2
Fin dalla sua regolamentazione nel Codice Civile e in quello
di rito, il legislatore ha espresso la sua intolleranza verso le
decisioni arbitrali delle controversie adottate al di fuori di una
scrupolosa osservanza delle norme. Da qui, il divieto nei
confronti delle risoluzioni equitative che ha compromesso, fin dai
suoi esordi, le buone chanches di successo dell’arbitrato, anzi, si
può affermare che ne abbia tarpato le ali.
Alla rigida regolamentazione dell’arbitrato rituale corrispose,
fin dalle prime possibilità di applicazione, una diffidenza
generalizzata degli interpreti e delle stesse parti istanti verso di
questo, perché apparendo una sorta di copia del procedimento
giurisdizionale offriva comunque garanzie minori. Per questo,
ben prima che l’arbitrato irrituale fosse battezzato dalla legge 15
luglio 1966, n. 604, gli interpreti espressero nei concetti la loro
preferenza per un arbitrato che permettesse più flessibilità alle
parti, ovvero l’arbitrato irrituale. Se dobbiamo credere alle parole
di Giuseppe Pera però, i protagonisti delle liti non la
manifestarono nei fatti, dato che egli non ricorda una decisione
adottata secondo gli schemi della l. 604/66.
Da quel primo riconoscimento legislativo, ci sono voluti
quasi trent’anni di fluttuazioni dottrinali e di interventi normativi
per definire l’arbitrato irrituale, e persino la sua denominazione
espressa ad opera del d.lgs. 387/98 non ha definitivamente posto
fine alle speculazioni riguardo a questo istituto controverso.
La dettagliata regolamentazione del procedimento arbitrale
irrituale conseguente all’entrata in vigore degli artt. 412 ter e
quater, inseriti nel Codice di Procedura Civile dal d.lgs. 31 marzo
1998, n. 80, ha indotto una parte della dottrina a credere che si
stia procedendo nel senso di una ritualizzazione dell’arbitrato
irrituale e quindi ad uno svilimento delle caratteristiche che
privilegiano la libera determinazione delle parti.
Un’altra corrente dottrinale ritiene invece che in una cornice
regolamentata privilegiante le disposizioni delle parti collettive e
3
l’affidamento ad esse dell’interpretazione delle clausole dei
contratti, la libertà delle parti litiganti non sia compromessa.
La tendenza di questi ultimi anni ci dice che il legislatore sta
cercando di responsabilizzare le parti sociali, in particolare i
sindacati dei lavoratori, nella gestione del procedimento arbitrale,
affidando loro quel ruolo compositivo che dovrebbe essere nella
natura stessa degli organismi avvezzi alla negoziazione i materia
di lavoro. Ora non resta che vedere se le organizzazioni di
categoria accetteranno l’impegno, formando il personale tecnico
adatto, predisponendo le giuste sedi in cui svolgere l’arbitrato,
ma soprattutto affrontando l’istituto con spirito più propositivo
rispetto al passato.
4
CAPITOLO PRIMO
L’ARBITRATO IN MATERIA DI LAVORO
PRIMA DELLA RIFORMA DEL ‘98
SOMMARIO: 1. L’arbitrato nella legislazione precodicistica. – 2. I limiti
dell’arbitrato nel c.p.c. del 1940. – 3. La preferenza per l’arbitrato
“contratto” a discapito dell’arbitrato “rito” nella disciplina post-corporativa.
– 4. La l. 533/1973 e la riforma degli art. 806 e 808 c.p.c. – 5. (Segue): le
impugnazioni. 6. (Segue): Valutazione sulle riforme apportate dalla l.
533/1973. 7. Il giudizio equitativo fino al d.lgs n. 80/1998.
1. L’arbitrato nella legislazione precodicistica.
Con l’Art. 1 r.d. 26 febbraio 1928 n. 471, contenente norme
per la decisione delle controversie individuali di lavoro, il
legislatore attribuiva la competenza nella decisione delle
controversie di lavoro al pretore o al tribunale, a seconda dei
limiti di valore. Sopprimeva inoltre i collegi dei probiviri e delle
commissioni per l’impiego privato istituiti rispettivamente con l.
