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1.1. Prima della tragedia: i poeti e il potere
Lo studio del nesso fondamentale tra mito e diritto prima di intrecciarsi nella
carta stampata e nei manuali di filosofia o opere teatrali, parte da noi. Dalle
persone. Le stesse che applicano il diritto e studiano la storia, le stesse che seguono
(o seguirono) miti e religioni. E quindi sembra doveroso, essendo alla fine le
persone stesse i destinatari finali e l’oggetto del compito organizzatore che i due
rami qui esposti hanno, parlare brevemente di come dall’alba dei tempi artisti e
scrittori (portatori con le loro storie, poesie e raffigurazioni eterne di miti che ancor
oggi sentiamo vivi in noi e nel nostro retaggio) e i legislatori (autori o più esecutori
del diritto antico) siano vissuti, ascesi e caduti insieme. E di come i primi abbiano
avuto un peso determinante nella formazione del consenso (presente e futuro)
verso i loro protettori e patrocinatori. La storia di Gaio Cilnio Mecenate e del
circolo che egli stesso radunò (e che circolo, tra Orazio, Virgilio e Rufo)
1
intorno
ad Ottaviano è un esempio fin troppo calzante, tanto da essere stato fondatore ed
eponimo: da egli nacque il mecenatismo, fenomeno di protezione e sostegno ad
artisti, intellettuali e letterati da parte di uomini (politici e non) ricchi e potenti in
cambio di divertimento o opere ritenute a essi favorevoli
2
. Largamente diffusosi
anche a un millennio e più di distanza nell’Italia comunale
3
, Virgilio stesso ne fa
riferimento con l’inciso “haud mollia iussa” contenuto nel terzo libro delle sue
Georgiche, riferimento agli ordini che Mecenate stesso gli impartì di scrivere un
poema sulla vita agreste e le bellezze della campagna e dei “mos maiorum” proprio
con l’inizio di alcune politiche di forte sostegno ai medi e piccoli proprietari terrieri
1
Solo per citare i tre più importanti che nel 39 a.C. si unirono al circolo fondato e finanziato da
Mecenate, grande uomo di cultura e conoscitore dell’enorme impatto che l’arte e gli artisti potevano avere
sull’opinione pubblica. A questi poi si unirono, per completare la sua cerchia, anche Properzio e vari poeti
minori (Caio Melisso, Emilio Macro, Cornelio Gallo solo per citarne alcuni)
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Non tanto favorevoli personalmente (nessuno dei tre citati fece direttamente un’epopea di
Augusto e mantennero anche una certa indipendenza), quanto favorevoli ad un ordine politico nuovo, una
età dell’oro che vide in Ottaviano il realizzatore di un’epoca di rinnovato benessere (la “pax Augusta”,
appunto)
3
Collegato qui al concetto di magnificenza, intesa come committenza di grandi opere pubbliche e
private che consentissero ai leader politici di dimostrare la loro superiorità. Non a caso proprio Lorenzo il
Magnifico sarà il portavoce di questa rinnovato sviluppo artistico, convocando alla corte di Firenze artisti
del calibro di Pico della Mirandola, Botticelli, Michelozzo. E, rimanendo nella Capitale, i papi del tempo
furono ben lieti di proseguire sulla scia di Augusto e di Mecenate.
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da parte di Ottaviano Augusto. Significativa è anche l’ode 3,3 in cui Orazio
imbocca Eracle e Polluce dicendo che in mezzo a loro vi sarà Ottaviano Augusto,
pronto a bere il nettare degli dei. Un’immagine in realtà presa a prestito dall’Idillio
17 di Teocrito dedicato a Tolomeo I, faraone d’Egitto situato insieme sempre ad
Eracle e ad Alessandro Magno, in cui si riafferma anche il valore salvifico e
importantissimo per la memoria e il ricordo della poesia, unico e solo mezzo di
divinizzazione (quella che Orazio e gli Ellenisti aiutarono a far sviluppare intorno
ad Augusto e Alessandro rispettivamente). E allora cominciamo il nostro viaggio
dall’Italia, ma (come ogni retaggio della nostra società Occidentale) dobbiamo
spostare il focus sulla “Magna Graecia” di Siracusa e dell’allora Etna, comandate
dall’ecista e tiranno Ierone. Sull’onda della vittoria di una gara olimpica datata
certamente al 476 a.C., il tiranno per suscitare ancora di più consenso intorno alla
sua figura divenne il protagonista di due canti: l’Olimpica I di Pindaro e l’Epinicio
V di Bacchilide. Tralasciando i numerosi e pur interessanti studi e analisi intorno
all’occasione di scrittura e composizione dei due canti, è il contenuto del carme
Bacchilideo a porre quest’ultimo su un piano diverso dai semplici carmi
autocelebrativi e privati di cui pure abbiamo numerosi esempi (la stessa Olimpica
di Pindaro è stata presumibilmente composta per essere letta ad un banchetto di
festeggiamenti in onore del tiranno). Autocelebrazioni che accrescevano la fama
di entrambi i protagonisti: al tiranno davano esaltazione e una legittimazione del
suo potere e della sua forza, al poeta invece visibilità e fama, ma soprattutto un
palcoscenico davanti all’alta società. E fa specie però che Bacchilide sfrutti il suo
palcoscenico con un carme fortemente tetro, molto più vicino al tragico che
all’epico, con riferimenti costanti al proverbiale “rutmos” tra bene e male che
regola lo svolgimento della vita e degli avvenimenti umani, presentando il mito di
Meleagro. Siamo molto lontani dai classici “topoi” delle celebrazioni sportive e
politiche, anzi qui il terreno è molto più simile ad un avvertimento verso una
fortuna e una fama che non possono essere a ragion veduta eterne. Meleagro stesso
è un esempio della fragilità umana, mentre il pregevole (e a quanto pare innovativo
per l’epoca) collegamento alla morte di Eracle e a Deianira sono il canto del
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destino tragico, dell’eroe segnato da un destino sventurato a cui non può sottrarsi.
