3
Introduzione
Il mio interesse nei confronti del lavoro storiografico di Edward Palmer Thompson (1924-
1993) è nato quasi per caso. Ero interessata a un argomento che toccasse l’ambito della
storia del folclore, possibilmente legato all’Inghilterra del Settecento, un periodo storico
che ha sempre destato in me una certa “romantica” curiosità, nutrita anche dal fascino
suscitato da alcune pellicole, prima fra tutte Barry Lyndon di Stanley Kubrick. Così, nelle
mie ricerche, mi sono imbattuta nel libro di Thompson che accoglie e amalgama, con
grande finezza e soprattutto con spirito critico, diversi punti di osservazione su questo
campo di studio, ovvero Società patrizia. Cultura plebea. Otto saggi di antropologia
storica sull’Inghilterra del Settecento. La raccolta di saggi, pubblicata nel 1981 nella
collana Microstorie dell'editore Einaudi, venne curata da Edoardo Grendi, storico
genovese studioso di storia moderna, il quale dedicò una parte importante dei suoi studi
di critica storiografica proprio alle ricerche di Edward Palmer Thompson. Ho potuto
quindi leggere le storie (non solo la Storia) scritte dallo storico inglese «con gli occhiali
di Grendi», per usare un' espressione del professor Raggio. Lo studioso italiano, infatti,
tra le altre cose, curò e scrisse l’introduzione di Società patrizia, cultura plebea,
contribuendo a far conoscere Thompson in Italia e ampliando così le prospettive di studio
sulla cultura popolare, in particolare nel solco tracciato dalla ricerca microstorica.
Strumento fondamentale per la stesura della tesi è stata anche un'altra raccolta di saggi
dello storico inglese, intitolata Customs in Common, pubblicata a Londra nel 1991. Oltre
a comprendere saggi dedicati alla cultura popolare inglese del Settecento, come quello
sulla vendita delle mogli o la rivisitazione del concetto di economia morale, l'opera è
aperta da una introduzione di Thompson, ricca di confronti con pensatori sia
contemporanei che del passato, in cui lo studioso mette in luce l'importanza, mai scontata,
dell'analisi del contesto storico nello studio della «popular culture», auspicando, tra
l’altro, un atteggiamento di cautela nell'applicare generalizzazioni in tale ambito di studio.
Mi sono accinta con non poca difficoltà allo studio dei densi saggi di Thompson, ricchi
di riferimenti anche ad altre discipline, come l’economia, la letteratura (il “primo amore”
di Thompson, come ha ammesso lui stesso in una intervista rilasciata poco tempo prima
di morire) e l’antropologia. È infatti difficile rendere conto e analizzare in modo completo
l’ampio spettro di analisi condotte da Thompson sulla storia sociale inglese del XVIII
secolo; in questo lavoro ho esaminato solo alcuni aspetti della cultura popolare oggetto di
studio dello storico, mentre altri, come l’importante saggio Whigs e cacciatori e la
monografia su William Blake (Apocalisse e Rivoluzione), pur essendo stati letti con
4
attenzione, non sono oggetto di riflessione in questa sede, non in quanto considerati meno
importanti ma perché richiederebbero analisi particolari, maggiormente circostanziate e
approfondite. Nel corso delle mie letture, mi sono accorta che alcuni nomi sono ricorrenti
e che la storiografia italiana ha dato il suo lontano ma importante contributo agli studi
condotti dallo storico di Oxford attraverso, per esempio, le opere di Carlo Cipolla sul
rapporto tra società e concezione del tempo, o il pensiero di Gramsci, la cui ispirazione
storiografica è stata accolta favorevolmente da Thompson.
Ho scoperto, leggendone le opere, che quello condotto da Thompson è stato un lento,
metodico lavoro di cesellatura per la precisione dei riferimenti e per l’ampio insieme di
fonti cui ha attinto. I saggi mi sono piaciuti per lo stile di scrittura, per la nutrita gamma
di testimonianze (alcune particolarmente sapide) tratte da fonti primarie, e perché l'autore
esclude qualsiasi circonvoluzione retorica a favore di una ricostruzione storica capace di
restituirci la vivacità di pensiero e di azione di uomini e donne che, nel XVIII secolo come
oggi, sono portatori, ognuno, del proprio bagaglio di esperienze e di speranze.