15 giugno 1893, n. 295 e con r.d.l. 2 dicembre 1923, n. 2686 e
consente con l’art. 3 del suddetto r.d. alle parti dei singoli
contratti individuali di compromettere in arbitri le controversie
individuali di lavoro, ma allo stesso tempo al 2° c. sanciva la
nullità di quelle «[…] clausole dei contratti collettivi e delle
norme assimilate, con le quali sia stabilito che le controversie
individuali, derivanti dalla applicazione del contratto collettivo,
vengano risolute da arbitri o da collegi nominati dalle
5
associazioni contraenti, o comunque siano sottratte alla
competenza dell’autorità giudiziaria».
1
Quindi: era lecito l’arbitrato di proposizione individuale; non
era lecito l’arbitrato di derivazione sindacale non facoltativo
avente ad oggetto diritti derivanti dall’applicazione del contratto
collettivo.
Questa disciplina, confermata dall’art. 4, 1° e 2° co., r.d. 21
maggio 1934, n. 1073, non si riferiva o, meglio, trascurava, le
controversie collettive, per le quali l’art. 13, 3° co., l. 3 aprile
1926, n. 563, prevedeva la possibilità di decisione in via di
arbitrato rituale nelle controversie giuridiche ed economiche.
Fino al 1940 vennero alla luce altri tipi di arbitrato
interessanti più sotto il profilo filologico che per la pratica
applicazione derivatane. L’art. 26, 1° co., r.d. 29 giugno 1939, n.
1127, si preoccupava di risolvere le controversie nascenti dal
mancato riconoscimento di un corrispettivo sotto forma di
canone, prezzo o premio al lavoratore dipendente che avesse
realizzato un’invenzione industriale nel corso dell’attività
produttiva. Prevedeva che fosse un collegio di arbitri, amichevole
conciliatore, a comporre la controversia. Si trattava di vero e
proprio arbitrato rituale che, in questa parte, tuttora è in vigore
nonostante sia anteriore al codice di procedura civile.
2. I limiti dell’arbitrato nel c.p.c del 1940.
Nel 1940 con la promulgazione del nuovo codice di
procedura civile l’arbitrato in materia di lavoro conobbe una
prima vera regolamentazione negli artt. 806-808. L’arbitrato nel
lavoro nacque però monco. Il codice di rito del 1940 aboliva la
possibilità di compromesso individuale e vietava tanto la clausola
1
Flammia R., Arbitrato e conciliazione in materia di lavoro, in Enc. Dir. Treccani, II,
1998, pp. 1 sgg.
6
compromissoria individuale quanto quella intersindacale. Faceva
ciò rispettivamente negli artt. 806 e 808, 1° co., e nell’art. 808, 2°
co., in ciò aderendo all’orientamento del ministero della giustizia
che si contrapponeva a quello delle corporazioni, al contrario ad
essa favorevole.
Il contrasto tra i due ministeri venne composto grazie ad un
escamotage, l’istituzione dell’arbitrato dei consulenti tecnici
(artt. 455-458 c.p.c.), alla cui decisione il giudice poteva
rimettere le parti.
2
Questo tipo di arbitrato ebbe però scarsa
fortuna e pochissime applicazioni nella pratica perché le parti,
una volta adito il giudice, ben difficilmente accettavano di dare
l’ultima parola all’arbitro e perché questa translatio iudicii
proponeva come condizioni primarie che vi fosse un processo
pendente in primo grado, che le parti esprimessero parere
unanime e che la controversia vertesse in materie con contenuto
prevalentemente tecnico. Condizioni difficili da riscontrare nella
prassi.
3
Il legislatore non prevedeva che i lavoratori potessero
affidare ad arbitri le determinazioni in ordine alle controversie
derivanti dal rapporto di lavoro e quelle in materia di previdenza.
