
nei capitoli sopra, si rileva come la dimensione verbale non
sia più sufficiente.
La dimensione operativa e strettamente terapeutica deve
prevedere un ampio spettro di interventi su base corporea,
qualcosa che parli un linguaggio diverso da quello
convenzionale che fatica a veicolare contenuti oltre le
barriere cognitive e razionali spesso arcigne e distorte nei
quadri psicopatologici. Questo quadro ci racconta spesso di
una tangenziale efficacia della logoterapia e l’obbligo a
pensare un approccio che non sia interdisciplinare sono
nell’integrazione di diverse figure professionali
all’interno dell’equipe ma anche all’implementazione di un
modello che garantisca l’integrazione di diversi apporti
psicoterapici che si occupino del processo evolutivo avendo
un punto di vista comune ma porte d’accesso differenti anche
se comunicanti.
La psicomotricità relazionale può agire una fetta
importante di questa interdisciplinarietà e modelli
integrati.
Nel capitolo precedente emerge la variegata
costellazione di quadri psicopatologici che afferiscono alla
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struttura Casa per la salute della Mente – Residenza Dahu (e
in generale ai centri residenziali per il trattamento dei
DCA). Variegate le storie, le provenienze, le storie di
malattia, i processi diagnostici, le comorbidità, i livelli
di consapevolezza di malattia, le motivazioni, i tentativi
di cura precedenti, le età anagrafiche… impossibile dire di
occuparsi di anoressia o bulimia o binge eating o qualsiasi
altra cosa possa riguardare ciò che definiamo un disturbo
alimentare senza pensare che non esiste quella univocità
rassicurante che una diagnosi, per quanto chiara, illude di
fornirci. Tantomeno se poi ci si illude di circoscriverlo
all’ambito dell’intervento terapeutico…
Fondamentalmente le parole creano un universo di senso
tra i comunicanti che replica parzialmente, nel migliore dei
casi, se non addirittura concorre a creare un’empasse nella
veicolazione di contenuti più profondi – essenzialmente
emotivi ed esperienziali, ovvero subconsci – per le
strutturali inefficienze della comunicazione verbale.
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Questa breve disamina riassuntiva mi serve per
introdurre gli aspetti più tecnici di una scelta
riabilitativa molto complicata e per alcuni versi
controintuitiva: lavorare con il corpo e attraverso il corpo
con pazienti in cui il corpo stesso è teatro di
manipolazioni, fraintendimenti, disconoscimenti,
scotomizzazioni, supplizi veri e propri.
Perchè la psicomotricità relazionale ?
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Vedasi le considerazioni del primo Wittgenstein sul linguaggio creatore del mondo individuale,
l'apporto dei vari autori del Costruttivismo, in ultimo Watzlawick, nella concettualizzazione di una
"scientificità" e comunicazione che si autofotografa fondamentamentalmente come parziale e
incompleta; altri volumi fondamentali come "La realtà come costruzione sociale" di Berger e
Luckman (1966) o ancora le ricadute dei lavori sulla grammatica generativo-trasformazionale di
Chomsky negli ambiti della comunicazione umana e delle influenze del linguaggio stesso.
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Nelle ultime pagine del libro "La simbologia del
movimento", Lapierre e Aucouturier scrivono "L'agire non è
più un atto intellettuale, razionale, ma l'espressione
diretta di qualcosa di più intimo, di più profondo".
La psicomotricità parla proprio quel linguaggio, quello
del corpo, del contatto, delle metafore e dei simboli che il
corpo veicola e di cui si nutre.
"Il corpo ed il movimento sono le dimensioni
esperienziali alla base delle prime forme e funzioni di vita
psichica" (Vecchiato, 2007).
Se vogliamo posare lo sguardo sia in senso filogenetico
(Damasio, 1995) che ontogenetico (Vecchiato, 2007) emerge
come il corpo sia il substrato su cui e in cui la mente si
sviluppa e cresce. Il corpo è quindi, senza peccare di
presunzione e senza essere troppo azzardato, il canale di
intervento e di comunicazione più favorevole e diretto per
indurre un cambiamento sostanziale e profondo. Per poter
fare questo bisogna poter parlare la stessa lingua: non è
possibile parlare al corpo con il linguaggio della
razionalità. È qui che entra la psicomotricità: parla con il
linguaggio del gioco, del corpo, attraverso il contatto,
parla da corpo a corpo.
