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Introduzione
È opinione comune tra i filosofi antichi che la felicità è il bene supremo al quale ogni individuo tende,
il telos della vita umana. In cosa consista questa felicità, e come sia possibile realizzarla è tuttavia
motivo di dibattito.
Plotino d’altro canto, ultimo grande rappresentante della cultura classica greca, impegnandosi in un
confronto serrato con i suoi predecessori, è in grado di pervenire a un ideale di felicità faticoso quanto
accessibile, almeno in potenza a tutti gli uomini, nella misura in cui essi hanno nella loro mente una
condizione omogenea a quella dell’Intelletto divino, di cui tuttavia non sono ordinariamente coscienti.
Plotino ritiene infatti che, non tutta l’anima è immersa nel corpo, ma c’è una parte di lei che continua
a permanere nell’intelligibile, in perenne contemplazione delle Idee (IV 8 [6]8, 8, 1-3). È dunque
ricongiungendoci con la parte superiore della nostra anima, che potremo acquisire consapevolezza
della nostra vera natura, e pervenire alla felicità autentica, consistente nella perfetta vita del pensiero,
ossia nella contemplazione in atto degli intelligibili. La dottrina dell’anima non discesa consente
infatti a Plotino, diversamente dai suoi predecessori di elaborare una nozione di felicità salda e
realmente perseguibile dagli uomini, caratterizzata dall’irrilevanza dei beni e delle circostanze
esterne, dalla sufficienza della virtù ai fini della felicità, nonché dalla preminenza della vita
contemplativa.
Chiedersi in cosa consista la felicità, significa d'altronde chiedersi cosa sia l’uomo, quale sia il suo
compito, quale la sua funzione precipua. Deriva da qui, la scelta di dedicare il presente lavoro a un
tema così sfuggente e articolato come quello della felicità, attraverso la lente privilegiata di un autore
come Plotino, la cui originalità e radicalità appaiono ancora oggi difficilmente eguagliabili.
In un’epoca come la nostra, che tutto ha sacrificato sull’altare del dio denaro, propagandando
l’immagine di una felicità a basso costo consistente nell’uso smodato e compulsivo di beni materiali,
la visione eudaimonistica prospettata da Plotino consistente nella purificazione e nell’elevazione
intellettuale delle anime, appare infatti come un faro nella nebbia, un bagliore di speranza nel grigiore
cui la modernità ci ha abituati.
6
Il presente lavoro si propone pertanto di determinare il modo in cui si configura la ricerca della felicità
nella filosofia di Plotino, più precisamente si cercherà di mostrare una tappa dopo l'altra il processo
di conversione e purificazione, che consente all’anima per mezzo della virtù di ascendere dal mondo
dei corpi alla pura realtà intelligibile dalla quale trae origine. Pertanto, nel primo capitolo si cercherà
di guadagnare una comprensione della metafisica plotiniana nel suo complesso, ricostruendo il
sistema gradualistico che sta alla base della filosofia di Plotino e si ritrova in ogni sua componente.
La questione delle virtù, del modo in cui si articolano, e di come contribuiscono ciascuna a sua modo
a renderci simili a dio, sarà invece oggetto del secondo capitolo, avente in esame l’analisi del trattato
I 2 [19]. La distinzione dei due tipi di virtù: “civili” e “superiori”, che Plotino riprende in larga misura
dai testi platonici (la Repubblica per quanto riguarda le virtù civili, e il Fedone per quanto riguarda
le virtù superiori), consente infatti di scandire grado dopo grado l’itinerario ascendente dell’anima
che, dopo essersi separata dal corpo e dal mondo è in grado di ascendere in piena autonomia alla
visione delle Forme intelligibili. Si tratta infatti di un percorso puramente conoscitivo-intellettuale,
che l’uomo purificato è in grado di portare a termine senza l’ausilio di strumenti extra-intellettuali,
facendo leva unicamente sulle proprie facoltà cognitive.
Nel terzo ed ultimo capitolo si tratterà invece della visione eudaimonistica di Plotino, quale emerge
dall’analisi del trattato I 4 [46], ponendo particolare rilievo alla dottrina dell’anima non discesa quale
chiave di accesso alla felicità autentica. Solo muovendo dal dualismo psicologico plotiniano e
riconoscendo che la parte autentica dell’uomo non consiste nel composto, bensì nell’anima, e più
precisamente nella parte superiore e non discesa di essa, è infatti possibile pervenire a un ideale di
vita pienamente realizzata e felice, posta al riparo dalle contingenze esterne.
