5
a dover lottare contro forze e ostacoli che non hanno motivo e non
dovrebbero, legalmente e umanamente, esistere.
Y: un problema abnorme.
Ora moltiplichiamo i due fattori: XY.
Uno straniero in carcere.
Il risultato è chiaro? Un emarginato tra gli emarginati, un discriminato
tra i discriminati, un unico individuo che si trova di fronte a due
problemi abnormi insieme. Il raddoppiamento di negazioni e
privazioni, tutte insieme, una sull’altra.
XY = detenuto straniero.
Un’equazione sopportabile?
Un’equazione evitabile?
Questi sono i due interrogativi a cui questo lavoro si propone
umilmente di cercare una risposta.
È bene sottolineare quindi che, dato per esistente e assodato il fattore
X, ci si propone di dimostrare dapprima l’esistenza concreta del
fattore Y e quindi, di conseguenza, di trattare nello specifico solo
questo problema, e di voler in qualche modo, dare spazio ad una
variabile da pochi tenuta in considerazione, ma che si fa sempre più
presente e rilevante nel quadro generale dello studio criminologico e
punitivo dei nostri giorni. Tema e punto focale del lavoro,
comprendente la verifica delle ipotesi e la proposta di soluzioni sarà
dunque l’aggiuntivo fattore “straniero” della suddetta equazione.
Inutile ribadire che alla base di tutto questo lavoro sta l’intero scibile
enucleato in secoli di storia giuridica e letteraria in cui tutti coloro che
hanno su ciò riflettuto e scritto mi hanno dato la possibilità di
tralasciare l’elaborazione di base e quindi di avere un punto di
partenza già a metà del percorso.
6
I diritti: apparenza o realta'
Non avrebbe senso partire ad armi spianate contro un sistema
giudicato sbagliato e offensivo, senza darne prima una concreta
dimostrazione.
Ecco quindi da dove partirò.
Due sono fondamentalmente i punti che mi accingerò a verificare:
1) da un punto di vista meramente legislativo, si tenterà di dimostrare
che, da un lato, esistono a tutt’oggi norme applicate o applicabili
che contrastano con testi normativi superiori, quindi con la
costituzione stessa, e con principi fondamentali enucleati dalle
convenzioni europee e mondiali sui diritti umani; e dall’altro che
NON esistono leggi e/o norme all’interno di leggi e regolamenti
vigenti, che dovrebbero esistere in base ai testi suindicati. Questo
sarà fatto tramite un semplice raffronto tra ciò che è o non è
stabilito e ciò che dovrebbe esserlo in conformità ai principi
consacrati sovranazionali, ma anche, in conclusione, con l’apporto
di esempi di altri paesi nell’applicazione di questi principi, così
come in Canada, utilizzando dati statistici inerenti al fenomeno
così come rileva in diversi stati esteri.
2) sia all’interno di leggi ordinarie e costituzionali, che, nello
specifico, all’interno del nuovo regolamento penitenziario
(considerato comunque un passo avanti rispetto a tutti gli
ordinamenti precedenti), esistono norme giuridiche previste a tutela
dei diritti dei detenuti stranieri, in quanto minoranza all’interno del
carcere, come comunità. Questa l’apparenza. Dimostreremo che la
realtà è spesso altro; che le strutture, il trattamento, i benefici,
l’intero sistema processuale e punitivo nei confronti dello straniero
vengono in concreto realizzati senza tenere in minimo conto le
normative previste. Si arriverà a dimostrare la concreta e
consapevole illiceità giuridica di alcuni aspetti dell’esecuzione
penitenziaria vagliata nel suo complesso, nei confronti di individui
stranieri.
Questo verrà eseguito attraverso il confronto tra normativa e
giurisprudenza documentate (nonostante, come sarà possibile
constatare, siano entrambe scarse e incomplete), statistiche ufficiali
7
e oscure dei fatti, e altresì tramite e grazie a contatti diretti o meno
con l’ambiente carcerario, con i detenuti stessi e il personale
dell’amministrazione penitenziaria, ossia le due componenti
contrapposte ma essenziali dell’intera popolazione carceraria.
Possibili proposte di cambiamento
Esistono fin troppe opere di elaborazione dei contenuti, di riflessione
sui fatti che però concludono senza una proposta di risoluzione a ciò
che viene bandito come errato, ossia non concludono.