Mi auguro che il modo con cui ho osservato e (spero) compreso le opere storiografiche di
questo importante autore rendano appieno, nonostante i vari limiti di ordine teorico ed
epistemologico che ancora accompagnano il mio studio della Storia, la sincera curiosità
che mi ha avvicinato a questo tema, una curiosità che, dopotutto, non è altro che il motore
della scoperta.
5
1. LA CULTURA “PLEBEA”.
1.1. Che cosa intende E. P. Thompson per “cultura plebea”?
Lo storico inglese sembra ergersi a paladino della cultura popolare, un’entità sempre di
difficile definizione, sì, ma che è il prodotto di quella massa di lavoratori che ben si
distinguono dalla gentry inglese non solo per le condizioni economiche ma anche e
soprattutto per il fatto di avere dei costumi loro propri, stendardi di quella grande
“squadra” sociale formata, appunto, dalla plebe.
Del resto, è difficile far rientrare in un unico insieme gli interessi storici di Thompson,
che spaziano dalla storia all’economia, alla filosofia, per arrivare all’antropologia.
Sicuramente, oltre ad aver dato un importante e fecondo contributo agli studi storici del
Novecento, le ricerche di Thompson possono essere fatte rientrare nell’ambito dei
Cultural Studies, nati alla fine degli anni ’50 del secolo scorso proprio in Gran Bretagna,
grazie all’interesse del critico letterario Richard Hoggart, dei sociologi Raymond
Williams e Stuart Hall e, appunto, di Edward Palmer Thompson.
I Cultural Studies sono difficilmente definibili, a causa del loro carattere obliquo, capace
di attraversare diverse discipline (come fa, del resto, la branca della microstoria, di cui si
parlerà più avanti) e sono caratterizzati da un approccio plurimetodologico, utile ad
investigare nuovi campi di studio (come quelli sui media, sui film, sulla musica, sui
giovani, etc.). La definizione di Cultural Studies, o meglio l’obiettivo che si prefigge, ci
viene specificato da Stuart Hall: «cercare di portare alla luce tutte le contraddizioni
inerenti al rapporto tra cultura e potere nelle moderne società di massa»
1
. Quindi,
«l’oggetto di studio dei Cultural Studies può essere rappresentato da un qualsiasi
fenomeno culturale ritenuto politicamente significativo per l’analisi dei rapporti tra potere
e cultura»
2
. Qui potremmo evocare il risalto dato da Thompson al “teatro” dei potenti,
come quello dei giudici inglesi del ‘700, seguiti dal trucido spettacolo dei cadaveri lasciati
imputridire sulle forche.
Ora, non dobbiamo, a mio parere, cedere alla tentazione di considerare Thompson un
antropologo: egli rimane fedele al rigoroso metodo storiografico di studio delle fonti
scritte, di archivi e di analisi del passato.
1
Stuart Hall, Miguel Mellino, La cultura e il potere. Conversazione sui «Cultural studies», Roma 2007,
p.10. Citato in Carla Pasquinelli, Miguel Mellino, Cultura. Introduzione all’antropologia, Roma 2013.
2
Carla Pasquinelli, Miguel Mellino, Cultura. Introduzione all’antropologia, Roma 2013, cit. p. 238.
6
Purtuttavia, è difficile non vedere nella definizione di Hall una similitudine con l’ottica
thompsoniana di indagine della cultura plebea inglese del XVIII secolo.
Lo storico genovese Edoardo Grendi, nella sua Introduzione alla raccolta di saggi di
Thompson, Società patrizia, cultura plebea, riprende alcune parole del saggio “Folklore,
antropologia e storia sociale” (1976) dello storico inglese: «”L’impulso antropologico” è
avvertito “piuttosto che nella costruzione di modelli, nell’individuazione di nuovi
problemi, nel vedere vecchi problemi in modi nuovi, in un’enfasi su norme o sistemi di
valore e rituali, nell’attenzione alle funzioni espressive di forme di azione sociale e alle
espressioni simboliche di autorità, controllo ed egemonia»
3
.