La stessa struttura dialogica ed alcune immagini che Bacchilide utilizza rendono
l’Epinicio più complementare alla tragedia che a un carme celebrativo. Per capire
tale passaggio, è utile studiare le caratteristiche del mito di Meleagro e della sua
morte nelle varianti giunte fino a noi: fondamentalmente ve ne sono tre, morte per
mano di Apollo (Eonie), per mano della maledizione materna (Omero e l’Iliade),
per mano diretta di Altea che brucia il tizzone nelle fiamme (Bacchilide, ma anche
le Pleuronie e le Coefore, due tragedie per l’appunto). Fatta eccezione per questo
e per l’elemento del tizzone che le Moire raccontarono alla madre Altea legando
la vita del suo figlio alla bruciatura di esso, il mito presenta gli stessi elementi di
un guerriero valoroso, liberatore dei Calidoni dallo scontro contro il cinghiale
mandato da una risentita Artemide nella sua terra per vendetta contro il padre
Oineo e soprattutto l’ira funesta (assimilata da Omero a quella del Pelide Achille)
di Meleagro quando, nella guerra per la pelle della bestia, egli uccise senza pietà i
tre zii materni, portando (in due delle tre versioni) la madre a ucciderlo e poi pentita
a uccidersi, compiendo il gesto finale della maledizione delle Moire. Ma la storia
mitica non finisce qui, anzi comincia a essere interessante e innovativa nella sua
prosecuzione con Deianira ed Eracle. Rilevante è infatti guardare a come i due miti
siano tra loro perfettamente collegati, lo stesso Pindaro nel Ditirambo II continua
su questa linea rendendo l’incontro con Meleagro il momento saliente della discesa
di Eracle negli Inferi, differenziandolo solo nell’aver dato a egli stesso la volontà
di sposare la giovane Deianira, mentre in Bacchilide è la preghiera della sventurata
anima del Calidonio a spingere Eracle a salvare e prendere in sposa la giovane
fanciulla rimasta, in un dettaglio che sottolinea ancor di più l’inevitabilità del
destino, scandito dalle lacrime condivise dai due lungo una tristezza improvvisa e
profonda per l’infelicità degli uomini e l’ingiustizia delle assenti e lontane
divinità
4
. Riguardo il mito vero e proprio, Pindaro e Sofocle ci vengono in
4
“sentii mancarmi la vita
e agonizzando capii,
nell’estremo respiro piansi, infelice,
la giovinezza fulgente che abbandonavo.
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soccorso, raccontando la nascita e le vicende (successive alla presa di Ecalia) di
Eracle, Iole e Deianira. Se però nelle Trachinie sofoclee Deianira non perde la sua
natura di fanciulla virginale e innamorata del suo sposo, in Pindaro e nei brevi e
sottili riferimenti di Bacchilide si ravvede una potenza tragica e scardinatrice, un
elemento di forza e distruzione tale da rendere Deianira un’antenata di quella
Medea euripidea che incardinerà in sé meglio di qualunque personaggio
mitologico nella storia del pensiero e della letteratura Occidentale queste figure.
