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CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
Tra le fattispecie di reato che hanno negli ultimi decenni destato maggiore allarme sociale, si
annoverano i reati di matrice tributaria, che normalmente sono realizzati nel contesto
d’impresa. Il peso delle somme sottratte a tassazione, decisamente più significativo di quanto
si potrebbe rilevare nei casi di reati commessi individualmente da persone fisiche, genera
gran timore in relazione agli effetti venefici che i reati in questione chiaramente possono
avere sull’equilibrio socio-economico, finanziario e politico nel nostro Paese.
Il legislatore nazionale ha nel tempo tentato di mantenere il passo con le iniziative e le
pronunce giudiziali delle istituzioni politiche comunitarie, a ragion del fatto che il fenomeno
dell’evasione fiscale, unitamente alle fattispecie di elusione fiscale, che potenzialmente
integrano i reati tributari di cui in premessa, è tanto insidioso quanto diffuso in tutti gli Stati
Membri, destando pertanto non insignificanti paure tra i governatori di tutta Europa e
richiedendo un intervento coordinato da parte di tutti questi per un efficace e tempestivo
contrasto di sostanza e non solo di lettere. È l’implementazione all’unisono delle iniziative
dei singoli Stati che potrà inferire una svolta in senso positivo al radicato problema
dell’evasione di imposta, non essendo rivelato finora sufficiente – pur se necessario – lo
sforzo “di penna” del singolo legislatore sui propri codici di legge.
Il diritto penale dell’economia, storicamente contraddistinto da un indubitabile grado di
specialità rispetto alle regole generali fissate dal codice penale, è stato oggetto di riforme
settoriali, a volte approdate a ricostruzioni sistemiche poco coerenti ed inefficaci, al
confronto con l’importanza del bene giuridico protetto. La natura speciale del diritto
tributario, sommandosi alla specialità del diritto penale economico, ha decretato per lungo
tempo l’isolamento del sistema penale tributario.
I reati tributari, unitamente a quelli societari e fallimentari, costituiscono il nucleo del diritto
penale dell’economia. Il sistema di questi reati è attualmente disciplinato dal D.Lgs. n. 74 del
2000, cui è stato al tempo della riforma assegnato l’arduo compito di contrastare l’evasione
fiscale, dopo l’abbandono della logica di repressione delle condotte prodromiche alla
realizzazione dell’evasione, che faceva capo alla Legge n. 516 del 1982 (c.d. “manette agli
evasori”).
Volgendo lo sguardo alla meta politica del legislatore, ovverosia il benestare del pubblico
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nazionale e – a margine – il successo elettorale, si osserva che da epoca risalente fino a
qualche anno fa il disvalore attribuibile ai reati economici, e in particolare ai delitti tributari,
era purtroppo percepito con distaccata partecipazione dalla popolazione. Dal momento che
gli illeciti fiscali sono apparentemente accadimenti lontani dai bisogni primari dei cittadini,
fintanto che gli animi dei più son stati appagati da un diffuso benessere, il cancro sociale
degli evasori non ha suscitato né preoccupazione né astio. Ciò tanto da non trovare pronto e
chiaro riscontro né da parte dei mezzi di informazione né da parte delle istituzioni governanti,
se non soltanto sporadicamente.
In epoca più recente, l’acutizzarsi dei postumi da globalizzazione politica, socio-economica e
finanziaria, in special modo con l’avvento della crisi delle economie occidentali,
contestualmente alle minacce, da un lato, della spietata competizione in cui i Paesi
d’Estremo Oriente si son cimentati, e, dall’altro, dell’innovazione degli espedienti illeciti
sperimentata dalla criminalità organizzata, hanno evidenziato le molteplici latenti metastasi
dell’evasione fiscale, generatesi in Italia e in Europa.