Vorrei, per quanto mi è possibile, consapevole dei limiti impostimi
dalla mia conoscenza ed esperienza, ma anche dallo scopo formale di
questo lavoro, poter concludere. Credo che fiumi di parole dette e
scritte, soprattutto quando sgorgano allo scopo di criticare un sistema,
siano sempre poche “ascoltate” se non permettono un concreto
apporto di controcritica, tanto più se la denuncia viene da un’anonima
studentessa..
Quindi mi permetterò di proporre, nel corso della trattazione, alcuni
punti chiave su cui lavorare per modificare (chiaramente in meglio)
quello che ho considerato e verificato come imperfetto. Parlo di punti
chiave, perché logici limiti spazio-temporali e anche di competenza
professionale, non mi permettono di redigere veri e propri disegni di
legge, ma demando ciò a chi ha l’autorità e le competenze idonee a
tradurre quelli che io proporrò come punti chiave, anche però
attraverso pratici esempi, che rimarranno pur sempre solo tali.
Essi saranno riferiti soprattutto a:
1 - norme generali e speciali di previsione programmatica e
attuazione dei principi suesposti;
2 - diversi requisiti richiesti per i benefici specificamente diretti ai
detenuti stranieri;
3 – conseguente modifica di alcuni profili dei benefici concessi, con
previsione di strutture adeguate ad essi (telefonate e visite, possibilità
di regolarizzazione della posizione giuridica sul territorio, maggiore
flessibilità nell’investimento di altre risorse strumentali per la
concessione delle misure alternative);
8
4 - trattamento differenziato sulla base della diversa etnia, cultura,
lingua, religione…(differenziazione sostanziale come attuazione
dell’uguaglianza formale); verrà creato un paragone tra le
differenziazioni esistenti ad oggi (quali quelle per tossicodipendenti,
malati terminali, etc.) e quella non esistente, ma opportuna, per lo
straniero;
5 – l’inserimento concreto e formalmente professionale della nuova
figura del mediatore culturale, ma non solo: dare più spazio alle già
accennate iniziative di specializzazione e integrazione pratica del
personale penitenziario.
Un’idea di modus operandi
Già da tempo gli utilitaristi sostengono la necessità di tenere in
considerazione la percezione della pena da parte dei detenuti, in
quanto l’unico modo per rilevare l’efficace quantità della pena come
proporzione tra essa e il delitto.
Ora vorrei, riprendendo quest’ottica, allargarla ad uno sguardo più
complessivo che debba riguardare non solo la quantità e
proporzionalità della pena, ma anche la qualità di essa. Non solo il
quantum ma soprattutto il quo modo.
Cercherò di esprimere, anche indirettamente, nel corso dello
svolgimento, i motivi per cui, secondo me, sarebbe necessario, per non
dire indispensabile, creare un nuovo centro di ricerca, un nuovo fulcro
di approccio allo studio delle modifiche migliorative del sistema
punitivo. Questo centro deve essere costituito da ciò che è il centro del
sistema punitivo, il suo obiettivo, la sua causa, e quindi, perché no,
anche il mezzo per la sua soluzione: il detenuto. La persona,
l’individuo, l’unico soggetto direttamente coinvolto e colpito dal
sistema.
L’unico che può non ipotizzare, ma sapere per certo com’è il
trattamento, come lo recepisce, se come mera punizione, o come
effettivo mezzo di rieducazione e reinserimento sociale. L’unico da
cui può partire una effettiva proposta di miglioramento delle sue
condizioni.
9
“…il sistema carcerario è come la società: tutti e due razzisti, e per noi
non c’è da aspettarsi nulla di buono da nessuno dei due. Dicono che
vogliono riformarlo, ma come? Loro resteranno sempre i padroni e noi
i detenuti, dovrebbero domandarlo a noi come si fa a riformare il
sistema carcerario, perché noi siamo quelli che lo conosciamo
meglio.”
1
Ci si propone quindi di prendere in concreta considerazione i pensieri
di chi subisce l’azione punitiva.
“A chi gli domandava quando sarebbe stata abolita l’ingiustizia, un
saggio ateniese rispose: “Quando coloro che non subiscono torti si
indigneranno allo stesso modo degli oppressi.” ”
2
.