Lei è perfettamente consapevole del tradimento di Eracle con Iole e, incurante di
quest’ultima, prepara la sua vendetta, imbevendo la tunica del marito col sangue
che il centauro Nesso (ucciso dal semidio con una freccia mentre stava tentando di
stuprare la stessa Deianira) e bruciandolo, in maniera del tutto simile a quello che
Altea fece verso suo figlio. A ragione infatti si vede da parte degli storici la volontà
dell’Epinicio di creare un parallelismo tra le figure di Eracle e Meleagro: entrambi
eroi valorosi e autori di imprese mitiche, entrambi perseguitati dalle divinità hanno
condotto e, soprattutto, finito la loro vita in maniera del tutto speculare. Bruciando
nel fuoco dell’ira delle donne che più li amavano e, allo stesso tempo, più li hanno
odiati: il perfetto sfondo al lamento funebre che Bacchilide descrive in modo così
poetico. Gli stessi termini poetici “leucolenos” (usato per la rabbia di Artemide
contro Meleagro ed Era verso Eracle nell’Iliade) e “trasumemnon” verso Meleagro
(da “trasus”, radice di molti aggettivi che i poeti hanno riservato ad Eracle) sono
prove filologiche del parallelismo creato ad arte dal poeta commissionato da
Ierone. Sembra abbastanza esplicito quindi la perplessità degli storici di guardare
a questo carme come una semplice composizione in onore di Ierone. Potrebbe
Dicono che solo allora
all’impavido figlio di Anfitrione
si inumidirono gli occhi, piangendo
il destino di quell’infelice
e così gli rispose: «Per l’uomo
meglio non essere nato,
non avere mai visto la luce
del sole; ma nessun profitto
c’è nei lamenti: dobbiamo dire piuttosto
quello che è destinato a compirsi”, Bacchilide, Epinicio V, vv. 151-164, trad. di G. Paduano, tratto
da http://www.civiltagreca.org/epinicio-v,-2.html
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allora essere utile spostare il rapporto tra mito e diritto dal piano strettamente
personale a quello molto più ricco dell’organizzazione del diritto. È noto infatti
come le “poleis” greche fossero molto autonome ed indipendenti intorno alla loro
forma di governo e che una tirannia facesse presa in particolare sul popolo grazie
all’uso spregiudicato di politiche demagogiche e anche con l’aiuto proprio di
quegli elementi di cui i carmi celebrativi erano intrisi. Ma il dissenso era sempre
presente e il tiranno doveva sempre tenere alta la guardia verso quella nobiltà che
si tentava di cancellare dalla scena politica, la stessa pronta a prendere il potere
nelle forme dell’oligarchia. Bacchilide ne è consapevole, e alcuni versi
dell’Epinicio ci fanno presumere che esso, destinato com’era alla proclamazione
pubblica, fosse un modo ardito per “tenere due piedi in una scarpa”, assicurando
tramite la figura dell’aquila che fende il cielo l’esaltazione di Ierone
5
, e però
manifestando una sensibilità spiccata per quegli elementi su cui si fonda il concetto
stesso di aristocrazia. Prendiamo ad esempio alcuni importanti passi dedicati
all’assassinio degli zii di Meleagro: il termine usato nell’Iliade è “polloùs”, molti.
Un semplice riferimento quantitativo. È con Bacchilide che la situazione si ribalta,
portando alla comparsa di Agelao, la sua indicazione come fratello di Altea e zio,
l’aggettivo “fertatos”, simbolo di eroismo e di una famiglia eroica. Da Bacchilide
conosciamo anche Ificle e Atarete
6
, i nomi degli zii materni di Meleagro. Gli stessi
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“L'aquila fende
l’aria profonda in alto
con le fulve ali
veloci, la messaggera
di Zeus tonante e possente,
fiduciosa nella sua forza;
si nascondono per la paura
gli uccelli canori, e non la fermano
le vette della vasta terra e neppure
gli ardui marosi
del mare instancabile: muove
nel vuoto immenso le penne
sottili al soffio di Zefiro,
la sua criniera,
ed è ben visibile agli uomini”, Bacchilide, Epinicio V, cap. I, vv. 16-30
6
“E non smise la collera la cacciatrice,
la forte figlia di Leto;
combattemmo continuamente per la splendida pelle
con i bellicosi Cureti,
e io insieme a molti altri
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riferimenti ad Oineo e ad Altea sono indicativi di un rinnovato interesse per il
nucleo familiare e gli influssi che esso ha. La morte di Meleagro è conseguenza
stessa della profanazione, ingiusta e da condannare, della famiglia, la stessa che
l’ha cresciuto. Se tenere in considerazione questi elementi è fondamentale e
testimonia la volontà del poeta di non accattivarsi possibili nuovi committenti e
l’élite culturale della città, non bisogna dimenticare qual è il contesto e a quale
onore è dedicato l’Epinicio. E i miti di Meleagro ed Eracle sono esplicativi nel loro
sguardo sospettoso e duro verso i legami di sangue. D’altro canto, non è forse il
sangue ciò che conduce i protagonisti dei due miti alla morte? Il sangue di Nesso
per il semidio e il sangue versato dei suoi zii per Meleagro? Lo stesso Calidonio è
praticamente protagonista, carnefice e vittima di una famiglia a dir poco
disfunzionale viste le cause e i motivi che porteranno ai suoi
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e al di lui omicidio.