La c.d. “grande evasione”, di cui alle fattispecie delittuose contenute nel D.Lgs. n. 74 del
2000, e che riguarda le condotte illecite particolarmente lesive degli interessi erariali, è così
divenuto in primis argomento di cronaca quotidiana, allo scopo di smuovere gli animi
assopiti dei cittadini portando sotto i loro occhi la cruda realtà degli scandali finanziari e
fiscali. In alcuni casi, l’evasione è perfino diventata capro espiatorio per distrarre l’attenzione
dalle effettive cause di taluni problemi di attualità, un esempio fra tanti la cattiva salute delle
casse statali.
In ogni caso, nonostante rimarchevole e apprezzabile – per certi versi – sia la visibilità
acquisita dal fenomeno evasivo (cui si aggiunto quello dell’elusione fiscale) a livello
nazionale, in realtà la scossa all’intervento del legislatore è pervenuta dallo scoppio del
dibattito a livello comunitario e in seno alla congrega dei Paesi OCSE. Le pronunce e le
iniziative di origine sovranazionale sono infatti state determinanti per incentivare l’approdo
della questione in sede di formazione delle leggi interne, al fine di affinare e rendere più
incisiva la portata della risposta data al nocivo fenomeno in oggetto sia nell’ambito del diritto
tributario che in quello penale economico.
Negli ultimi anni si è non per nulla assistito ad un affaccendarsi tra legislatore e Governo per
definire un piano di riforma fiscale di ampio respiro e coerente con le esigenze finalmente
emerse alla luce della cronaca.
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Nel presente lavoro si intende esporre la risposta che la materia penale tributaria riserva ai
casi di esterovestizione tributaria, neologismo assunto con una connotazione
prevalentemente negativa per indicare (di norma) gruppi di società che usano le tecniche di
pianificazione fiscale internazionale, costituendo società in altro Stato a minore tassazione
(spesso nei paradisi fiscali), al fine di sottrarsi ai tributi nazionali dello Stato in cui sono
residenti. In particolare, consiste nella fittizia localizzazione della residenza fiscale in Paesi o
territori diversi dall’Italia (in ambito UE o extra UE), così da poter beneficiare del regime
fiscale più favorevole vigente nello Stato estero. Attraverso siffatta iniziativa un’entità
giuridica residente riesce formalmente ad allocare in un altro Paese la propria residenza
fiscale, nonostante conduca nel territorio italiano la propria attività principale, ovvero abbia
in Italia la sede della propria amministrazione.
A tal fine si è scelto di articolare la trattazione in tre capitoli, avendo cura di evidenziare – in
relazione ad ogni argomento ivi contenuto – tanto i principali interventi normativi rilevanti in
tema quanto la dottrina e la giurisprudenza, che spesso sono intervenute a fornire opinioni – a
chiaro intento esplicativo – con riferimento a quegli interventi del legislatore poco illuminati
e/o alquanto criptici.
Il primo capitolo è dedicato all’esame del fenomeno dell’esterovestizione nella sua natura di
fattispecie tributaria, premettendovi la definizione di pianificazione fiscale lecita, nel cui
alveo l’esterovestizione, motivata da ragioni extrafiscali (ad esempio civilistiche e
regolamentari), si protegge dalle sanzioni sia amministrative che penali. A chiusa del primo
capitolo, infatti, si espongono alcune tradizionali linee di difesa a disposizione del
contribuente in quei casi di illegittima contestazione di strategie imprenditoriali di
internazionalizzazione, supportate da effettive motivazioni economiche.
Il secondo capitolo, invece, riguarda l’analisi dei reati tributari, che potenzialmente sono
integrati nei casi di esterovestizione, a condizione che preliminarmente la stessa fattispecie
sia appurata da un punto di vista meramente amministrativo dall’autorità fiscale competente.
I reati in rassegna sono i delitti in dichiarazione di cui agli articoli 4 e 5 del D.Lgs. n.
