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INTRODUZIONE
L’intenzione di raccontare la genesi, i moventi e il percorso che caratterizzarono il primo vero
governo tecnico della storia repubblicana, guidato da Lamberto Dini tra il 1995 e il 1996, prende le
mosse da una sincera preoccupazione di far chiarezza su un’istituzione, per l’appunto quella
governativa, le cui trame sono oggi più che mai quantomeno ambigue e poco comprensibili. Nel
furore politico di quella che ormai molti chiamano “terza repubblica” (non senza una certa dose di
creatività storiografica), l’imperativo categorico per uno studioso è mettere ordine tra i fatti, filtrare
le fonti, ponderare i giudizi: vi è insomma un’insopprimibile esigenza conoscitiva a cui lo storico,
fin troppo sensibile al richiamo, risponde immediatamente con i mezzi che caratterizzano da sempre
il suo operare. Si badi bene però, lo storico non è colui che getta il cerino nella stanza buia, ma è
invece quello che apre le finestre e fa entrare la luce dall’esterno. In altre parole lo studioso di storia
non si contenta di descrivere “l’interno dall’interno”, e cioè la realtà presente da individuo di quello
stesso presente, ma illustra la contemporaneità servendosi di tutto quello che vi è intorno ad essa. Il
compito precipuo dello storico è di chiarire il presente servendosi del passato, e l’indagine presente
si propone per l’appunto di illuminare le pieghe oscure dell’istituzione governativa in un periodo di
transizione descrivendo le caratteristiche di un governo passato che ha avuto luogo in un simile
interregno, ovvero il passaggio dalla Prima Repubblica alla Seconda Repubblica Italiana.
Il racconto della storia della Prima Repubblica italiana richiede per certi versi conoscenze e
competenze “acrobatiche”, indispensabili per ricavare un filo logico dall’inestricabile matassa di
governi balneari, truppe cammellate, insospettabili rimpasti e di uno stuolo non indifferente di nani
e ballerine
1
. Una complessità che fu ben presente anche nei suoi momenti finali, quando la scure dei
tribunali italiani sembrò aprire nuovi spazi per ripensare il modo di fare politica, le ideologie alla
base e soprattutto per mandare in pensione gli epigoni del sistema.
La pioggia di avvisi di garanzia che si riversò sulla politica italiana agli inizi degli anni ’90 scatenò
un maremoto di proporzioni inimmaginabili, seppellendo quelli che fino al giorno prima erano
reputati “intoccabili” sotto una fanghiglia di processi e condanne. Tangentopoli fu il cerino gettato
nel retrobottega del sistema, popolato da discutibili pratiche clientelari e cospicue mazzette,
giustificate, secondo i suoi promotori, dall’esigenza di mantenere operativa una macchina altrimenti
incapace di funzionare con i mezzi a disposizione.
Le circostanze imposero ai maggiorenti della politica obblighi gattopardeschi: il sistema doveva
essere sicuramente rivisto, nei suoi ingranaggi e nei suoi operatori, garantendo però una certa
1
La definizione fu utilizzata dal socialista Rino Formica per descrivere i personaggi che si muovevano nel sottobosco
cortigiano del Partito Socialista Italiano degli anni ’80. (ndr)
6
continuità nella discontinuità, né troppo visibile per scatenare l’ira di un popolo offeso
dall’immoralità dei loro padroni né troppo invisibile per permettere ai parvenu dell’ultima ora di
impossessarsi della loro creatura. Ben presto fu però evidente come la voragine apertasi richiedeva
ben più che un revival sotto mentite spoglie della vecchia politica, tanto che nemmeno i parvenu
della seconda repubblica, istrionicamente guidati da Silvio Berlusconi, riuscirono a destreggiarsi tra
le contraddizioni insolute tra un “vecchio” da demolire e un “nuovo” ancora in fieri.