1
Cfr. Knight E. Voci negre dal carcere
2
cfr. ibidem
10
CAPITOLO 1
LA CONDIZIONE DEL DETENUTO:
UNO SGUARDO AL PRIMO FATTORE
Esistono milioni di opportunità nella vita
per coloro che ne necessitano.
Le circostanze possono essere difficili:
non perdere la tua forza.
A volte si commettono errori nella vita che
ci segnano per sempre.
L'importante è difendere la tua libertà e i tuoi ideali
e non permettere che l'utilizzazione
di un essere umano
venga portata avanti per fini sbagliati.
Chi ci induce al male non perde la sua libertà.
Siamo noi che in qualche momento
pensiamo che sia la via d'uscita
più facile. E' tutto il contrario.
La prigione priva la tua vita della libertà
in un tale modo da sentire che
per niente può esistere soluzione.
Dove sono i tuoi sentimenti?
Dov'è la tua famiglia? I tuoi amici?
I tuoi progetti? I tuoi sogni?
Veramente non ne vale la pena
di perdere tesori così grandi!
1. Una domanda rimasta
senza risposta.
2. Diritti umani: dell’uomo
o della persona?
Questo messaggio è per coloro che
sono in tempo a dire "NO"
e a cercare una via d'uscita
che porti ai veri valori della vita.
Noi Sudamericani, che siamo uniti e
nobili di cuore
dobbiamo accordarci e finirla una volta
per tutte
con questo traffico di esseri umani.
Sveglia, fratello, uniamo le nostre forze,
uniamo i nostri cuori,
uniamo le nostre mani,
è tempo di riscattare la nostra dignità
e il nostro onore.
L'idea è prendere coscienza di quanto
vale
la tua vita.
Il Dio meraviglioso che esiste in te
ti tende la mano per aiutarti.
La vita ti sorride
la libertà è la casa più preziosa che
esista al mondo.
Cruz Verga Mariangel
11
1. Una domanda rimasta senza risposta
Cos’è il carcere? Dare una risposta ad un così complesso
interrogativo non è cosa da poco. E non è la prima volta che esso
appare nero su bianco in attesa speranzosa di trovare finalmente
qualcuno in grado di dare una direzione unica e certa al quesito per
eccellenza nel mondo penale.
Ma purtroppo, secoli di storia e montagne di carta scritta su questo
non hanno saputo risolvere il paradossale dilemma carcerario
1
. Spesso
ci si è arrivati molto vicini, spesso molti hanno creduto
presuntuosamente di esserci arrivati, ma la verità è che probabilmente
questa domanda non troverà mai un’unica vera risposta. Per il
semplice fatto che, così come ci dimostra l’evoluzione avutasi finora,
ogni tempo, ogni società, ogni contesto ambientale è unico nel suo
genere e, come tale, nasce, cresce, e sviluppa un proprio modo di
pensare e di procedere, una propria organizzazione politica e
amministrativa. Ogni popolo (inteso nel più lato dei sensi), per quanto
involontariamente, si appoggia, con lo scorrere del suo tempo, ad uno
stile di passaggio, ad un formato che è misto di ideologia e senso
pratico, un formato strutturale che lo conduce, per ogni sua mossa e
decisione, in una precisa direzione.
Con questo voglio solo dire che ogni contesto storico è nuovo, e nella
sua diversità ha affrontato le tematiche più svariate: la disoccupazione,
la povertà, il commercio, gli affari in genere, l’istruzione, la
religiosità, ogni aspetto della vita civile e sociale. Quindi non è
sicuramente ultimo un aspetto che da sempre pervade ogni ambiente,
dai più sofisticati e ricchi, al più umile e povero, dai periodi più
pacifici e bengovernati a quelli rivoltosi e fragili: la criminalità.
Chiamata in tanti modi, a seconda del momento, degli effetti e delle
1
Pavaini M. I nuovi confini della penalità. – La situazione che si viene a creare nei sistemi di
giustizia penale moderni vede inglobata in essi, come modalità sanzionatoria, una pratica segnata
da una qualità inconciliabile, quella disciplinare: da qui il paradosso di una pena giusta con
contenuti di utilità.