74/2000, rispettivamente rubricati “Dichiarazione infedele” e “Dichiarazione omessa”. I
dibattiti più accesi si rilevano in merito all’evoluzione normativa del sistema penale
tributario, dalla punibilità di ogni attività “prodromica” al reato dichiarativo all’attuale
esclusione della condanna se non di condotte illecite “in dichiarazione”; nonché in relazione
all’elemento psicologico del dolo quando a commettere il reato in dichiarazione sia una
società o un ente diverso dalla persona fisica, proprio quanto accade nei casi di
esterovestizione.
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Il terzo e ultimo capitolo si occupa di porre a confronto interventi dottrinali e
giurisprudenziali in tema di rilevanza penale dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto,
concetti dai contorni piuttosto sfumati rispetto al consolidato concetto di evasione fiscale, i
quali hanno ispirato in passato numerosi interventi di carattere punitivo, sia penale e sia
amministrativo, risentendo però della mancanza di una chiara definizione ex lege, tanto che
non raramente le pronunce della giurisprudenza sono state poste sotto severa critica da parte
della stampa specializzata. In risposta all’appello a più voci invocante maggior chiarezza e
pure certezza del diritto, il legislatore ha assegnato un ruolo speciale ai suddetti concetti in
seno alla riforma fiscale tuttora in corso di attuazione da parte del Governo, sulle orme delle
linee guida tracciate negli anni scorsi dalla Commissione Europea e dall’OCSE. Sulla scia
dell’ispirazione ha inoltre assunto il compito di definire il sistema sanzionatorio applicabile
alle fattispecie abusive/elusive, propendendo per la loro irrilevanza penale.
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CAPITOLO PRIMO
INTRODUZIONE AL FENOMENO DELL’ESTEROVESTIZIONE
1.1. La pianificazione fiscale e i suoi confini di legittimità.
1.1.1. La pianificazione fiscale nel contesto economico attuale
L’ultimo decennio è stato caratterizzato da una congiuntura economica assai delicata, cui si è
accompagnato un indesiderato incremento della pressione tributaria. Tra le cause di tale
aumento si annovera il fenomeno dell’evasione fiscale, purtroppo ben radicato nel nostro
Paese. Un peggioramento della situazione attuale potrà, nei piani futuri del Governo, essere
scongiurato soltanto con una riduzione ragionata e mirata della spesa pubblica e, attraverso la
lotta all’evasione fiscale, grazie all’emersione di base imponibile e al conseguente recupero
del gettito delle imposte evase.
In un momento storico di crisi, che interessa trasversalmente pressoché tutti i settori
economici, l’elevata pressione fiscale costituisce grave ostacolo agli investimenti e si avverte
sempre più la necessità di interventi finalizzati all’incentivazione e allo sviluppo dell’attività
di impresa. In un contesto globalizzato, inoltre, in cui si assiste ad una crescente
liberalizzazione dei fattori produttivi, la variabile fiscale ricopre un ruolo sempre più
rilevante nella localizzazione degli investimenti.
In siffatto quadro socio – economico, il termine “pianificazione fiscale” esprime un concetto
ben noto agli operatori economici, che tendono generalmente a massimizzare il valore della
propria azienda, minimizzandone il più possibile il carico impositivo.
La pianificazione fiscale consiste, infatti, nella formulazione di piani strategici, che
comprendono un complesso di negozi giuridici, tesi ad ottimizzare il carico fiscale, ovvero a
ridurlo quanto è ammissibile nell’alveo della liceità. Pertanto, non si realizza attraverso
l’occultamento di redditi imponibili (che caratterizza l’evasione fiscale), né attraverso il
ricorso a costruzioni tecnico-giuridiche completamente avulse da qualsiasi esigenza
economica (che potrebbe configurarsi come elusione fiscale), bensì mediante il totale rispetto
delle normative civilistiche e fiscali, nazionali ed internazionali.
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Una buona pianificazione fiscale deve essere, ad ogni modo, coerente con le caratteristiche
proprie dell’azienda, a titolo esemplificativo dimensioni, attività caratteristica, mercato di
riferimento ed eventuali specificità del settore.