Passando da un livello di interiorità all’altro, si cercherà dunque di rendere evidente la metodologia
plotiniana, che potremmo definire fondamentalmente come una via dell’interiorità e della
trascendenza. Interiorità, poiché l’uomo, o meglio l’anima, per risalire sino ai principi intelligibili e
riscoprire così la propria autentica natura, deve rientrare in sé, deve ripiegarsi su sé stessa lasciando
fuori tutto ciò che ha attinenza col mondo dei corpi e delle realtà sensibili. Trascendenza, nel senso
che l’uomo, per poter attingere alla realtà e dunque alla conoscenza autentica, deve andare al di là di
tutto, persino di se stesso. Deve cioè trascendere le normali modalità del pensiero discorsivo, proprio
della nostra coscienza ordinaria associata a un corpo, per elevarsi sino alla contemplazione delle
Forme intelligibili e identificarsi con il pensiero puro. L’imperativo filosofico iniziatico è chiaro: si
7
tratta di isolare quanto più possibile la coscienza dai bisogni del corpo, di renderla estranea alla
caducità degli avvenimenti terreni per risvegliarla a sé stessa, favorendo il processo di risalita verso
le realtà superiori.
8
Capitolo Primo
La filosofia di Plotino tra esegesi e innovazione
1.1. Plotino e le Enneadi
Diversamente dai filosofi contemporanei, gli antichi non sono particolarmente inclini a fare sfoggio
della propria personalità nei propri scritti, preferendo piuttosto lasciar parlare il testo. In linea con
questa tendenza, il ritratto che abbiamo di Plotino, l’ultimo grande esponente della cultura classica, è
quello di un uomo estremamente schivo, affatto propenso a parlare di sé. La gran parte delle
informazioni a nostra disposizione derivano dalla biografia del filosofo, redatta dal suo discepolo
Porfirio, nota come Vita di Plotino, premessa alla sua edizione delle Enneadi.
Secondo le informazioni che ne derivano Plotino sarebbe nato a Lico, o Licopoli, in Egitto nel 205
d.C. All’età di ventotto anni, mosso dal desiderio di fare filosofia si recò ad Alessandria dove
frequentò diverse scuole, rimanendone tuttavia deluso, per approdare infine alla scuola di Ammonio
Sacca, dove apprese i rudimenti del platonismo e non solo, e dove rimase per circa undici anni
1
.
A trentanove anni desideroso di apprendere dottrine e filosofie orientali, seguì l’imperatore Gordiano
nella sua spedizione contro i Persiani. Alcuni autorevoli studiosi, in particolare Émile Bréhier, hanno
portato avanti, sulla scorta di tale notizia, l’ipotesi di una possibile influenza di matrice orientale sulla
filosofia plotiniana
2
. Si tratta di una tesi certamente affascinante, ma al contempo difficile da
dimostrare; se è vero infatti che Plotino entrò in contatto con queste culture, è tuttavia difficile
stabilire con certezza in che modo e in che misura queste abbiano potuto condizionare la sua
riflessione, dal momento che manca una linea diretta che colleghi Plotino a queste correnti di
pensiero, come avviene invece nel caso della tradizione greca
3
.
A seguito della sconfitta e della morte dello stesso imperatore, Plotino trovò rifugio ad Antiochia,
prima di giungere a Roma dove trascorse gran parte della sua vita, fino a quando, ormai malato si
trasferì in Campania, presso Minturno, dove morì nel 270 d.C. A Roma ebbe una vita molta intensa;
fu a capo di un vivace circolo intellettuale, frequentato oltre che da filosofi e letterati, da politici e
personalità di spicco. Forte dell’amicizia dell’imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina, tentò
1
Cfr. R. Chiaradonna, Plotino, Roma, Carocci, 2009, p. 10.
2
Per un approfondimento sull’orientalismo di Plotino rimando a, É. Bréhier, La philosophie de Plotin, Boivin et Cie,
Paris 1928.
3
Cfr. R.Chiaradonna, op. cit., p. 32.
9
inoltre senza successo di fondare in Campania una città ispirata alle leggi di Platone, chiamata
Platonopoli
4
.
Le Enneadi (dal greco: Ἐννεάδες che significa nove) a cui questa biografia è premessa, sono l’opera
di cui il suo discepolo Porfirio fu l’editore nel senso moderno del termine, poiché alla sua morte
raccolse gli scritti del maestro e li strutturò in sei gruppi di nove trattati ciascuno, per un totale di
cinquantaquattro trattati, raggruppati per argomenti affini, in ordine crescente di difficoltà. La prima
Enneade contiene i trattati di argomento etico, la seconda i trattati di argomento fisico, la terza i trattati
di argomento cosmologico, la quarta i trattati relativi all’anima, la quinta i trattati che riguardano
l’Intelletto e gli intelligibili, la sesta i trattati che, a partire dall’intelligibile, conducono all’esame del
primo principio del tutto, l’Uno
5
.