12
reazioni che provocava, si è mostrata in svariate forme, dal
brigantaggio alla criminalità organizzata (se vogliamo rimanere in
casa).
2
Eppure, nonostante la criminalità sia sempre stata parte
integrante e forse uno dei più rilevanti problemi del percorso sociale
di un popolo, è quasi stupefacente quanto tardi siano iniziati gli studi e
le proposte per annientarla, e quanto poco, seppure molto in assoluto,
sia stato ricercato e scritto, proporzionalmente, rispetto ad altre
tematiche trattate molto più logorroicamente. Forse è perchè questa fa
un po’ paura.
Non da molto, per quanto possa sembrare strano, la prigione così
come noi la conosciamo, ha iniziato ad essere strumento di
risoluzione per il problema criminalità. Usata in altri termini, per
diversi scopi, solo a partire dalla rivoluzione francese, possiamo dire
di vederla strutturata e adibita a strumento di esecuzione della pena
3
.
Ecco allora che questo luogo, questa istituzione diventa pena; una
strana invenzione umana, la più imperfetta se pensiamo a quanto
tecnologicamente elevata deve essere oggi un’idea per essere
considerata invenzione! Forse il carcere è ancora un neonato nella
nostra mente così abituata ad avere e vivere lunghi ed arcaici precorsi
storici per tutto quello che tocchiamo e che ci tocca.
Dapprima come mero strumento di custodia dell’imputato, così e a
questo scopo è nata la struttura detentiva, è stata più volte elaborata
nell’architettura ma, a priori, nell’ideologia della finalità. E così si
passa al Panopticon di Jeremy Bentham, come struttura in grado di
concretizzare il sogno, demolitore di ogni libertà, di poter controllare a
vista l’essere umano in ogni sua mossa. E’ qui che il detenuto diventa
oggetto di osservazione, di studio, e il sorvegliante, l’autorità
giudiziaria, diventano lo scienziato. Ecco allora come trasformare il
carcere in laboratorio di analisi scientifica di cavie umane. E da queste
osservazioni nascono sempre più diversi punti di vista, da giuristi a
filosofi, da sociologi a psichiatri, da ogni fonte di scienza parte uno
spunto di riflessione, una considerazione di errore e una proposta di
cambiamento.
2
Cfr. Melossi D., Carcere e fabbrica.
3
Cfr. Foucault M., Sorvegliare e punire: nascita della prigione.
13
Cos’è meglio per la società? Neutralizzare l’individuo. Come?
Neutralizzazione definitiva e totale o limitata purché effettiva?
L’allontamento dalla società libera, il confinamento in una città nella
città, dove le regole sono fatte da chi guarda e contro chi le deve
seguire. Un luogo: sicuro, protetto, quanto più possibile tetro, sporco
e inumano, così da essere non solo una discarica di raccolta dei rifiuti
sociali, ma anche tale da poter soddisfare la sete sadica di vendetta
della gente, della “brava gente” che è solo vittima indifesa di criminali
senza cuore e senza nessun diritto. Non basta più quindi la limitazione
della libertà di movimento (detta con un eufemismo), non basta più la
segregazione fuori dalla vita. E’ sempre più necessario, perché
richiesto, un ulteriore aspetto: quello dell’annientamento dell’uomo in
quanto tale. Quello della distruzione della sua dignità, dei suoi
sentimenti, dei suoi pensieri, delle sue convinzioni. Non appena entra
dal cancello del carcere, non è più un uomo, è un fascicolo, un numero
di matricola. E colpevole. Sempre e comunque. Non solo del reato, di
cui spesso è solo imputato e non ancora condannato, ma di tutto ciò
che di sbagliato esiste. Di tutto ciò che fa o ha fatto. E’ una sensazione
che ti pervade tutte le membra, da subito, dal primo momento, dal
primo passo in quella terra di zombi. Tu sei lì perché sei colpevole. Tu
sei sbagliato. Tu sei il male fatto persona. Ogni centimetro di parete e
di soffitto, ogni sbarra, ogni sguardo e ogni parola dei sorveglianti (o
agenti che siano) ti fa sentire un nulla. Ti fa a poco a poco convincere,
anche se non lo sei, che in te e per colpa tua , ricade ed esiste tutto ciò
che è terribile errore.