Se ne distinguono due principali categorie
1
: la pianificazione fiscale nazionale, che permette
di utilizzare al meglio le differenze attinenti alla tassazione delle persone fisiche e delle
persone giuridiche, nonché le modalità impositive, offerte dalla legislazione fiscale nazionale,
in relazione alle differenti tipologie di reddito; la pianificazione fiscale internazionale, idonea
soprattutto per le imprese di medie e grandi dimensioni, in quanto si alimenta delle
differenze, che esistono tra gli ordinamenti fiscali degli altri Stati nel mondo e, per concepire
la strategia fiscale più conveniente, combina l’opzione sugli strumenti giuridici di natura
negoziale con le opportunità di delocalizzazione dell’attività economica, oggi crescenti grazie
alla globalizzazione dei mercati.
Nel presente elaborato si approfondiranno le tematiche relative ad una corretta pianificazione
fiscale delle imprese di medie e grandi dimensioni, che fronteggiano mercati sia nazionali che
internazionali, nonché le conseguenze fiscali, economico – finanziarie e sociali, che derivano
dall’implementazione delle strategie fiscali, oggetto di pianificazione.
I legislatori ammettono, in linea di principio, che ogni operatore economico realizzi le proprie
idee imprenditoriali, scegliendo autonomamente il percorso che meglio gli consenta il
raggiungimento degli obiettivi prefissati nella propria attività economica, la sua piena
valorizzazione e, ultima ma non meno importante, l’ottimizzazione del carico fiscale.
D’altronde, non esiste all’interno del nostro sistema tributario alcun obbligo di organizzare lo
svolgimento della propria attività, massimizzando il debito di imposta.
Nella sfera della pianificazione fiscale trova viva espressione un principio pronunciato dalla
corte di legittimità inglese nel caso Duke of Westminster
2
, nella sostanza tuttora pienamente
condivisibile, nonostante il caso giurisprudenziale da cui emerge sia caratterizzato da un certo
anacronismo: ogni operatore economico ha il diritto di organizzare i propri affari, in modo
tale che il carico fiscale risultante dalla forma operativa prescelta, sempre nel rispetto di
quanto disposto dalla normativa fiscale, sia minore di quanto sarebbe stato altrimenti. L’eco
1
Professor MASSIMO CREMONA, Corso di Pianificazione Fiscale delle Imprese, Università Cattolica del Sacro Cuore –
Milano, a.a. 2013/2014
2
Inland Revenue Comrs v Duke of Westminster [1936] AC (HL) 1 come citato in JUDITH FREEDMAN, The Tax
Avoidance Culture: Who is Responsible? Governmental Influences and Corporate Social Responsibility, Oxford Journals
Current Legal Problems, 2006.
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di tale principio è giunta ai padri della nostra Costituzione, che all’art. 41 recita L'iniziativa
economica privata è libera, la cui rilevanza si approfondirà nel proseguo.
La ricerca del risparmio fiscale, ovvero l’ottimizzazione del carico di imposta, rientra senza
dubbio nell’ottica del contribuente, mentre per l’Erario è essenziale tutelare il proprio
interesse fiscale, che consiste nella regolare, certa e tempestiva riscossione del gettito
tributario per far fronte alla finanza pubblica. Dal conflitto di suddetti interessi si genera in
alcuni casi una contestazione circa l’illiceità della pianificazione fiscale da parte dell’autorità
pubblica, preposta alla tutela di un interesse comune ordinariamente sovraordinato agli
interessi del privato.
Si percepisce, di conseguenza, una radicata preoccupazione delle imprese sulle attività che,
per quanto attiene alle ricadute fiscali, potremmo definire “borderline” rispetto ai confini
della legge tributaria.