Considerava la materia trattata un diritto indisponibile del
lavoratore e in quanto tale, si preoccupava di sottoporlo alla
tutela di un giudice. L’arbitro infatti parla non della parte, ma per
la parte, cioè si propone sostituendola. Questa era, all’epoca, una
pretesa che lo Stato non poteva accettare. Mancava una
tradizione arbitrale e vi era un regime che tendeva ad accentrare
le competenze e a gerarchizzarle, e l’arbitrato non era uno
strumento ben visto. Una analisi successiva più approfondita di
questi articoli ci farà capire quanta difficoltà sia costata al
legislatore degli anni seguenti una riforma piena di questo istituto
2
Circolari A., La disciplina legislativa dalle origini alle recenti modifiche. L’arbitrato
nelle controversie di lavoro, in LG, 1999, 506.
3
Marchetti D., Arbitrato nelle controversie di lavoro, in Enc. del dir., vol. X, pp. 374-378.
7
controverso. Evidentemente le preclusioni nei confronti
dell’arbitrato come strumento alternativo di risoluzione delle
controversie di lavoro e previdenziali non erano dovute soltanto
alla impronta che il regime fascista ha voluto dare alla stesura del
codice di procedura civile.
I diritti individuali dei lavoratori erano ancora ben distanti
dalla piena affermazione, siamo in periodo di guerra, in pieno
regime fascista.
3. La preferenza per l’arbitrato “contratto” a discapito
dell’arbitrato “rito” nella disciplina post-corporativa.
Con la riforma del 1942 e l’avvento del nuovo Codice Civile
venne rimarcato che non vi è un giudice del lavoro distinto dal
giudice ordinario, e che per la risoluzione delle controversie di
lavoro esiste solo un rito speciale.
4
La diffidenza già più volte mostrata in passato si trasformò in
netta avversione del legislatore
5
per la risoluzione arbitrale
rituale.
Essa venne rimarcata con il divieto assoluto di arbitrabilità
delle controversie laburistiche ai sensi dell’art. 806 c.p.c.,
unitamente al divieto di inserire la clausola compromissoria nei
contratti individuali e nei contratti collettivi di lavoro ex art. 808
commi 1 e 2 c.p.c.
6
Tuttavia questa omologazione appare soltanto come un atto
formale, perché un processo del lavoro sostanzialmente esisteva e
lo sviluppo dell’istituto arbitrale in atto, seppure ad un livello
ancora embrionale, era la conferma che non moriva la volontà di
4
Cass., 26 settembre 1955 n. 2623, in FI, 1955, I, 1310.
5
Cecchella C., L’arbitrato nelle controversie di lavoro, Milano 1990, p. 33.
6
Muroni R., La nuova disciplina dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, in CG, 1998,
1339.
8
creare una struttura del processo del lavoro diversa da quella del
processo comune. Natura arbitrale avevano, per esempio, i
collegi tecnici per le qualifiche previsti dall’art. 96 disp. att. c.c.
Le limitazioni erano tuttavia forti e si riconoscevano nel
marchio impresso dall’art. 2113 c.c. che vietava le transazioni in
materia di lavoro. Si può addirittura affermare che
l’atteggiamento preclusivo nei confronti dell’arbitrato, scaturito
dal Codice di Procedura Civile, avesse impedito qualsiasi
tentativo di codificazione dell’istituto nel Codice Civile. Questo
ostacolò ogni forma di risoluzione arbitrale delle controversie
individuali di lavoro, nonché per la risoluzione, a livello
sindacale o individuale, delle controversie relative
all’applicazione dei contratti collettivi e degli accordi e delle
norme equiparate.
7
L’abolizione dell’ordinamento sindacale corporativo (correva
l’anno 1944) comportò anche l’abolizione di quelle che qualche
autore
8
definisce come le “sovrastrutture corporative”, ovverosia
la perdita della forte caratterizzazione pubblica dell’anima del
sindacato. Il sindacato, in sostanza, da quel momento divenne un
interlocutore privato, che non imponeva, ma discuteva. Correnti
di pensiero divergenti, traendo spunto dalle prime decisioni
giurisdizionali sull’argomento, si sono chieste quale conseguenza
potesse avere questo vero e proprio mutamento genetico sulla
sorte dell’arbitrato in materia di controversie individuali e
previdenziali.