Detto con le parole esatte di Merlau-Ponty (2003): "Lo
spazio corporeo può divenire veramente un frammento dello
spazio oggettivo solo se, nella sua singolarità di spazio
corporeo, contiene il frammento dialettico che lo
trasformerà in spazio universale".
Obiettivi: una breve riflessione
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Innanzitutto va pensato, meglio ripensato, il concetto
di obiettivi in un lavoro che è strettamente terapeutico e
riabilitativo. Il ripensamento è nel concetto di obiettivo:
sicuramente ci possono essere degli obiettivi molto generali
che potrebbero grosso modo andare bene per tutto l’ambito
psichiatrico e per il lavoro con i DCA. Questi obiettivi
riguardano la riacquisizione del generale benessere psico-
corporeo, di una riacquisizione dello schema corporeo
stesso, della percezione dei contenuti emotivi e dei legami
con le sensazione corporea, ecc.
Obiettivi molto generici, banalmente veri e forse
estensibili anche ad una popolazione mediamente sana, hanno
bisogno di un vedersi calati nei processi di elaborazione
individuali e nei processi e percorsi terapeutici
individuali. Anche se l’approccio può essere gruppale,
questi aspetti devono essere tenuti in considerazione in
maniera più attenta e particolare che nell’ambito educativo
o di crescita personale. Pensando a quali obiettivi va tenuto
sempre ben presente che un risultato auspicabile per un
paziente non sempre, anzi quasi mai, corrisponde al
raggiungimento di stati ideali di equilibrio e benessere,
quindi va rivalutato tutto il sistema di misurazione e
programmazione di obiettivi e finalità, appunto. Questi
vanno resi pragmaticamente raggiungibili dai singoli
pazienti consapevoli dei tempi di ricovero, delle risorse
disponibili, delle priorità e sono inoltre il frutto della
condivisione dell’equipe, oltre che dal paziente stesso.
Nello specifico dei casi clinici, anche in riferimento alla
casistica reale, ci si trova nella necessità di lavorare su
tematiche relazionali quali quelle intercorrenti con i
genitori, o su istanze interne quali aggressività e rabbia,
quadri dissociativi, fobie, o ancora su aspetti patologici
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del comportamento quali potrebbero essere l’iperattività,
comportamenti autolesonistici e via discorrendo.
Ulteriore sottolineatura, che apparirà ridondante, è
sulla necessità di rendere così flessibile l’approccio e il
lavoro tanto da poter assorbire le continue oscillazioni che
il quadro psicopatologico può avere all’opposto l’estrema
cristallizzazione che prevede dei tempi evolutivi più lunghi
del tempo messo a disposizione dal ricovero.
Elementi terapeutici in psicomotricità relazionale
Nel corso dell’esperienza presso la struttura
psichiatrica di Brusson, nella necessaria continua revisione
e ridefinizione delle modalità di lavoro sono emersi una
serie di elementi che a livello terapeutico possono a mio
parere aggiungersi all’impianto teorico e metodologico della
psicomotricità relazionale che Vecchiato ha già
abbondantemente ed esaustivamente disegnato nei vari
scritti.
Quanto già presente in letteratura ovviamente rimane
valido, con tutto ciò che doverosamente ne costituirà un
adeguamento alle nuove scoperte in ambito neuropsicologico
e alle prassi evidence based, oltre che un ampliamento
costituito dalle esperienze cliniche e le sperimentazioni
nei diversi ambiti di intervento – vedi ad esempio i
risultati della sperimentazione in ambito filogenetico con
i bambini riassunto nel volume “Psicomotricità relazionale:
Le mappe emotivo-comportamentali dall'infanzia
all'adolescenza" (Vecchiato 2017).
