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INTRODUZIONE
Da qualche anno, in concomitanza con l’inizio dell’estate, il Mediterraneo è solcato
con sempre maggiore frequenza da imbarcazioni di fortuna, gommoni, financo zattere,
colme di migliaia di africani che sfidano la morte cercando fortuna nel modo
industrializzato.
Un esodo che da qualche anno è sempre più orientato verso le nostre coste, dal
momento che le partenze verso la Spagna, il Portogallo e la stessa Grecia, a seguito di una
maggiore stabilità dei paesi le cui rotte partirebbero da questi porti e le stesse politiche di
respingimento adottate, rendono più difficili.
Dalla Libia, invece, a seguito del crollo del regime di Gheddafi e l’incredibile
instabilità di questi anni, prolifera il mercato dei migranti con conseguenti ricadute sui
nostri porti che si affacciano sul Mediterraneo.
Negli ultimi anni si è passati dai 43.000 arrivi del 2013 ai circa 181.000 del 2016
con un trend in crescita che rende sempre più all’ordine del giorno la questione di come
affrontare il problema, dal momento che, pur essendo l’Italia un Paese tradizionalmente
tollerante, non è abituato a convivere con flussi migratori di questo tipo (migrazione di
massa, non qualificata) e soprattutto in crescita.
Siamo, infatti, un Paese storicamente di emigranti, che solo da qualche decennio ha
incominciato ad essere invece destinazione di migranti da altri Paesi.
Ma quali sono le cause dei fenomeni migratori, come si sono delineati storicamente,
quali sono invece le caratteristiche delle migrazioni del XXI secolo ed in particolare quelle
provenienti dall’Africa subsahariana ?
Una migrazione, quest’ultima, basata sulla povertà, sugli squilibri economici
derivanti dalla colonizzazione e dallo sfruttamento selvaggio delle terre e delle
popolazioni, sulla fuga dalle guerre tribali, sulle particolari condizioni climatiche, che
rendono sempre più inospitale l’ambiente, meno sicuro a causa di carestie ed epidemie e
non utilizzabile per il sostentamento di una popolazione sempre più numerosa.
Insieme alle cause sopradescritte anche la questione demografica è decisiva per
analizzare il fenomeno e la sua consistenza.
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Nonostante le guerre, le carestie, un tasso di mortalità anche infantile elevato, la
crescita demografica dei Paesi dell’Africa subsahariana è costante.
Basti pensare che il tasso di fecondità media di una donna africana è di cinque figli
contro la media europea che è di due.
Un’asimmetria demografica che in mancanza di politiche di sviluppo e di
valorizzazione di quei territori porterà sempre più manodopera a basso costo nei Paesi
cosiddetti industrializzati, con la conseguenza che non tutti coloro che arrivano sono poi
immediatamente utilizzati nei cicli produttivi, soprattutto in Italia, dove le persistenti
differenze economiche, sociali e infrastrutturali tra nord e sud del Paese, mettono tali
lavoratori in competizione al ribasso con le medesime situazioni di precarietà e di lavoro
nero della manodopera locale, o li rende arruolabili subito alla malavita organizzata ed ai
traffici illeciti.
Cercheremo anche di definire quali sono attualmente le rotte dei flussi migratori
che partendo dal Sud del Sahara arrivano fino ai porti libici, il ruolo svolto in questi
percorsi, che assomigliano sempre più a vere e proprie tratte di essere umani, dai gruppi
organizzati e dalla malavita locale e come l’assenza e/o la compiacenza dei governi locali
permetta l’individuazione di volta in volta di nuove e diverse rotte per i mercanti di vite
umane.
I flussi migratori alimentano, quindi, malavita e corruzione e gli stessi accordi che i
governi europei cercano di stipulare con i poco credibili governi locali spesso non vengono
rispettati per l’anarchia istituzionale, la difficoltà a controllare i vasti territori, la corruzione
dilagante nei settori dell’esercito che dovrebbero reprimere tali fenomeni e che invece ne
traggono guadagno.
Un fenomeno che gli Stati, sia africani che europei, non sono in grado di affrontare
con politiche adeguate e che hanno visto le ONG, sia laiche che cattoliche, in questi anni
svolgere un ruolo fondamentale sul territorio nel garantire assistenza, progetti, scuola e
sanità, ma anche impedire, negli ultimi anni, le morti nei mari durante le traversate della
disperazione.
Proprio quest’ultimo aspetto, legato ai salvataggi in mare, si può porre in contrasto,
o comunque non essere coerente, con le politiche adottate dai singoli Stati in materia di
pattugliamento dei mari territoriali o con le cosiddette politiche di respingimento adottate
sulla base delle richieste dell’opinione pubblica, sempre più insofferente nei confronti dei
migranti e delle problematiche sottese al loro accoglimento.