Altro punto di contatto, forse un po’ forzato ma che comunque la dice lunga sul carattere
peculiare dei rispettivi studi, è un certo atteggiamento critico, sia nei confronti delle
discipline umanistiche tradizionali, totem dell’eurocentrismo, da parte dei cultori degli
studi culturali, fortemente interessati alla cultura degli strati sociali lasciati ai margini
delle “civiltà” occidentali (si pensi, ad esempio, alle comunità immigrate che non
venivano considerate dalla cultura “alta”, come quella inglese, espressione di un
atteggiamento elitario teso ad affermare la priorità della “Britishness” di stampo
coloniale), sia verso una certa «marxiologia» che, disgiunta dal metodo del materialismo
storico, ottusamente allontana dalla realtà, laddove Thompson è da sempre ostile ad una
riduzione deterministica della storia.
Grendi afferma: «Thompson respingeva certamente una nozione di cultura basata
unicamente sulla coerenza cognitiva»
4
. Anche qui, potremmo stabilire una tangenza con
una delle premesse dei Cultural Studies, e cioè il fatto che, più che di studio della cultura,
si dovrebbe parlare di studio di «pratiche culturali», cioè fenomeni, eventi, pratiche,
proprio come quelli indagati da Thompson nei saggi sulla cultura plebea
5
.
La consapevolezza della mancanza di autonomia dei “testi” che vengono indagati mette
in risalto l’importanza dell’analisi del contesto storico di cui bisogna inevitabilmente
tener conto nel corso della ricerca sulla cultura popolare.
È importante ricordare il punto di partenza storiografico di Thompson, che lo distingue
sul piano metodologico dal tipo di ricerca che è proprio di un antropologo.
3
Introduzione a Società patrizia, cultura plebea, p. XXIV.
4
E.Grendi, E. P. Thompson e la «cultura plebea», da Quaderni Storici 85 / a. XXIX , n. 1, aprile 1994,
cit. p. 244.
5
Vale la pena riportare un’affermazione di Iain Chambers, altro esponente dei Cultural Studies: «la gente
vive attraverso la cultura e non a fianco di essa. E dunque […], dobbiamo per prima cosa guardare con
estrema attenzione alle diverse realtà di cui è fatto il mondo che tutti noi abitiamo». Iain Chambers,
Popular culture. The Metropolitan Experience, London 1985 in C. Pasquinelli, M. Mellino, Cultura,
Roma 2013, cit. p. 246.
7
Sennonché il carattere di disciplina di frontiera dei Cultural Studies permette di cogliere
delle similitudini con la pratica storica dello studioso inglese.
Grendi coglie le linee essenziali dell’approccio di Thompson e afferma quanto segue:
«[…] il ricupero della dimensione dell’esperienza storica consente di ricuperare come
oggetti storici la morale (modello normativo di scelta) e la cultura intesa come modo di
vivere i valori: […]»
6
. Questo implica una «autonomia della sovrastruttura» che segna il
maggior distacco di Thompson dal paradigma marxista e in particolare da quello
strutturalista di Lévi-Strauss e soprattutto di Althusser.
Thompson si guarda indietro per capire su quali basi sociali e culturali si fondasse la
grande prima Rivoluzione Industriale, mettendo in evidenza la trasformazione, o meglio,
la reazione a questa svolta storica che si ebbe da parte della massa lavoratrice. Riuscì a
mettere insieme una grande raccolta di ‘casi storici’ che riguardavano la storia nazionale
inglese, facendo riferimento a fonti di diverso tipo (giornali come la «London Gazette»,
volantini, opuscoli, opere letterarie, tradizioni orali ecc.) che venivano poi studiate
secondo la «disciplina del contesto», ovvero la Storia.
Lo storico di Oxford si rivolge dunque allo studio dell’ancien régime e compie una
disamina approfondita del concetto di cultura plebea nei saggi dedicati ad alcune di queste
manifestazioni del costume popolare inglese del XVIII secolo (quelli sulla rough music,
sulla vendita delle mogli, sulle lettere anonime, etc.), dove è possibile trovare, tra l’altro,
alcuni spunti riguardanti il suo metodo e il tipo di analisi storiografica che conduce.