La necessità di rimuovere, rimodellare e raffazzonare una claudicante repubblica pose Scalfaro in
condizioni estremamente poco invidiabili. Da un lato vi era l’imprescindibile esigenza, frutto delle
urne dei referendum di quegli anni, di riformulare lo scacchiere politico in senso maggioritario
(quindi bipolare), e quindi dare all’Italia una nuova legge maggioritaria che rimpiazzasse il rodato
ma sfiduciato proporzionale luogotenenziale. Allo stesso modo la vita del paese si stagliava su uno
scenario economico tutt’altro che roseo, verso il quale né il centrodestra, paralizzato dai bisticci tra
Berlusconi e l’infedele Bossi, né il centrosinistra, in procinto di unirsi in una “cosa” quantomeno
indefinita, potevano o volevano fare qualcosa, pena il suicidio elettorale.
L’arrivo di Dini a Palazzo Chigi fu senz’altro una sorta di deus ex machina, calato nel teatro della
politica nostrana da uno Scalfaro deciso a risolvere a tutti i costi l’impasse in cui si trovava il paese,
con buona pace di tutti i nemici giurati del presidenzialismo. La tecnica al potere aveva il poco
invidiabile compito di trascinare la “nave senza nocchiere” di dantesca memoria fuori dalle
insidiose secche di una politica litigiosa e indecisa, portando a termine le necessarie riforme per
seppellire le vestigia morenti del vecchio apparato e contemporaneamente agire di concerto con il
Quirinale per favorire l’aggregazione dei partiti sotto le nuove insegne della Seconda Repubblica
maggioritaria.
Lungi dall’essere così lampanti e definite, le ragioni della scelta tecnica sono perlopiù sotterranee,
complici le convulsioni di quel periodo e soprattutto la mancanza di una bibliografia valida e
puntuale sull’argomento, benché non manchino comunque fonti autorevoli per raccontare quegli
anni. La presente indagine si propone quindi di gettare nuova luce su quella storia nella Storia,
leggendo tra le righe dei fatti di quell’epoca per carpire le intenzioni, i disegni e i sentimenti dei
suoi protagonisti, ricercando una o più risposte ad un quesito che, all’apparenza di poco interesse,
riflette anzi le traversie del regime repubblicano di ieri e di oggi: perché proprio un governo
tecnico?
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CAPITOLO I
POLITICA E RAPPRESENTANZA ALL’ALBA DELLA SECONDA REPUBBLICA
1.1 La crisi della Prima Repubblica
1.1.1 Lo scandalo di Tangentopoli
Il 17 febbraio del 1992 il presidente del Pio Albergo Trivulzio, il socialista milanese Mario Chiesa,
venne colto in flagrante mentre riceveva una mazzetta di sette milioni di lire da un fornitore della
casa di riposo
2
. Le indagini condotte successivamente da un pool di magistrati milanesi guidati da
Antonio Di Pietro, passate alla storia col nome di Mani Pulite, portarono alla scoperta di una
vastissima rete di corruzione e complicità nelle realtà politica nazionale e locale. Lungi dall’essere
una realtà contingente ed eccezionale, lo scandalo di Tangentopoli si rivelò essere la colonna
portante della politica italiana: la capacità di procacciarsi fondi – tramite modalità prettamente
illecite – era infatti una caratteristica vitale sia ai fini della singola carriera politica sia alla stessa
esistenza del partito. Gli scopi cui erano destinate queste “dazioni ambientali”, come le definì lo
stesso Di Pietro, erano molteplici: potevano essere utilizzate per cooptare membri del partito e
rafforzare il peso delle varie correnti, per guadagnarsi la protezione dei leader e ancora per acquisire
influenza all’interno degli enti controllati dallo Stato
3
. Il meccanismo delle mazzette, gestito con
efficacia da apposite strutture occulte dentro i partiti, configurava una sorta di relazione circolare
con l’attività politica di questi ultimi: allargando infatti tramite queste pratiche la propria sfera
d’influenza i partiti diventavano sempre più grandi e importanti, richiedendo perciò afflussi di
