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INTRODUZIONE
«Svegliatevi! Svegliatevi! Per favore, svegliatevi!»
(Lee S. , School Daze, 1988)
Quando ci troviamo davanti ad uno schermo a guardare un film, non ci chiediamo di quale etnia sia
il regista che l’ha realizzato. Eppure, ogni pellicola – qualsiasi sia il suo valore tecnico o sociale –
porta inevitabilmente con sé la storia personale di chi l’ha concepita, di chi l’ha diretta. Di chi ha fatto
sì che esistesse come prodotto finito perché un’audience potesse fruirne. Nel caso in cui questo regista
provenga da una classe subalterna a quella bianca colonizzatrice e predona della storia (almeno di
quella occidentale), egli porta necessariamente con sé – che ne sia cosciente o no – tutte le
idiosincrasie e le vicissitudini della sua gente. E, nel caso viva in prima persona queste pulsioni
centrifughe – con l’adeguato supporto tecnico – egli può sentirsi legittimato, quasi costretto, a dar
loro vita in forma filmica. È questo il caso di Spike Lee, il personaggio centrale della tesi che svolgerò
nelle pagine successive. Lee è per certi versi il caso paradigmatico della blackness
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, di cui porta con
sé il peso dell’ampio spettro delle sue sfaccettature. Tanto indipendente quanto corporate
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, tanto
ecumenico quanto elitario, tanto ribelle quanto cauto, tanto rap quanto soul, tanto Malcolm X quanto
Martin Luther King, egli ha creato un impero di segni – ed economico – per via del quale è sia riverito
che odiato dalla stessa gente le cui vicende dipinge
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– con cadenza praticamente annuale – con
orgoglio nelle sale cinematografiche. Come egli stesso dichiara: «le etichette sono limitanti. Punto»
(Manufacturing Intellect, 2016). Erede delle lotte – e delle vittorie in campo civile – dei grandi
personaggi neri che lo hanno preceduto (da James Baldwin a Muhammad Alì), figlio di una famiglia
di estrazione borghese, Lee (nato nel 1957) sa bene di potersi proporre come esponente di una nuova
generazione di afroamericani
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. Un popolo di giovani affrancati dalla povertà assoluta e
dall’emarginazione sistemica – e politica – che hanno vissuto la propria infanzia nella temperie
contro-culturale di fine anni ’60. Ma, al contempo, un popolo che vive quotidianamente un razzismo
psicologico più subdolo e radicato, dal quale non si può più sfuggire per legge, ma solo culturalmente.
Come scrive William A. Harris in Fight the power. The Spike Lee reader, «ora che la società
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Da ora in poi si farà riferimento alla blackness per indicare il percorso identitario e narrativo della comunità
afroamericana. Si sarebbero potuti utilizzare altri termini (negritudine (Fanon, 1972), popolo nero), ma si è ritenuto che
la lingua originale potesse conferire un’accezione più specifica a ciò che si vuole qui intendere.
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Vicino cioè alle grandi aziende capitalistiche.
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«Spike Lee non solo è uno dei più bravi registi in America, ma anche uno dei più importanti, perché focalizza il soggetto
centrale della razza. Non usa clichés politici o sentimentali, ma mostra come vivono i suoi personaggi e perché». (Winn,
2001, p. 456)
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«Lee ha rappresentato un punto di riferimento per i registi neri. Senza di Lee, questi non avrebbero la libertà di
sperimentazione e la materia testuale di cui ora giovano» (Hamlet & Coleman, 2009, p. XII).
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americana ha posto la schiavitù e l’oppressione nella sua memoria collettiva, il compito diventa meno
quello di protestare per il passato e più di pianificare il futuro» (Hamlet & Coleman, 2009, p. 38).