Nell’Introduzione al suo saggio Customs in Common, Thompson chiarisce subito che il
pomposo richiamo alla tradizione di cui soleva ammantarsi la società inglese del
Settecento aveva almeno due importanti connotazioni: una connotazione che noi oggi
chiameremmo «culturale» e una legata al diritto consuetudinario, altro grande bastione
tema della sua ricerca storiografica (sul quale è imperniato il saggio Whigs e cacciatori).
L’aspetto su cui insiste lo studioso è l’importanza del contesto storico: «The plebeian
culture […] was not self-defining or independent of external influences. It had taken form
defensively, in opposition to the constraints and controls of the patrician rulers»
7
.
Thompson delinea poi alcune delle caratteristiche fondamentali della cultura plebea del
Settecento in Inghilterra: l’importanza dell’apprendistato, non solo per l’acquisizione di
conoscenze utili al lavoro, ma anche come «mechanism of inter-generational
transmission»
8
, cioè come introduzione al bagaglio sapienziale della comunità; la
6
Introduzione a Società patrizia, cultura plebea, p. XI.
7
E.P. Thompson, Customs in Common, London 1993, cit. p. 6-7.
8
Ivi, p. 7.
8
trasmissione orale delle tradizioni, tanto forte da influire anche sulla letteratura fruibile
dalla maggioranza della popolazione, come gli opuscoli religiosi, gli almanacchi, i
volantini; le rappresentazioni popolari (come il “setting the price” durante le sommosse
per il cibo, la vendita delle mogli e la rough music) che servivano a controllare e a
mantenere entro limiti determinati il comportamento degli appartenenti alla comunità,
attraverso manifestazioni dal tono violentemente burlesco, che non facevano appello alla
ragione ma al senso del ridicolo, alla vergogna cui venivano esposti gli individui che
avevano oltrepassato il confine di quello che definiremmo “buon costume”. Queste norme
erano costruite dalla comunità stessa, che perciò, in certo qual modo, si
autoregolamentava.
Altra caratteristica fondamentale della cultura popolare del periodo è la sua forte carica
“laica”: del resto, come ricorda lo stesso Thompson, l’Inghilterra non era mai stata,
almeno dallo scisma anglicano, particolarmente devota alla Chiesa. Infatti, come precisa
l’autore: «The gentry’s overarching hegemony may define the limits within which the
plebeian culture is free to act and grow, but since this egemony is secular rather than
religious or magical it can do little do determine the character of this plebeian culture»
9
.
La cultura plebea, quindi, si compattava nei confronti dell’ideologia dei governanti.
Qui arriviamo a un punto interessante, perché lo storico inglese mette in evidenza due
paradossi: l’innovazione tecnologica, nel momento in cui tocca il processo capitalistico,
è vissuta dal popolo come un tentativo di espropriazione dei diritti d’uso consuetudinari,
o dei modelli lavorativi (pensiamo alle famose recinzioni o alle macchine che prendevano
il posto di artigiani); la massa lavoratrice reagisce ergendosi a difesa della cultura
tradizionale, che diventa perciò una cultura ribelle e allo stesso tempo conservatrice:
ribelle nei confronti dell’egemonia culturale della gentry e conservatrice per quel che
riguarda il proprio bagaglio culturale popolare, comprese le norme consuetudinarie.
Il popolo, però, sapeva anche rispondere ai soprusi della gentry usando le sue stesse armi:
« […] when the people search for legitimations for protest, they often turn back to the
paternalist regulations of a more authoritarian society, and select from among these those
parts most calculated to defend their present interests […] »
10
.
Thompson mette in evidenza la dialettica persistente tra passato e presente, tra modelli
economici e culturali “tradizionali” (anche se mette in guardia dall’uso di tale termine
riguardo alla cultura popolare, descrivendola piuttosto come qualcosa di specificatamente
appartenente al popolo e quindi come un prodotto sui generis, modellabile dal contesto
9
Ivi, cit. p. 9.
10
Ivi, cit. p. 10.