Una prima corrente, che riconosciamo nella sentenza del
Trib. di Monza,
9
in data 25 marzo 1952, si esprimeva per un
divieto secco nei confronti dell’arbitrato, anche per quello
irrituale o libero, quale nella specie veniva considerato quello
7
Salvaneschi L., Il nuovo arbitrato in materia di lavoro, in RDP, 1999, p. 25.
8
Cataldi E., Il giudizio arbitrale nelle controversie individuali di lavoro e nelle
controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie, in RGL 1956, I, p. 195.
9
Trib. Monza, 25 marzo 1952, in D&L, 1953, II, 186.
9
previsto negli accordi confederali del 1947 e 1950 sulla
disciplina dei licenziamenti.
La seconda corrente si riconosce nella sentenza del Trib. di
Pistoia
10
in data 9 giugno 1952, che riconobbe che l’accordo
confederale del 1950, ponendo in essere un arbitrato irrituale e
non quello rituale cui solamente si riferivano gli art. 806 sgg.,
non ricadeva nel divieto da questo posto, e nella sentenza della C.
Cass., 18 giugno 1955, n. 1896, la quale riconobbe che «[…] il
divieto di sottoporre alla cognizione degli arbitri le controversie
di lavoro, stabilito dall’art. 806 del codice di rito, e certamente in
vigore, […] deve intendersi limitato alle ipotesi dell’arbitrato
rituale, che trasferisce a privati l’esercizio del potere
giurisdizionale».
11
La decisione della Cassazione, cui fa seguito una copiosa
giurisprudenza,
12
è interessante non tanto perché ribadisce che vi
era una componente etico politica che trascendeva le distinzioni
pubblico – privato nel divieto di compromettere in arbitri nelle
controversie di lavoro, ma perché lasciava uno spiraglio
consistente nei confronti dell’arbitrato irrituale, spiraglio dove si
insinueranno tutte le normative in materia di lavoro fino al 1977.
L’ostracismo per l’arbitrato rituale invece, come abbiamo
potuto constatare, permaneva senza distinzioni tra prima e dopo
l’abolizione del sistema sindacale corporativo e si corroborava
con la consapevolezza da parte degli interpreti del diritto della
forza della iurisictio esercitata con il lodo.
Dopo il 1955 più non si dubitava della validità dell’arbitrato
irrituale nelle controversie in materia di lavoro.
13
10
Trib. Pistoia, 9 giugno 1952, in D&L, 1953, II, 391.
11
Cass., 18 giugno 1955, n. 1896, in D&L, 1956, II, 189
12
Cass., 9 giugno 1960, n. 1523, in MGL, 1960, 256; Cass., 14 luglio 1961, n. 1702, in
MGL 1961, 350.
13
Cass., 24 settembre 1955, n. 2623, in D&L, 1956, II, 190; Cfr. anche Tarzia, Manuale del
processo del lavoro, Milano, 1987, pp. 33 sgg. Contra, Pera G., La nuova disciplina
dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, in RIDL, 1999, I, p. 359. L’autore, che in più
occasioni si dichiara poco propenso verso l’arbitrato, portando a testimonianza la sua
10
L’arbitrato irrituale non mirava a produrre un titolo
esecutivo, ma un atto avente tra le parti valore di contratto e non
richiedeva quindi elucubrazioni sul rispetto del principio di unità
della giurisdizione.
14
Di questo parere continuò ad essere la Suprema Corte anche
nel 1961,
15
affermando che «Il divieto di compromettere in arbitri
le controversie previste negli artt. 429 e 459 c.p.c. riguarda
soltanto l’arbitrato rituale e non già quello irrituale o libero, di
cui le parti hanno la facoltà di avvalersi, nella libera espressione
della loro autonomia negoziale, anche rispetto a quelle materie
sottratte al potere cognitivo del giudice privato».
La liceità dell’arbitrato irrituale si giustificava per la forza di
una realtà sociale che sottraeva al legislatore l’illusione del
monopolio nella giustizia del lavoro.