A tal proposito, è forse interessante citare un passo da un libro dedicato ad un altro wunderkid nero
a Lee contemporaneo, ovvero Jean-Michel Basquiat:
«nei primi anni ottanta, in pieno periodo reaganiano, si assiste ad un’importante rinascita black, dopo la
grande sconfitta politica consumatasi negli anni settanta. Da questo punto di vista pittura e cinema appaiono
due arti sorelle. Come Basquiat sarà il primo artista nero a guadagnarsi nel suo campo un ruolo e una fama
prestigiosi, Spike Lee negli stessi anni, seppure con più difficoltà, si guadagnerà un suo spazio e un suo
pubblico nel mondo del cinema. Sempre nel 1984 anche la musica rap compie un salto di qualità, superando
la fase pionieristica, e lanciando una serie di gruppi cruciali per la sua evoluzione estetica: i Run DMC
(decisivi nel lancio dello stile sportivo nella comunità black) e i Public Enemy, centrali nell’attualizzare in
maniera pop le grandi “icone” politiche degli anni sessanta, in particolare Malcolm X e la simbologia
militante delle Pantere Nere. A completamento di questa rinascita, non si può non segnalare a partire dal
1985, il clamoroso successo di una sit-com dedicata a una famiglia nera: i Robinson» (Mercurio, 2017).
Il paragone con Basquiat fornisce tra l’altro una sponda utile per introdurre meglio il nostro regista.
Come il graffiti artist che si firmava SAMO
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, anche Lee è quello che James McKelly definisce –
citando Trey Eliis – un “mulatto culturale”, vale a dire il «figlio di una famiglia nera “scomodamente
borghese” residente nei quartieri prevalentemente bianchi di Brooklyn di Cobble Hill e Fort Greene,
dove molti dei suoi amici sono italiani. Si laurea nel college tradizionalmente nero di Morehouse nel
1979, per poi entrare nella scuola di film della NYU come uno dei soli due afroamericani nella sua
classe» (McKelly, 1998, p. 216).
Figura 2.Da sinistra: Fab Five Freddy, Spike Lee, Jean-Michel Basquiat, Andy Warhol.
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Abbreviativo di Same Old (Shit), letteralmente “la stessa (merda)”.
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Ciò che Lee racconta è soprattutto un popolo eterogeneo e pieno di contraddizioni interne, di modo
che «lo spettatore capisca la tragedia e la magnitudine della comunità interna agli Stati Uniti, nella
sua eteroglossia» (Conard, 2011, p. 105). Ora, non è che i suoi film siano estremamente originali,
dicendoci cose che non sappiamo. Invece che rappresentare una debolezza, giace proprio qui la loro
vera forza: nel fatto che sono radicati in «ciò che tutti sappiamo, ma rifiutano di accondiscenderne,
parlarne, rimpiangerlo o cambiarlo» (Diawara, 1993, p. 167). Così facendo, l’insieme eclettico
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delle
sue opere rappresenta un corpus poliedrico che narra la blackness da una posizione autentica,
fornendo una dovuta e necessaria prospettiva antagonista – o almeno differente – a quella mainstream
hollywoodiana. Come egli stesso afferma in un’intervista: «noi neri non possiamo contare su
Hollywood per definire la nostra esistenza, per dirci chi siamo» (sukib60, 2009). Sono queste le parole
di un uomo, prima ancora che di un artista, che vuole portare l’attenzione sulle piccole e grandi sfide
giornaliere della black experience
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. Sfide che, come abbiamo già specificato, sono relative ad una
società contemporanea in cui ogni individuo – indipendentemente dal colore della sua pelle – ha
eguale dignità di fronte agli occhi della legge. Una società in cui formalmente non c’è più
segregazione razziale. Ma una società in cui in molti ambiti ancora vigono precise gerarchie, le quali
generano rabbia e risentimento. Per Spike Lee è tempo di rompere con il vecchio pensiero (“il
problema principale con la vecchia scuola reazionaria era che si preoccupava troppo di quello che i
bianchi pensavano”» (Ellis, 1989, p. 237)) per cercare invece una via autonoma che giunga
positivamente al pieno riconoscimento, e non tramite negazione. «La sua missione è la libertà – quel
monumentale ed elusivo “it
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” che i neri hanno sempre capito di dover avere» (Diawara, 1993, p. 175).
I film di Lee mostrano che la formazione di un carattere statunitense davvero inclusivo «non è un
percorso liscio e lineare o il “melting pot” dei licei e dei corsi di diritto civico; piuttosto, questo
percorso è mosso da contraddizioni, conflitti, incomprensioni, e le contrazioni di una nuova società»
(Hamlet & Coleman, 2009, p. 38).
La tesi si svolgerà nel seguente ordine: nel primo capitolo, di carattere teorico, si introdurrà
filologicamente il concetto di blackness. Attraverso l’analisi testuale di alcuni grandi intellettuali neri
giungeremo alla definizione della temperie culturale nella quale si sviluppa il pensiero di Spike Lee.