Bacchilide però non manca neanche di biasimare, in modo totale e senza appello,
la figura femminile. Molti studiosi hanno tentato una facile spiegazione con la
misoginia tipica della Grecia antica, ma qui i canoni tipici di quest’ultima sono
superati di gran lunga. Non solo perché due donne sono effettivamente le assassine
degli eroi, ma anche e fondamentalmente per il disprezzo assoluto dei loro sacri
ruoli di madre e moglie, la manipolazione e la vendetta furente che le rendono non
più capostipiti del focolare e punto focale della famiglia e della stirpe tanto cara ad
aristocratici e oligarchi ma anche esseri pericolosi e portatori di morte. Rinchiusa
in questa visione, la donna perde la sua centralità che almeno nelle mura
domestiche le veniva riconosciuta dalla nobiltà e finisce con l’essere assorbita da
una coesione cittadina assolutizzante tipica di chi ha in sé tutto il potere (la tirannia
e Ierone appunto) ma anche di chi assegna il potere a tutti (le democrazie), facendo
venir meno anche quel poco del ruolo specifico che le donne si ritagliavano
faticosamente nell’epoca antica. Tutti elementi che ci riportano a considerazioni
uccisi Ificlo ed il coraggioso Afareto,
miei zii materni”, Bacchilide, “Epinicio V”, vv.123-129, trad. di G. Paduano, tratto da
http://www.civiltagreca.org/epinicio-v.html
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La guerra mossa alla città di Calidone dagli zii per vendicare l’assassinio di Plesippo che aveva
provato, senza successo, a rubare la pelle del cinghiale calidonio da Meleagro ed Atalanta: A. Cerinotti
“Atlante dei miti dell’antica Grecia e di Roma Antica”, Demetra, Verona, 1988
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molto più accettate e accettabili per il “mecenate” di Bacchilide che, nel tentativo
di non scontentare nessuno, riesce a giostrarsi tra le diverse opinioni dei grandi che
si contendevano i suoi servigi e la sua poesia, quasi (parole di Maria Elena
Antonino ma che ritengo calzanti) mettendosi nella condizione di “osservare
beffardo, come una divinità dall’Olimpo, questo incessante accapigliarsi
umano”
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, unico e solo vincitore che la storia tramanderà di beghe morali e politiche
che troppo spesso inquinano e annacquano il diritto.
1.2 Platone e il mito di Er
La figura di Platone è centrale nella storia dell’umanità. Nei suoi Dialoghi
e scritti filosofici l’allievo di Socrate ha creato il mondo contemporaneo, una
scuola di pensiero, etica e politica a cui tutti i filosofi successivi (più o meno fedeli,
più o meno concordi) hanno dovuto soggiornare. Da pensatori e studiosi del diritto,
e ancor di più da persone che basano fondamentalmente la loro intera attività e
studio sul concetto di responsabilità, è davvero il minimo sottolineare il ruolo
dell’etica platonica come erede e sistematizzatrice delle basi già poste dal suo
maestro Socrate e un deciso passo in avanti verso la moralizzazione delle relazioni
umane e del mondo circostante. Concetti che, nella letteratura più contemporanea,
William Adkins ha espresso compiutamente nel suo “Merit and Responsibility. A
Study in Greek values”, ridando a essi nuovo vigore e seguito. Egli sosteneva che,
essendo il passaggio dalla comunità prefilosofica a quella filosofica segnato dalla
trasformazione della società Ellenica tribale e guerriera in una comunità di
cittadini, un ruolo fondamentale fosse stato svolto dalla ristrutturazione dei termini
stessi che possiamo riscontrare nel medesimo periodo storico. E protagonista di
quest’analisi semantica applicata al metodo filologico non poteva essere
nessun’altro a parte Platone. Parafrasando le risultanze di Adkins che si ritrovano
anche in Nietzsche, nella società arcaica i valori di virtù, bontà e superiorità erano
associati ad un contesto fortemente competitivo e contraddistinto dal superare gli
8
Antoniono M.E., Cesca O., “Sangue che uccide. Il committente, il pubblico e il poeta
nell’Epinicio V di Bacchilide”, Annuali Online lettere Ferrara- Vol.I e II, 2011, pag. 338