Sono sensazioni che si trasformano in modo di essere, che oserei dire
possano essere descritte e spiegate come un misto tra ciò che,
brillantemente, Kafka ha voluto far nascere nel suo personaggio
capolavoro, Joseph K.,
4
e di conseguenza inevitabilmente in tutti i suoi
lettori, come sentimenti immediati all’accusa e precedenti
all’esecuzione della pena e quelli che, invece, Ferracuti illustra
parlando di prisonizzazione
5
. Essa rispecchia l’insieme degli effetti
4
Da Il Processo. F. Kafka – Joseph K., impiegato incensurato vede stravolgersi la sua vita da un
giorno all’altro per l’accusa di un reato di cui, fino alla fine, non conoscere i presupposti e la
natura. Non sa perché e di cosa, ma è colpevole.
5
Cfr. Ferracuti, Carcere e trattamento.
14
derivanti dall’esperienza della carcerazione, dove in essa rientrano
l’assunzione degli usi e dei costumi, delle abitudini e della cultura
generale della prigione, in cui si configurano tutte le caratteristiche di
una vita di deprivazione. Effetti che non possono che intensificare le
già esistenti attitudini criminali dell’individuo.
Ferracuti riporta anche come il rapporto tra carcerazione e
deterioramento mentale
6
sia quasi sempre costante e diretto e da qui
deriva un’inevitabile quesito sulla valutazione dell’efficacia della
detenzione.
Nonostante quest’ultima considerazione fosse opinabile perché non
basata su dati provati, con grande scienza per tutto ciò che abbraccia
questo mondo ( e a cui io mi appello da qui in avanti), Ferracuti
sostiene che, ad un’eventuale obiezione di questo genere, si potrebbe
legittimamente rispondere che “non tutti gli aspetti dell’esperienza
umana aspettano, per esistere, una prova quantitativa”.
Cercando di capire come si è evoluta l’idea dell’istituzione detentiva e
totale per antonomasia, in Italia, possiamo brevemente considerare il
passaggio, non certo automatico e immediato, ma nemmeno molto
pensato, che si è avuto dalla casa di lavoro per poveri
7
verso il carcere
correzionale, arrivando alla cella di isolamento, attraversando più e
più sistemi, punitivi, penali, esecutivi.
Dall’Italia all’oltreoceano, sono passati, davanti agli occhi e sopra le
vite dei condannati, tutti i modi e gli strumenti possibili di reclusione
ed esclusione. Più si andava radicando l’idea di pena retributiva, di
pena come deterrente, come soddisfazione per la vittima e come mera
punizione per l’autore di reato, tanto più si studiava meticolosamente
il modo migliore per rendere memorabile la pena; è il carcere duro,
dove peggiori sono le condizioni di vita del detenuto, migliore è la
riuscita del procedimento punitivo. Più tardi si arriva a capire che la
criminalità non va solo isolata, ma sconfitta, prevenuta, corretta. E
solo un’ideologia di tipo non meramente retributivo poteva mettere
alla prova nuovi sistemi indirizzati in tal senso. E in questa via
6
Cfr. ibidem
7
Cfr. Melossi D. e Pavarini M., Carcere e fabbrica.
15
vengono creati e studiati negli Stati Uniti prima il jail
8
, seguito dalla
house of correction (o workhouse)
9
con cui nasce l’idea di
collegamento concettuale tra il carcere e la fabbrica, ossia del carcere
e della detenzione come strumenti per creare ed educare la forza
lavoro. Ma l’internamento istituzionale si trasforma presto in pena
vera e propria e “il momento terroristico e intimidatorio ha
decisamente il sopravvento sull’originaria finalità rieducativa”. E’ così
che l’America si inventa il penitenziario (penitentiary sistem). Le
riforme saltellano dal Solitary Confinement al Silent System, da
Philadelphia (passando per Walnut Street) a Auburn, fino ad
attraversare lentamente l’oceano per arrivare anche nel vecchio mondo
alla fine del XVIII secolo dove, come vuole la nostra tradizione
moderata, i principi d’oltremare vengono acquisiti e incorporati in un
sistema misto.