Un percorso obbligatorio, senza il quale sarebbe difficile capire appieno la produzione del regista.
Una produzione eclettica, che verrà dissezionata nei capitoli 2 e 3, con il 2 dedicato esclusivamente
a Do the right thing come opera onnicomprensiva della blackness. Nel terzo, invece, si passeranno in
rassegna altre produzioni selezionate. Ognuna è stata scelta per dare, al termine della riflessione,
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Lee infatti è regista di film, pubblicità, video musicali, documentari e rappresentazioni teatrali.
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«Charlie Rose: pensi di avere un obbligo come regista ad esplorare la black experience e che la tua missione debba
essere aiutarci a capire la black experience ed il suo significato?
Spike: Questo è ciò che sento sia il mio ruolo, ma non deve essere il ruolo per ogni altro regista nero. […] È il mio
obiettivo, la mia agenda» (Manufacturing Intellect, 2016).
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Dal titolo She’s gotta have it, letteralmente Deve per forza averlo, dove it sta per quel non plus ultra che nel film fa di
Lola una femme fatale.
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un’idea coerente d’insieme del corpus cinematografico Leeano, sia a livello di forma che di contenuti.
Il quarto capitolo sarà incentrato sulle critiche che una personalità così controversa – che ha dominato
la scena cinematografica nera per più di trent’anni – ha per forza di cose generato. Le conclusioni,
invece, proveranno ad individuarne l’eredità culturale nel panorama contemporaneo. Come ultimo
momento, è stata aggiunta una breve postilla fotografica.
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CAPITOLO 1
QUALCHE APPUNTO SULLA BLACKNESS
VIVERE LOTTANDO: CONTRO GLI ALTRI, CONTRO SE STESSI
«Light nigga, dark nigga, faux nigga, real nigga,
rich nigga, poor nigga, house nigga, field nigga
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… still nigga»
(Jay-Z, 2017)
«Parlare in maniera confortevole della formazione dell’identità afroamericana è un atto pressoché
impossibile. Per farlo, bisogna riconciliare la relazione tra il soggetto afroamericano e le narrative
individuali che hanno finito per costituire la storia afroamericana. Lo status problematico della soggettività
afroamericana e la funzione spesso problematica delle narrative storiche afroamericane ricostruite hanno
prodotto un profondo imbarazzo per chiunque cerchi di capire e rappresentare gli afroamericani come
agenti nella storia e soggetti degni di una storiografia. Il discorso intorno l’identità afroamericana è
problematico e difficile, al punto della quasi impossibilità di andare oltre la materialità storica di eventi
come la tratta atlantica degli schiavi, l’esperienza delle piantagioni, i linciaggi supportati dalla comunità,
le leggi Jim Crow, la sistematica marginalizzazione sociale, e la violenza di Stato. Attestati e proclamazioni
sulla blackness negli Stati Uniti hanno anche dovuto affrontare i significati attaccati a questi episodi in
modi che rendono comunque sospetto l’interlocutore e la banalità di un tale soggetto. Questo dilemma
inestricabile nasce dalla brutalità ubiqua che costituisce la norma storica afroamericana, brutalità che non
può essere compresa né contenuta all’interno delle visioni di autosussistenza afroamericane.
Conseguentemente, tratti impossibili da narrare di vita (e morte), di essere (e non essere), sono sommersi
all’interno di narrative che comprendono la storia afroamericana e vengono o sopra- o sotto- valutati:
vengono, come direbbe Julia Kristeva, abietti. Questi tratti cadono sotto la negazione che segue la
necessaria espulsione di aspetti negativi del sé che inizialmente costituiscono i limiti dell’identità di
ciascuno. Siccome le narrazioni afroamericane del sé e della comunità si sviluppano in un fantomatico
immaginario sociale americano che ha tradizionalmente de-umanizzato o de-storicizzato la blackness
(concepita come un prodotto sia biologico che culturale), queste narrative hanno dovuto sfruttare
l’abiezione per funzionare al servizio della rivendicazione, con aspetti sia negativi che positivi. Come
risultato, gli storiografi afroamericani – precisamente perché lavorano all’interno di un contesto sociale che
ha inteso gli afroamericani come depotenziati e mancanti di una piena umanità – hanno avuto grandi
difficoltà ad inserire gli afroamericani all’interno di una storia che vira verso il progresso tramite l’azione.