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Cercheremo quindi di fare il punto sull’evoluzione degli accordi tra gli Stati, i
tentativi di regolamentazione a livello comunitario ed internazionale sia per quanto
riguarda le politiche di accoglimento e di ingresso che quelle cosiddette di respingimento
anche con riferimento al ruolo delle ONG in tale quadro normativo.
Resta da approfondire il nodo principale.
Con una società sempre più mobile, con fattori di conoscenza immediatamente
fruibili, con squilibri economici e sociali sempre più forti, con confini sempre più labili è
pensabile fermare, in modo significativo e soprattutto duraturo, i flussi migratori
unicamente con operazioni militari o l’uso della forza?
Anche “aiutiamoli a casa loro” come di nuovo echeggia nel dibattito politico del
nostro Paese rischia di essere solo uno slogan che nasconde i nostri egoismi se non si
cambiano i meccanismi internazionali di regolazione del commercio internazionale o se
scarseggiano i finanziamenti da parte dei Paesi industrializzati.
Questo significa allora che dobbiamo solo assistere in modo passivo al fenomeno
considerandolo ineluttabile, limitandoci a salvare le vite in pericolo ed a fornire una prima
accoglienza ai migranti senza preoccuparci di costruire una vera integrazione?
Probabilmente una politica di ampio respiro costruita su un mix di iniziative basate,
da un lato sulla regolazione dei flussi e dall’altro su una vera politica di integrazione
economica e sociale, può contribuire a superare le resistenze crescenti di un Occidente
sempre più impaurito, contribuendo a fare dell’immigrazione dall’Africa Subsahariana
un’opportunità di crescita e di sviluppo anche culturale.
Su questi aspetti cercheremo nell’ultima parte del nostro lavoro di descrivere le tesi
prevalenti, evitando un approccio astrattamente ideologico privilegiando, invece, quello
pragmatico e le “best practice” .
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CAPITOLO PRIMO
CAUSE E ORIGINI DEI FLUSSI MIGRATORI
1.1 Cenni storici del fenomeno
Da sempre l’essere umano si è mosso.
Questo ha portato nei millenni, e poi nei secoli, al formarsi ed al consolidamento
dei primi gruppi organizzati e poi degli Stati per come adesso li conosciamo. Per centinaia
di anni il nomadismo è stata la prima risposta alla ricerca di cibo e di territori più ospitali.
Nonostante le prime forme organizzate di colture e la nascita di quella che
potremmo chiamare agricoltura, che erano strettamente correlate ad insediamenti
caratterizzati da una certa stabilità, la ricerca di nuovi confini e di nuovi territori ha
percorso la storia dell’umanità.
Per terra e poi per mare con navi che andavano alla ricerca di nuovi territori, di
sbocchi commerciali, di ricchezze da sfruttare, di Stati da ampliare.
Gli uomini non hanno portato in giro per le regioni del nostro pianeta solamente se
stessi ma anche i prodotti, merci, animali, piante e malattie. Infatti, fu stupefacente ad
esempio il cambiamento subìto dal nord America in seguito all’introduzione di alcuni
animali come il cavallo, i bovini e il maiale o la scoperta e la diffusione di piante mai
conosciute in Europa, destinate al consumo alimentare.
Con il sedicesimo secolo i flussi di persone che si spostano dall’Europa diventa
evidente.
Dalla Spagna e dal Portogallo, dal Regno Unito, dalla Francia e poi, in misura
minore, dalla Germania e dall’Italia e in un arco temporale di circa 400 anni decine di
milioni di persone si spostano verso le Americhe, l’Africa, l’India e i paesi Asiatici.
A fronte di una migrazione “volontaria” per necessità o alla ricerca di nuovi
territori e mercati, i secoli scorsi sono stati caratterizzati anche da fenomeni di migrazione
coatta quale quello della tratta degli schiavi che ha visto la deportazione di circa 11 milioni
di essere umani, una condizione certo estrema ma che possiamo considerare di certo un
fenomeno di migrazione forzata.
Gli europei hanno portato via dall’Africa con la tratta degli schiavi uomini e donne
destinandoli ai lavori duri, nelle miniere e nelle piantagioni di cotone, lasciando al loro
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destino i vecchi, i malati ed i bambini non utilizzabili e sfruttabili perché meno resistenti
fisicamente.
Una pratica odiosa protrattasi fino alla metà del 1800, con gli schiavi che erano
considerati merce umana e scambiati con materie prime, minerali preziosi e prodotti
alimentari.
Un secondo tipo di migrazione non “volontaria” è quella che ha visto nel corso
della storia intere popolazioni costrette a lasciare le proprie terre a causa di sconvolgimenti
politici o di conflitti etnico-religiosi che rendevano impossibile la permanenza su quei
territori.