Porfirio legittima le proprie scelte editoriali sulla base di due motivi fondamentali: da un lato l’intento
di rifarsi a edizioni esemplari di autori classici, come ad esempio l’edizione delle opere di Aristotele
e Teofrasto, curata da Andronico di Rodi, che le suddivise in trattati tematicamente affini tra loro,
dall’altro, l’esigenza di mettere ordine all’interno di quella che egli definisce una produzione
realizzata in maniera confusionale, per così dire alla rinfusa, priva di un filo conduttore che
permettesse di rintracciare nella sua cronologia lo sviluppo di un piano coerente
6
. Questa almeno è
l’immagine fornitaci da Porfirio, il quale tuttavia si preoccupa anche di esibire una sistemazione
cronologica dei trattati plotiniani, che ci consente di stabilire una sensibile distinzione tra il modo in
cui Plotino ha lavorato e l’apparato concettuale in base al quale Porfirio ha ritenuto di strutturare gli
scritti del maestro.
Sappiamo da quanto ci dice Porfirio che Plotino prese a scrivere piuttosto tardi (intorno ai
cinquant’anni), i motivi di tale scelta non sono chiari, anche se potrebbe avere inciso in buona parte
il vincolo di segretezza che Ammonio Sacca imponeva ai suoi discepoli
7
.
Il primo periodo di composizione è quello antecedente la venuta di Porfirio a Roma, nel 263 d.C., a
cui risalgono i primi ventuno trattati. Il periodo più intenso tuttavia, al quale sembra risalire la maggior
parte della produzione plotiniana (trattati 22-45) coinciderebbe con il periodo di permanenza di
Porfirio presso la scuola di Plotino, dal 263 al 268 d.C. Gli ultimi nove trattati infine, furono scritti
da Plotino dopo la partenza di Porfirio in Sicilia nel 268 (questi infatti era partito su suggerimento di
Plotino per contrastare una grave crisi depressiva che lo aveva indotto a meditare il suicidio)
8
.
4
Cfr. R. Chiaradonna, op. cit., pp. 10-11.
5
Cfr. ivi, p. 9.
6
Cfr. G. Catapano, Plotino: Sulle virtù I 2 [19], Pisa, Plus, 2006, pp. 3-5.
7
Cfr. R. Chiaradonna, op. cit., p. 11.
8
Ibidem.
10
Come si può ben notare, la periodizzazione dei trattati è stabilita in funzione della presenza o assenza
di Porfirio, il quale non a caso sembra attribuire maggior rilievo e maturità ai trattati composti durante
la sua permanenza a Roma, il che rende quanto meno discutibile il suo giudizio. Ad ogni modo,
l’opinione porfiriana circa l’inadeguatezza di un approccio di tipo cronologico alla produzione
plotiniana, a causa di una presunta mancanza di ordine e pianificazione con cui Plotino avrebbe
composto i suoi scritti, non pare essere condivisa da molti studiosi contemporanei (A. Kirchhoff, R.
Harder, P. Hadot), i quali muovono invece nella direzione opposta, insistendo sulla necessità di
leggere gli scritti plotiniani nella loro successione cronologica
9
.
Ciò che è certo è che siamo in presenza di un’opera sui generis, che nulla ha a che vedere con i trattati
tradizionali a cui siamo abituati, e che poco si presta a processi di sistematizzazione che rischierebbero
altresì di minarne la peculiarità. Si tratta di una serie di libere trattazioni, talvolta indipendenti le une
dalle altre, frutto delle vivaci discussioni che Plotino intratteneva con i suoi allievi, e che riportava su
carta quasi di getto, curandosi poco dell’armonia della scrittura a favore di una più sostanziale
bellezza contenutistica, volta a illustrare il ritorno a casa dell’Anima.
Un altro elemento di grande novità riguarda inoltre il linguaggio, più precisamente la trasfigurazione
del linguaggio in metalinguaggio. Un’adeguata comprensione delle Enneadi, non può infatti
prescindere dalla consapevolezza della rivoluzionaria portata linguistica di cui l’opera è investita, e
che trova la sua principale legittimazione nella necessità di descrivere delle realtà che per natura sono
incompatibili con il linguaggio umano, finito, e che pertanto esulano dalle normali categorie del
pensiero logico-dialettico. Basta pensare al principio primo di tutto, l’Uno, concepito come
assolutamente trascendente, assolutamente semplice e al di sopra di ogni cosa, persino dell’essere e
del pensiero, dunque indicibile e ineffabile: “Trasumanar significar per verba non si porìa” (Dante,
Paradiso, Canto I, vv. 70-71). L’eccezionalità di questo principio spinge Plotino a parlarne in termini
negativi, ossia dicendo soprattutto ciò che esso non è, gettando così le basi della “teologia negativa”
10
.