Ciò è il plausibile risultato dell’intensificazione del monitoraggio sugli adempimenti fiscali e
dell’introduzione di forme di disclosure, anche in forma di obbligo legale, cui le imprese
sono da qualche tempo sottoposte. Tali fattori si accompagnano al timore inerente al rischio
reputazionale, che potrebbe manifestarsi quando non possa essere dimostrato che, nella
condotta fiscale dell’impresa, i requisiti legali non sono stati violati.
Per i soggetti economici operanti su mercati internazionali, poi, gli effetti delle strategie
fiscali sono ancor meno controllabili, data la complessità dei mercati finanziari globalizzati e
l’esposizione del valore aziendale alle imprevedibili reazioni degli investitori, soprattutto nel
caso di imprese con azioni o altri strumenti finanziari diffusi tra il pubblico.
Nei decenni passati, una visione alquanto miope ha condotto a credere che la
massimizzazione del valore per gli azionisti si conseguisse sia mediante la riduzione al
minimo della imposizione fiscale sia optando per la giurisdizione con il regime tributario più
favorevole, in cui stabilire le proprie attività commerciali o meramente trasferire il proprio
capitale.
Tale convinzione pare aver lasciato spazio ad una visione lungimirante, che induce a tenere
ragionevolmente conto anche delle conseguenze commerciali delle operazioni intraprese,
incluse le conseguenze fiscali, che man mano hanno abdicato dal ruolo di fattore conduttore
delle scelte di business. Si è così assistito, almeno in parte degli operatori economici, ad un
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cambiamento di prospettiva, da un’ottica meramente tax driven ad una visione
omnicomprensiva, che si può definire business driven.
La chiave del successo delle decisioni imprenditoriali è stata individuata primariamente nella
costruzione di buona amministrazione aziendale che, preventivando la gestione del rischio
fiscale, permetta di generare maggiore valore per gli azionisti e gli altri stakeholder, non
ultimo lo Stato. Tale proposito implica che le imprese sì risultino ampiamente conformi alla
legge, ma anche che azzardino a valutare questioni ai confini della legge (cc. dd. borderline),
nel caso questo sia ritenuto opportuno in esito ad una valutazione strategica business driven.
In questo modo, il rischio fiscale, nonché il conseguente rischio reputazionale, nell’ipotesi di
contestazione da parte delle autorità fiscali, potranno essere affrontati dagli operatori
economici più agevolmente, avendo la capacità di spiegare le ragioni industriali e
commerciali alla base della decisione strategica, che hanno implementato.
Superato l’ostacolo della valida motivazione delle operazioni, dal momento che oggi gli
investitori sono spesso internazionali e che gli adempimenti fiscali di una grande realtà
societaria si originano nei confronti di una molteplicità di autorità fiscali, il quadro si presenta
molto più complesso di quanto a parole si possa comprendere.
1.1.2. La “lecita” pianificazione fiscale di impresa
Tutto ciò premesso, si comprende che è tuttora aperto il dibattito sui confini di legittimità
della pianificazione fiscale. Prescindendo da qualsiasi pretesa di codificazione delle
fattispecie trattate nel proseguo, si può affermare che la “lecita pianificazione fiscale” si
concretizzi in talune operazioni aziendali nell’adozione di linee di condotta alternative, messe
a disposizione dall'ordinamento tributario, con pari dignità di attuazione. Il processo di
pianificazione prevede, in pratica, che si prendano in considerazione, ai fini della definizione
della migliore strategia, tutti gli strumenti giuridici a disposizione nel quadro ordinamentale,
che conducono al medesimo obiettivo, e se ne analizzino gli effetti, dal punto di vista fiscale,
nella sfera di tutti i soggetti coinvolti nell’operazione.
È, dunque, lo strumento principe che consente di ottenere un lecito risparmio di imposta,
senza incorrere nelle fattispecie dell’evasione ovvero dell’elusione fiscale, di cui è
fondamentale proporre una distinzione.
Nel caso in cui si adottino strumenti di pianificazione fiscale non conformi alla legge, ossia si
consegua l’alterazione del reddito imponibile con mezzi illeciti, predisposti consapevolmente