10
È trascorso del tempo, si sono succedute decine di governi, è stata
creata ed emanata una serie inelencabile di norme per l’affermazione
della democrazia e della civiltà in tutti i suoi aspetti, ma davvero,
oggi, siamo sicuri di vivere in un paese civile, in una nazione
democratica, in uno stato di diritto? Davvero crediamo alla frase che
ci insegnano (o meglio dovrebbero insegnarci) fin da piccoli: "La
legge è uguale per tutti"?
Sì, qualcosa è sicuramente cambiato. Ma quanto?
Pensiamo alle pene corporali e alle torture
11
, come se fossero storia, la
storia di un ordinamento coercitivo di punizioni tout court
12
,
8
Ibidem – istituto di detenzione con finalità prevalentemente di carcere preventivo.
9
Ibidem – istituto in cui si dava preponderanza alla disciplina del lavoro per imporre la
rieducazione necessario per il futuro proletario.
10
Cfr. ibidem - Il sistema philadelphiano o Solitary Confinment prevedeva l’assoluto isolamento
sia diurno che notturno, incentrato soprattutto quindi sull’isolamento cellulare, l’obbligo del
silenzio, la meditazione e la preghiera. Con esso era promossa l’introspezione, considerata il
veicolo più efficace per il ravvedimento. Il sistema auburniano o Silent System era invece basato
sulla day association (con obbligo del silenzio) e la night separation. Inutile dire che entrambi i
sistemi vantavano come loro grande forza e punto di partenza il lavoro all’interno dell’istituto,
obbligatorio per tutti i detenuti.
11
Cfr.Foucault M., Sorvegliare e punire: nascita della prigione – capitolo 1: “Il corpo del
condannato”
12
Cfr. Beccaria C., Dei delitti e delle pene.
16
meramente retributive. Le vediamo come crude scene di film passati,
che ci fanno un po' paura e ci fanno provare un senso di
indignazione…ma è davvero passato così tanto tempo dall'ultima volta
che il governo del Paese in cui viviamo ha coscientemente autorizzato
una fucilazione o una marcatura a vita sulla pelle di un essere umano,
colpevole solo di essere vivo, vivo non solo nel corpo, ma anche nei
pensieri?
La nostra vita quotidiana è permeata da continue violenze , di ogni
tipo, che come un’iceberg rimangono sommerse, per la maggior parte,
negli abissi dell’indifferenza, inosservate, mentre noi riusciamo a
vederne solo la punta che emerge, che emerge perché altri la fanno
emergere o perché siamo noi a voler lasciare affondare il resto.
Ancora oggi la stessa cultura universitaria, che dovrebbe essere la
prima al passo con i tempi, è pervasa da insegnamenti anacronistici o,
all’estremo opposto, essa sembra raccontare come cenni storici del
mondo della legge e della giustizia, il modo in cui avveniva
l’esecuzione penale e vanta la sua evoluzione nei secoli e i grandi
passi che ha fatto la nostra civiltà in quest’ambito...ma davvero
dovrebbe essere raccontata e considerata come “storia”? Se solo una
volta si provasse a varcare la soglia di un qualsiasi istituto di pena o di
riabilitazione ci si potrebbe rendere conto che la storia non è poi così
passata. Forse in apparenza può sembrare che tutto sia diverso,
cambiato, che tutte le strutture fisiche e gli istituti giuridici esistenti ai
giorni nostri siano il massimo dell’obiettivo raggiungibile a favore del
reo. Ma basta togliere quel sottile velo di indifferenza e di intolleranza
per riuscire a scorgere dovunque quello che ancora oggi è la realtà:
l’apparenza è un corridoio bianco candido, la realtà è una strada senza
orizzonte chiusa a tutte le estremità, con aperture di 20 cm per 40 fatte
di sbarre, che vengono chiamate finestre.
13
L’apparenza è la mancanza
di catene ai piedi e alle mani, la realtà sono porte blindate, d’acciaio,
chiuse venti ore al giorno, che separano esseri umani dall’umanità.
13
Così come risulta anche dall’attenta ricerca svolta ed esposta in L’altro diritto: devianza,
emarginazione e carcere E.Santoro-Zolo un esempio di struttura costruita a fine diverso da quello
per cui viene utilizzata: la casa circondariale di Solicciano (Fi), dove il progetto prevedeva delle
finestre con vetri infrangibili e di protezione, ma a cui sono invece state sostituite le sbarre.