Il legislatore post-corporativo lasciò inalterate le chiusure nei
confronti della risoluzione arbitrale rituale, fosse essa richiesta
per dirimere una lite iam nata, o per risolvere controversie
nondum natae, al fine di evitare che le controversie individuali di
lavoro venissero sottratte agli organi giurisdizionali dello Stato e
si costituiscano organi giurisdizionali permanenti creati dalle
associazioni sindacali.
Ma le istanze sindacali si fecero pressanti, particolarmente
nel campo del lavoro subordinato privatistico, dove si crearono
procedure sindacali di giudizio per la risoluzione delle eventuali
controversie individuali.
16
decennale esperienza come presidente del collegio unico nazionale in Milano presso
l’ANIA per i licenziamenti dei dirigenti amministrativi, riferisce che nella gran parte dei
casi le procedure si concludevano in via di conciliazione.
14
Cass., 29 febbraio 1954 n. 529, in GC, 1954, 525.
15
Cass., 14 luglio 1961, n.1702, in MGL, 1961, 350.
16
Circolari A., La disciplina legislativa dalle origini alle recenti modifiche. L’arbitrato
nelle controversie di lavoro, in LG, 1999, 506. L’autore cita ad esempio l’accordo
interconfederale 29 aprile 1965 sui licenziamenti individuali, il quale prevedeva che un
collegio di conciliazione ed arbitrato potesse, nel caso di licenziamento ingiustificato o
immotivato, disporre – con giudizio equitativo – a carico del datore di lavoro il
pagamento di una penale alternativa rispetto al ripristino del rapporto.
11
Il relativo successo riscontrato da queste procedure sindacali
alternative venne colto dalla l. 15 luglio 1966, n. 604 e dalla l. 20
maggio 1970, n. 300 (cosiddetto statuto dei lavoratori), le quali
rappresentavano la sintesi delle pressanti istanze sindacali su
questo tema.
17
Entrambe trattavano la materia all’art.7, la prima
in materia di licenziamenti individuali, la seconda in merito alle
sanzioni disciplinari.
L’arbitrato irrituale era già riconosciuto dalla giurisprudenza
e dalla dottrina prevalente,
18
ma l’art. 7, 5° co., l. 604/66 passa
alla storia come il primo riconoscimento legislativo dell’arbitrato
irrituale,
19
disponendo che: «In caso di esito negativo del
tentativo di conciliazione di cui al primo comma le parti possono
definire consensualmente la controversia mediante arbitrato
irrituale».
Per la prima volta venne riconosciuta dalla legislazione la
possibilità di arbitrati individuali avviati dal lavoratore e dal
datore di lavoro al di fuori della predisposizione collettiva della
risoluzione delle controversia in materia di licenziamento.
L’art.7, 6° co., l. 300/70 disponeva che «Salvo analoghe
procedure previste dai contratti collettivi di lavoro e ferma
restando la facoltà di adire l'autorità giudiziaria, il lavoratore al
quale sia stata applicata una sanzione disciplinare può
promuovere, nei venti giorni successivi, anche per mezzo
dell'associazione alla quale sia iscritto ovvero conferisca
mandato, la costituzione, tramite l'ufficio provinciale del lavoro
e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed
arbitrato, composto da un rappresentante di ciascuna delle parti
e da un terzo membro scelto di comune accordo o, in difetto di
accordo, nominato dal direttore dell'ufficio del lavoro. La
17
Magnani M., Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro dopo il d.lgs. N.
80/1998, in MGL, 1999, p. 684.
18
Tarzia G., Manuale del processo del lavoro, Milano, 1987, pp. 34 sgg.
19
Salvaneschi L., Il nuovo arbitrato in materia di lavoro, in RDP. 1999, p. 29.
12
sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte
del Collegio».
20
Lo “statuto dei lavoratori”, che unificò le funzioni di
conciliazione e arbitrato in un unico collegio, sembra prescindere
dal compromesso per conferire al lavoratore il diritto di avviare
la procedura compositiva. Addirittura venne utilizzata la parola
“rappresentante”, quasi a voler conferire all’arbitro quei caratteri
di autonomia e terzietà che nell’arbitrato irrituale non dovrebbe
avere.