denaro maggiori che davano luogo ad ulteriori pratiche di corruzione e collusione. Nel corso del
1993 le indagini si estesero dal mondo della politica a quello dell’economia, svelando una prassi di
finanziamenti illeciti del mondo imprenditoriale, che in cambio di cospicue mazzette ricevevano in
appalto la costruzione di importanti opere pubbliche. La corruzione sistemica si estese così alle
grandi operazioni affaristiche e finanziarie, chiamando in causa nomi illustri e i grandi complessi
industriali del paese, tra cui ENI e la Montedison. I due colossi furono infatti al centro dello
scandalo Enimont, riguardante una maxitangente di mille miliardi pagata per la riacquisizione
statale delle azioni della famiglia Ferruzzi (azionisti di maggioranza della Montedison) dopo il
fallimento della fusione tra i due colossi. La vicenda, definita “la madre di tutte le tangenti”,
coinvolse anche importanti eminenze politiche del tempo, tra cui il segretario del Psi Bettino Craxi,
2
Mammarella G., L’italia contemporanea: 1943-2011, Il Mulino, Bologna, 2012
3
Bull M., Rhodes M., Crisis and Transition in Italian Politcs, Routledge, Londra, 1997, p.70
8
accusato di aver ricevuto 35 miliardi di lire
4
, che nell’ultimo celebre discorso alla Camera tenuto il
29 aprile del 1993 sdoganò totalmente la prassi di finanziamenti illeciti, accettata per decenni da
tutti gli attori politici e ritenuta addirittura fondamentale per tenere in vita l’organizzazione e
l’attività dei partiti
5
.
Lo scandalo di Tangentopoli e l’ondata di indagini e arresti che ne conseguirono non furono
semplicemente il segno di una politica corrotta, ma rivelò un costume nazionale saldamente
radicato nella società sino ai suoi meandri più remoti. A trarre beneficio dalle mazzette non furono
mai solo gli amministratori, ma anche e soprattutto gli stessi soggetti che le versavano, fossero essi
piccoli o grandi imprenditori. Infatti il costo della “commissione” al politico di turno, che fosse
all’1 o al 10%, era poi sempre ampiamente compensato dagli enormi ricavi attraverso le vendite a
prezzi fuori mercato o alla revisione dei costi. Una prassi questa, ampiamente accettata per decenni,
che venne brutalmente stigmatizzata tramite capri espiatori solo quando il costo delle tangenti
divenne inaccessibile ai più a causa della chiusura della stagione delle grandi opere
6
.
1.1.2 Le elezioni del 1992 e la nomina di Scalfaro
Due mesi dopo l’arresto di Chiesa, il 5 aprile del 1992, si svolsero le elezioni politiche per il
Parlamento dell’undicesima legislatura. La Democrazia Cristiana e il Partito Socialista Italiano,
principali protagonisti di Tangentopoli, subirono un calo nei consensi rispettivamente dal 34,3% al
29,7% e dal 14,3% al 13,6%: la flessione fu sì minima nel caso dei socialisti, ma assunse rilevanza
alla luce del trend elettorale crescente negli anni passati. Il Partito Democratico della Sinistra, erede
del PCI scioltosi nel 1991, scese dal 26,1% al 16,1%, mentre Rifondazione Comunista, erede della
tradizione ortodossa dell’eurocomunismo italiano, ottenne il 5,6% dei consensi. L’elemento più
significativo fu però la vittoria della Lega Nord, partito federalista e settentrionalista fondato nel
1987 da Umberto Bossi, che incassò l’8,6% dei consensi e 55 seggi alla Camera
7
. Nonostante
l’esito delle urne faccia pensare altrimenti, le elezioni per la nuova legislatura si configurarono
come una vera e propria rottura del sistema dei partiti. In quella tornata la volatilità passò dal 7,6%
al 16,2% e l’astensionismo toccò il record del 12,4%, mentre i due maggiori partiti (DC e PCI/PDS)
non raccolsero nemmeno il 45,8% (contro il 61% del 1987)
8
. A tutto ciò si aggiunse l’entrata della
Lega Nord, caratterizzata da una fortissima insofferenza verso i vecchi alfieri della politica corrotta
e contro l’insensibilità del paese legale verso i problemi della gente comune.