Quando invece ne parla in termini positivi ricorre all’uso di un linguaggio metaforico, analogico,
volendo intendere che quei termini positivi, riferiti al primo principio indicano in realtà molto di più
di quanto significhino nel linguaggio comune.
Fa inoltre il suo ingresso nelle Enneadi, oltre alla conoscenza e all’esperienza razionale, l’esperienza
mistica, che viene rappresentata come momento culminante della vita filosofica al più alto grado.
Tale esperienza è una fonte di conoscenza metarazionale, che conduce all’incontro con il divino e
simboleggia il processo di riappropriazione da parte dell’anima della propria autentica natura. Si tratta
9
Cfr. G. Catapano, op. cit., p. 8.
10
La genesi di questo modo di parlare del principio primo si trova in Platone, non solo nel Parmenide, ma anche nel
Simposio, testo di riferimento per Plotino.
11
di una forma di conoscenza straordinaria, che trascende tutte le altre, che coglie la presenza
dell’assoluto e realizza un’unificazione e una fusione con esso; un’esperienza ai limiti dell’umana
comprensione che, in virtù della sua paradossalità suscita nel lettore delle Enneadi atteggiamenti
contrastanti, a un tempo di accettazione e rifiuto. Lo stesso Plotino nel trattato I 6 [1] afferma: “Chi
l’ha già visto sa quello che dico”
11
, come a voler sottolineare che, solo coloro i quali abbiano provato
essi stessi una simile esperienza possono realmente porsi in sintonia con Plotino, e cogliere l’autentico
significato del cammino astruso e per certi aspetti folle delineato nelle Enneadi. L’importante in
effetti, quando ci si confronta con un pensiero così alto, così fortemente controintuitivo come quello
di Plotino è lasciar fuori dalla porta i propri convincimenti pervicaci, le proprie ideologie, il proprio
sentire, e come direbbe Ungaretti farsi docile fibra dell’universo
12
.
1.2. Plotino e il platonismo
Plotino fa il suo ingresso nella storia della filosofia antica in qualità di erede di Platone e iniziatore
del neoplatonismo, l’ultimo grande sistema filosofico greco, che va dal III secolo d.C. fino alla
chiusura della scuola di Atene ad opera dell’imperatore Giustiniano nel 529 d.C., data che sancisce
simbolicamente la fine della filosofia antica
13
. Il platonismo antico (IV- I secolo a.C.) e il cosiddetto
medioplatonismo (I secolo a.C.- II d.C.) sono le altre due fasi in cui si articola la lunga storia del
platonismo, anche se è bene precisare che si tratta di suddivisioni arbitrarie, operate dagli studiosi in
tempi recenti al fine di agevolare lo studio di una corrente di pensiero così vasta ed eterogenea. In
realtà i seguaci di Platone erano soliti definirsi semplicemente platonici.
Appare tuttavia indispensabile, al fine di comprendere adeguatamente il rapporto tra Plotino e
Platone, prendere le mosse dal contesto storico e dalla mutata condizione della filosofia che, a partire
dalla fine del II secolo d.C. appare sempre più connessa all’interpretazione e al commento degli
antichi. Sebbene non vi sia una spiegazione unanime in grado di rendere conto di tale processo, è
tuttavia possibile rintracciare alcuni fattori determinanti.
Se da un lato le scuole ellenistiche (epicureismo, stoicismo, scetticismo) perdevano terreno, cedendo
il passo a rinnovate forme di platonismo e aristotelismo, dall’altro la filosofia andava incontro a un
massiccio processo di decentramento nei principali centri del Mediterraneo (Roma, Alessandria,
Rodi). L’assedio di Atene ad opera di Silla, nell’86 a.C., aveva infatti causato la fine delle scuole
11
Enn. I 6 [1], 7, 35-36, trad. Radice, (2002).
12
Il riferimento è alla celebre poesia di Giuseppe Ungaretti I fiumi, che compare nella raccolta L'allegria (1931), in cui
l'autore ripropone la sua esperienza biografica attraverso il racconto dei fiumi della sua vita.
13
Cfr. R. Chiaradonna, Storia della filosofia antica, Volume IV: Dalla filosofia imperiale al tardo antico, Roma,
Carocci, 2016, p. 22.