Per questo, l’ “auto-scrittura” afroamericana ha richiesto l’esclusione conscia, ed inconscia, di immagini
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House nigger e field nigger sono un rimando al periodo della schiavitù nera nelle piantagioni: house nigger era il
personale di casa, field nigger (field = campo) i raccoglitori di cotone.
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che suggeriscono svalutazione, infermità sociale, e disumanità – assegnata agli afroamericani come popolo
e alla blackness come simbolo» (Hamlet & Coleman, 2009, p. 321-322).
Ho scelto il passo sopra citato – tratto dalla raccolta di saggi Fight the power. The Spike Lee reader
– perché ci permette di incominciare la trattazione della blackness in medias res, nel momento
socioculturale adatto alle finalità di questa tesi. La storia degli africani in America comincia infatti
poco più di un secolo dopo la scoperta stessa del continente, e non si potrebbe affrontarla
esaustivamente in maniera adeguata con qualche pagina introduttiva. Né tanto meno, seppur per
qualche necessario richiamo propedeutico, sarebbe funzionale qui raccontare i primordi della vicenda
nera negli States. Va però ricordato, questo sì, che si sta parlando di una storia pregna di violenze e
brutalità: la tratta degli schiavi, i linciaggi, le leggi razziali. Una storia che nasce in maniera coattiva,
che parla di una deportazione trans-continentale di uomini liberi (e donne libere) dalla propria patria
ad una nuova terra che è tutto fuorché promessa. Per dirla con le caustiche parole di Malcolm X (del
quale, per ovvi motivi
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, ci occuperemo in seguito): «non siamo attraccati a Plymouth Rock
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,
Plymouth Rock è attraccata su di noi [We didn't land on Plymouth Rock. The rock was landed on us]»
(Lee S. , Malcolm X, 1992).
La nostra narrazione incomincia qualche secolo più in là, con gli Stati Uniti già formati e federati,
con l’abolizione della schiavitù e con il suffragio universale; a ridosso delle ultime lotte emancipative
(parità di educazione, parità di carriera, parità di trattamento negli ambienti pubblici e privati) del
secondo dopoguerra. Una situazione in cui la blackness è ancora fortemente percepita e divisiva, ma
comunque appannaggio di soggetti viventi nello stesso universo simbolico e capitalistico dei bianchi,
non più de-umanizzati. Riprendendo il passo introduttivo, siamo all’interno di un paradigma di
abiezione, che nasce da un’impasse scomoda e imbarazzante. Abiezione innanzitutto storica: un
passato lugubre che funge sia da memento che da zavorra ingombrante, da entrambi i lati della
barricata. Memento, perché è impossibile dimenticare – e sarebbe ingiusto ed immorale farlo.
Zavorra, perché genera una forte frizione negli ingranaggi della vita quotidiana, l’unica tramite la
quale si può costruire un futuro più giusto. Abiezione tanto nera quanto bianca, con i secondi che non
possono fare a meno di provare un inconscio senso di vergogna per le azioni dei loro antenati, le cui
conseguenze si fanno ancora sentire
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. Per agganciarsi alla cinematografia di Spike Lee – ed in
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La sua biopic verrà diretta nel 1992 da Spike Lee.
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Lo scoglio dove è attraccata la Mayflower. Plymouth Rock prende questo nome dalla città di partenza: Plymouth,
appunto, in Inghilterra.
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Per citare un aneddoto significativo, che può falsamente sembrare una rivendicazione più di forma che di contenuto,
possiamo ritornare ancora a Malcolm X, e in particolare a quella X. X infatti assume per Malcolm il suo significato
matematico di incognita. Questo perché, dopo aver studiato in carcere – e, più tardi, con la Nazione dell’Islam – la storia
della sua gente, egli sa che Little (suo cognome da parte di padre) è niente meno che il cognome dello schiavista che
aveva comprato – e poi affrancato – il suo antenato. Moltissimi cognomi di afroamericani seguono questo processo e, allo
stesso modo, altrettanti grandi personalità hanno deciso di cambiarlo – o di criticarne la provenienza. L’altro caso
eclatante è quello di Cassius Clay, poi diventato Cassius X ed infine Muhammad Alì (anch’egli era venuto a contatto con