4
Ivi, p.69
5
Per il discorso integrale di Craxi si veda Resoconto Stenografico. Seduta di Giovedi 29 Aprile 1993 in
www.legislatura.camera.it
6
Per i dati relativi alle elezioni politiche del 1992 vedi Colarizi S., Storia politica della Repubblica, Laterza, Roma-
Bari, 2007, p. 197
7
Ivi, p.194
8
Ignazi P., Il potere dei partiti. La politica in Italia dagli anni ’60 a oggi, Il Mulino, Bologna, 1995, p.139
9
Nonostante la débâcle elettorale i maggiorenti del quadripartito, Democrazia Cristiana e Partito
Socialista Italiano, erano ancora convinti di poter realizzare i piani definiti prima delle elezioni, che
prevedevano l’assegnazione della presidenza del consiglio e della presidenza della Repubblica
rispettivamente a Bettino Craxi, segretario dei socialisti, e a Arnaldo Forlani, segretario DC
9
.
All’infruttuoso tentativo dei partiti tradizionali di tenere in via le vestigia morenti del
consociativismo si opposero però due fattori. Il primo fu l’incapacità di supportare e far eleggere
presidente della Camera il candidato ufficiale della DC, sostituito dopo un lungo impasse dal
democristiano Oscar Luigi Scalfaro, anche grazie ad un inedito Marco Pannella nelle vesti di
mediatore
10
. Il secondo fattore furono invece le dimissioni anticipate di Francesco Cossiga dalla
carica di capo dello stato: resosi protagonista negli ultimi anni di presidenza di alcune esternazioni
contro i partiti di maggioranze (le cosiddette “picconate”), Cossiga fu una delle personalità politiche
più sensibili alle istanze di rinnovamento , complice la tempesta giudiziaria di quel periodo.
L’accordo pre-elettorale tra DC e PSI assegnava il Quirinale a Forlani, ma la defezione della
sinistra democristiana, primo fra tutti Mariotto Segni, portò ad un lungo stallo, risoltosi poi dopo il
ritiro della candidatura del segretario DC e l’elezione dello stesso Scalfaro il 25 maggio 1992.
L’elezione di quest’ultimo, considerato un vero e proprio outsider della politica, lontano dagli
accordi di palazzo tipici della prima repubblica, rappresentò un ulteriore segnale di rottura del
meccanismo di controllo da parte dell’establishment politico. La sua elezione, maturata nel clima di
sdegno per l’omicidio di stampo mafioso del giudice Giovanni Falcone due giorni prima dell’ultima
seduta, sancì la non-invincibilità della classe politica, braccata da sempre più pressanti richieste di
trasparenza e apertura verso il paese reale.
L’assegnazione della presidenza della Repubblica a un democristiano portava con sé un corollario
apparentemente necessario, e cioè che la presidenza del consiglio sarebbe stata assegnata, come
convenuto in precedenza, a un socialista, e cioè al segretario Craxi. Il primo avviso di garanzia
ricevuto da quest’ultimo il 12 dicembre 1992 e l’estendersi delle indagini della procura milanese
all’intera cerchia socialista meneghina affossò definitivamente questa possibilità, mentre la
leadership di Craxi era contestata duramente da una fronda interna capitanata dal suo ex delfino
Claudio Martelli, divenuto suo oppositore in nome di un rinnovamento e di una politica di unità a
sinistra
11
. Similmente a quanto era successo per Scalfaro, alla fine si optò per un outsider della
politica, scelto nella persona del socialista Giuliano Amato, profondo conoscitore dei meccanismi di
governo e privo di alcun seguito all’interno del PSI, che ricevette nei primi di luglio la fiducia
parlamentare con la stessa maggioranza quadripartita (DC-PSI-PSDI-PLI) dell’anno precedente.
9
Ivi, p.142
10
Ivi, p.144
11
Mammarella G., L’Italia Contemporanea. 1943-1996, op.cit. p. 519