17
L’apparenza sono tre pasti caldi al giorno, la realtà è la
discriminazione totale, quella rigorosamente vietata dal nostro tanto
acclamato art. 3, che non permette a religioni diverse da quella che
viene ancora considerata erroneamente religione di stato, di poter
seguire le proprie regole.
L’apparenza è l’ora d’aria, la realtà è un buco di dieci metri quadrati
chiuso in tre lati su quattro, dove sostano ottanta persone alla volta.
L’apparenza è tantissime altre cose, e la realtà ancora di più.
Possiamo asserire che, strutturalmente e architettonicamente, alcune
carceri sono mutate nel tempo, possiamo anche affermare con certezza
che alcune nuove norme sono state varate con l’intento democratico di
tutelare quel minimo di garantismo dovuto e inviolabile degli
individui detenuti. Siamo anche riusciti ad arrivare ad una “quasi
risposta” a ciò che dovrebbe essere il carcere. Dico “quasi”, perché,
costituzionalmente, è previsto che la pena detentiva debba tendere alla
rieducazione del condannato e non debba consistere in trattamenti
inumani, quindi, volendo anche solo limitarci allo scorcio italiano del
modo di affrontare questo quesito, senza riportare le intere leggi e
dichiarazioni internazionali che tutelano i diritti dei condannati alla
pena detentiva, possiamo dire che si è arrivati a porre, come obiettivo
del sistema punitivo, il trattamento del reo finalizzato alla sua
rieducazione e riabilitazione, per un suo graduale e guidato
reinserimento concreto e corretto nella società libera. Non è opinabile.
Non sono ammissibili obiezioni di genere su questo assunto, basta
prendere in mano la nostra Carta Fondamentale e leggerne l’art. 27.
Tutto ciò che si provasse o si volesse portare a controdeduzione non
avrebbe valore in quanto sarebbe con esso contrastante. E’ chiaro, è
logico, è indiscutibile.
Ma, nonostante questo, se solo di poco ci allontaniamo dalla bella
chimera delle norme, per addentrarci nell’offuscato regno del reale,
vediamo che questa nuvola ondeggiante non è niente di più che un
compromesso. Un bel compromesso, frutto di anni e anni di lotte
politiche e sociali, tra quanti, sociologi, giuristi, parlamentari, filosofi
e altri studiosi, da un lato ambivano alla detenzione riabilitativa e
quindi utile e fruttuosa, e quanti, dall’altro invece, si ostinavano a
ribadire lo spreco di forze, mezzi, denaro, uomini e strutture per un
18
unico scopo, che non ritengo esagerato associare a quello dell’antica
faida. Chi commette reato deve pagare. Mera punizione. Senza alcun
concreto risultato, se non la perdita di ogni valore minimo di umanità
insito in ogni essere pensante. Ecco allora arrivare il più grande
compromesso di tutti i tempi. Basato su cosa? Sui fatti, sulla prassi.
Ebbene si, nonostante sia non solo logicamente immediato, ma anche
esplicitamente disciplinato dalla legge, il “divieto di limitare la libertà,
salvo per i motivi previsti dalla legge” (e quindi con lo scopo
rieducativo) e non certo previsti dalla prassi, oggi si assiste
quotidianamente e sempre più pubblicamente all’attivazione di questo
patteggiamento di ideali e di diritti, dove da un lato si auspicano
interventi e si legifera a favore del reo e del suo reinserimento, e
dall’altro si continua a parlare e scrivere di pena come deterrente, di
pena come castigo necessario, di carcere come logica conseguenza
meritata. Sia fatta giustizia.
La parte maggiormente rilevante e influente in questo compromesso è
sicuramente costituita dall’opinione pubblica, intesa nella sua
complessità multiforme, a partire dalle chiacchiere di strada fino ad
arrivare alla strumentalizzazione, direttamente e coscientemente
voluta, dei mass media. È un’intera popolazione, che nelle classi
sociali e demografiche più diverse, continua a pensare in un’unica
direzione, perché è l’unica direzione a cui è stata abituata e portata a
pensare. Perché non trova altre strade, altri motivi per dirigersi in altre
strade. È una mentalità di base che purtroppo risulta ancora troppo ben
radicata nella terra di questo Paese che si è tanto urlato liberale e
democratico e soprattutto civile.