Come è noto, l’attività degli arbitri irrituali deve essere
ricondotta alla definizione dei diritti in contestazione e non alla
affermazione, dall’esterno del rapporto, della norma del caso
concreto. La norma non si preoccupava però di specificare la
natura dell’arbitrato in essa prevista
21
e questa mancanza ha
creato non pochi disagi nell’interpretazione. Risultando
comunque chiare le finalità dell’istituto in termini di efficacia ed
impugnabilità del lodo e la sua somiglianza con quelli previsti
nei contratti collettivi si è favorita una sua definizione come
arbitrato libero.
22
Restavano salve la facoltà di adire l’autorità
giudiziaria e le diverse determinazioni previste dai contratti
collettivi.
Non v’è chi non noti come anche nella terminologia usata
nella stesura dello “statuto dei lavoratori” si riflettevano le
preferenze di Giugni, padre della legge, per le soluzioni arbitrali.
Egli infatti già nel 1967 esprimeva queste convinzioni in un
convegno che si tenne in Bologna ad iniziativa dei comitati
d’azione per la giustizia, in dissenso con il magistrato
20
Battista L., Le nuove conciliazioni e gli arbitrati nelle controversie di lavoro, Il Sole 24
ore, II ed., p. 150.
21
Salvaneschi L., Il nuovo arbitrato in materia di lavoro, in RDP, 1999, p. 30.
22
Grandi M., L’arbitrato irrituale, cit., p. 423; Tarzia G., Manuale del processo del lavoro,
Milano, 1987, p. 36; Salvaneschi L., Il nuovo arbitrato in materia di lavoro, in RDP,
1999, p. 30.
13
Franceschelli, il quale all’opposto si batteva su posizioni
statualistiche per la giustizia di stato.
23
4. La l. 533/1973 e la riforma degli artt. 806 e 808 c.p.c.
I perduranti divieti di compromettere in arbitri le
controversie individuali, si prefiggevano di garantire una
posizione paritaria dei lavoratori in un confronto con i propri
datori di lavoro, posizione che ancor oggi merita di essere
tutelata, ma si rendevano anacronistici alla luce delle battaglie di
rivendicazione sindacale che invece premevano per l’attuazione
di metodi più democratici di confronto. È dunque per una
conseguenza quasi logica che si impose come primo momento di
rottura e quindi pietra miliare dello sdoganamento dell’arbitrato
la l. 11 agosto 1973, n. 533.
L’art. 4 sostituì il 2° comma dell’art. 808 c.p.c. prevedendo
la possibilità di far decidere le controversie individuali di lavoro
da arbitri rituali se questo fosse previsto dai contratti o accordi
collettivi di lavoro. La clausola compromissoria intersindacale
inoltre non doveva, a pena di nullità: impedire alle parti di adire
comunque il giudice; autorizzare gli arbitri a decidere secondo
equità; dichiarare il lodo non impugnabile. L’art. 4 stabilì inoltre
che la sanzione arbitrale è sottoposta alle nullità previste dall’art.
829 e per violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi.
24
La parziale modifica dell’art. 808 c.p.c. in realtà lasciò
invariata la preclusione del legislatore verso l’opzione rituale. Il
divieto fu solo stemperato, perché all’atto di ammettere
l’arbitrato rituale qualora vi fosse la predisposizione collettiva, si
23
Pera G., La nuova disciplina dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, in RIDL, 1999, I,
p. 362; Battista L., Op. cit., p. 12.
24
Flammia R., Arbitrato e conciliazione in materia di lavoro, in Enc. Dir. Treccani, II,
1998, p. 1.
14
sanciva al contempo il divieto di deferire agli arbitri le
controversie individuali di lavoro non risultanti
dall’interpretazione dei contratti collettivi.