Nella mia esperienza clinica in ambito psicomotorio mi
sono trovato a riflettere spesso su quali modalità stavo
mettendo in atto nel portare avanti le sedute e raccolgo qui
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di seguito i vari elementi non originali, ma rubati da
approcci terapeutici che poco hanno a che vedere con la
psicomotricità relazionale, pur costituendo a mio modo di
vedere un valido spunto per spiegare alcune dinamiche della
relazione terapeutica e anche del funzionamento della
terapia stessa: sono meccanismi terapeutici, processi che
non vogliono guardare all'aspetto contenutistico né teorico
ma solo a ciò che a livello procedurale può spiegare il
funzionamento – o meno – di ciò che si fa.
La mia idea è di poter guardare oltre, ovviamente, a
processi che sono ben conosciuti e forse fin troppo citati
e banalizzati: tailoring della terapia, lavoro sulla
resilienza, empatia, ecc.
La maggior parte degli input sono derivati dalla
neurolinguistica ipnotica ericksoniana e qualcos'altro –
poco – dalla terapia sistemica che sono le scuole
terapeutiche che hanno fatto un maggiore sforzo nei decenni
per decodificare alcuni processi terapeutici che inquadrino
e utilizzino la relazione e il contenuto emotivo/affettivo.
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Ricalco guida: è fondamentalmente una delle strutture
neurolinguistiche base nella psicoterapia ipnotica
ericksoniana. Si tratta della possibilità di attivare
nell’interlocutore una capacità di sentirsi accolto e
rispecchiato in prima battuta, per poi creare un campo
affermativo – così si definisce in neurolinguistica
ericksoniana – in cui guidare letteralmente l’interlocutore
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Si potrebbe fare un giusto appunto a questa mia affermazione: la terapia cognitivo-comportamentale
lo fa da sempre – il trovare tecniche e strategie di risoluzione nei processi psicoterapici – così come
tutti gli approcci in fondo: terapia transazionale con lo studio dei giochi, la terapia reichiana o
bioenergetica ad esempio con tutti gli esercizi da attuare e ripetere, la terapia costruttivista con
l'analisi e modificazione dei ruoli e dei campi semantici. Ma l'appunto è che in realtà nessuna di
queste ha sviluppato un pensiero proprio e innovativo su quali elementi emotivi e relazionali vengono
implicati nei processi trasformativi, non esclusivamente, quindi, tecniche ed esercizi come di solito
accade. Per concludere questa nota, ribadisco la scelta di alcuni approcci e elementi terapeutici in essi
nati per il loro apporto sul piano emotivo-relazionale più che meramente tecnico.
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in un’altra direzione più vicina all’obiettivo che ci si è
prefissati. Il ricalco consiste nel riprodurre forme
verbali, ambiti di interesse, ma anche posture, movimenti,
prossemica che permettono al terapeuta di coltivare un
terreno comune fertile in cui il paziente può più facilmente
accettare e accogliere la guida del terapeuta – che non sarà
esplicita ovviamente, ma indiretta – verso appunto un
orizzonte trasformativo.
In realtà a ben vedere è qualcosa che lo psicomotricista
impara a fare con i bambini -anche senza esserne consapevole-
quando ne imita il gioco o una postura per poi proporre
qualcosa di differente, anche se non troppo.
Zona di sviluppo prossimale: concetto chiave dello
psicologo russo Vygotskij che concettualizza la necessità di
considerare l'evoluzione cognitiva e degli apprendimenti
come area in cui poter permettere al bambino di avere un
obiettivo raggiungibile ad una distanza adeguata a poter
fare quel passaggio che gli permette una nuova acquisizione
di competenze con una fatica a lui proporzionale e possibile
e un minimo aiuto dell'adulto. Quanto Vygotskij teorizza lo
ritengo un passaggio fondamentale se trasposto nel processo
terapeutico e nella psicomotricità relazionale in quanto
porta l'attenzione sulla necessità di creare aree
adeguatamente problematiche in cui il paziente riesce a fare
un passo evolutivo in modo autonomo – o quantomeno percepito
come tale – al fine di raggiungere uno stadio evolutivo
successivo alla condizione precedente, attraverso un livello
di fatica idoneo alle sue risorse disponibili in quel momento
e riuscendo a far fronte ad una frustrazione adeguata e
superabile.