Come dicevamo nell’introduzione il nostro è un Paese che storicamente ha visto
milioni di Italiani cercare fortuna all’estero. Siamo stati quindi un paese di emigranti prima
che di approdo dei migranti provenienti da altre terre. Si calcola che tra la metà
dell’Ottocento e l’inizio del Novecento circa 17 milioni di Italiani è emigrato verso gli
Stati Uniti, il Canada, paesi dell’America latina come Argentina e Brasile, in Australia ed
in misura minore anche verso le nostre colonie africane (Libia e Corno D’Africa).
Per tutto questo periodo il fenomeno dell’immigrazione era stato invece pressoché
inesistente, ove si eccettuino le migrazioni dovute alle conseguenze della seconda guerra
mondiale o il rientro degli italiani dalle ex-colonie d'Africa.
Tali fenomeni, tuttavia, avevano un carattere episodico e non presentavano
sostanziali problemi d'integrazione dal punto di vista sociale o culturale.
L'Italia è rimasta tendenzialmente un paese con un saldo migratorio negativo; il
fenomeno dell'emigrazione italiana ha cominciato a decrescere e poi ad affievolirsi solo a
partire dagli anni sessanta.
Negli anni ottanta ha iniziato ad avere una certa consistenza la presenza di
popolazioni di altra nazionalità nel nostro Paese. I mutamenti economici e le crisi derivanti
dalla recessione hanno messo in movimento un flusso di migrazione verso l’Italia
parzialmente in crisi i loro settori di occupazione.
Poi, dalla fine degli anni 80 i flussi migratori verso il nostro Paese incominciano a
diventare una realtà sempre più in crescita. Con la caduta del muro di Berlino cambiano gli
scenari internazionali e il tappo che si era forzosamente formato negli anni nei Paesi
dell’ex URSS e in quelli del cosiddetto socialismo reale; iniziano gli sbarchi albanesi in
Puglia e gli ingressi dall’Est Europa, mentre si stabilizzano i ricongiungimenti familiari.
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Più recentemente, nel periodo 2000-2010, l’Italia è diventato uno dei Paesi con il
più alto saldo migratorio attivo. Si stima che in tale periodo sia il quinto Paese, dopo Stati
Uniti d’America, Spagna, Emirati Arabi Uniti e Federazione Russa. Tale dato acquista
ancora più rilevanza se paragonato a quello relativo al periodo 1990-2000 in cui l’Italia
non era presente nei primi dieci Paesi con saldo migratorio attivo a testimonianza
dell’aumento esponenziale che l’Italia si trova ad affrontare.
Il nostro Paese è passato da poco più di 3 milioni di stranieri residenti nel 2007 ai
4,5 milioni circa nel 2012, ai 5 milioni del 2016 con un’incidenza pari all’8,3% della
popolazione totale, confermandosi un’importante area di sbocco dei flussi migratori
internazionali.
Una breve ricostruzione dei movimenti migratori in Africa Subsahariana
Prima di entrare nel merito delle teorie sulle cause dei flussi migratori è forse il
caso di ripercorrere, seppur per brevi cenni, la storia delle migrazioni in Africa
subsahariana.
Con la conquista di molti territori da parte delle potenze europee (Francia, Spagna,
Inghilterra, Portogallo e Belgio) i fenomeni migratori, prima dettati da esigenze climatiche,
commerciali e caratterizzati da un forte nomadismo, si trasformano, in ossequio alle
esigenze delle grandi potenze coloniali che vogliono utilizzare la manodopera nei luoghi e
nelle attività che a loro interessano.
Tre le direttrici migratorie che caratterizzano il diciannovesimo secolo fino a metà
degli anni sessanta: gli spostamenti all’interno del continente che riguardano la
manodopera da utilizzare ai fini estrattivi nelle miniere del centro e nelle coste dell’Africa
meridionale, quelli destinati allo sviluppo dell'agricoltura e nelle piantagioni (cotone, tè,
caffè, arachidi), ed, infine, quelli verso i porti e le città fluviali per gli sbocchi commerciali
Dagli anni Sessanta, a seguito del processo di decolonizzazione, cambiano i flussi
migratori che da interni diventano esterni al continente. Ciò aderendo ad un’esigenza di
manodopera, diffusa in Europa, da utilizzare per la ricostruzione post bellica che sarà
principalmente orientata verso i paesi “ex colonizzatori” e quindi la Francia, la Germania,
il Belgio e l’Inghilterra.
Solo con gli anni novanta, con l’affermazione dei primi movimenti
antimmigrazione che lamentano l’invasione dei migranti come minaccia per la propria
economia interna, colpita dalla recessione, incominceranno a mutare sostanzialmente i