25
L’adesione all’arbitrato rituale venne ritenuta assolutamente
facoltativa dal legislatore che, anzi, si preoccupava che la
clausola compromissoria intersindacale non obbligasse
all’arbitrato. La certezza inequivoca che questo obbligo sarebbe
stato contrario ai principi sulla giurisdizione, è propria della
Corte Costituzionale, la quale si affrettò a sancirne il divieto.
26
La
Corte Costituzionale infatti, «[…] ha escluso che il ricorso
all’arbitrato possa nascere da una disposizione di legge che
prescinda dal consenso delle parti».
27
L’art. 5 delimita imperativamente la disciplina dell’arbitrato
irrituale, regolandone il campo di applicazione, le fonti istitutive,
i rapporti con il giudizio ordinario ed i limiti di validità.
28
L’arbitrato irrituale venne ammesso in via generale per le
controversie riguardanti i rapporti di cui all’ art. 409 c.p.c., ma a
determinate condizioni. Disponeva l’art. 5 che, per le
controversie individuali, l’arbitrato irrituale veniva ammesso o
quando era previsto dalla legge o comunque quando fosse
contemplato da accordi o contratti collettivi.
La prima impressione che si ricava dalla norma è quindi
quella di una estrema selettività delle fonti dell’arbitrato irrituale
in materia con conseguente divieto di patti compromissori
individuali non scaturenti da una derivazione collettiva.
29
Nel
caso dell’arbitrato libero, la clausola compromissoria
intersindacale non poteva impedire di adire l’autorità
25
Salvaneschi L., Il nuovo arbitrato in materia di lavoro, in RDP, 1999, p. 30.
26
C. Cost. 14 luglio 1977, n. 127, in La legge, Ipsoa, II, 2001.
27
Circolari A., La disciplina legislativa dalle origini alle recenti modifiche. L’arbitrato
nelle controversie di lavoro, in LG, 1999, 507.
28
Salvaneschi L., Il nuovo arbitrato in materia di lavoro, in RDP. 1999, p. 33.
29
Grandi M., L’arbitrato irrituale, cit., p. 425.
15
giudiziaria.
30
Questo veniva detto esplicitamente al 1° comma e il
lodo che si fosse posto in contrasto o avesse violato queste
disposizioni inderogabili di legge era da considerarsi nullo.
Il 2° comma prevedeva la nullità dei lodi irrituali quando vi fosse
violazione delle disposizioni inderogabili di leggi o contratti e
accordi collettivi, sancendo così la preclusione verso l’utilizzo di
criteri equitativi.
31
L’ultimo comma dell’art. 5 rinviava all’art. 2113, 2° e 3° co.,
c.c., modificato dall’art. 6, l. 533/73, per l’impugnazione delle
rinunce e transazioni riguardanti la violazione di norme
inderogabili. Assimilando la disciplina del lodo irrituale a quella
delle rinunce e transazioni, il legislatore rese così l’arbitrato più
esposto all’impugnazione. In tal modo infatti il lavoratore
avrebbe potuto pregiudicare l’efficacia del lodo impugnandolo,
entro sei mesi, con qualsiasi atto scritto anche stragiudiziale.
32
Si impone la necessità di una breve disamina riguardo ai
contenuti applicativi degli artt. 4 e 5, ovvero dei rapporti di
lavoro da essi considerati. Si scopre così che la regolamentazione
del compromesso rituale (art. 806 c.p.c.), della clausola
compromissoria rituale individuale e di quella intersindacale (808
c.p.c.), nonché dell’ arbitrato irrituale (art. 5, l. 533/73)
comprende una gamma molto vasta di rapporti. Non solo rapporti
di lavoro subordinato privati, ma anche quelli dei dipendenti
pubblici che dalla legge non fossero devoluti ad altro giudice.
30
Tarzia G., Manuale del processo del lavoro, Milano, 1987, cit., pp. 37 sgg.; Flammia R.,
Arbitrato e conciliazione in materia di lavoro., in Enc. Dir. Treccani, II, 1998, pp.1 sgg.
31
Cfr. Tarzia G., Manuale cit., p. 38.
32
Magnani M., Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro dopo il d. lgs. N.
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