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INTRODUZIONE
Il termine felicità ricorre spesso nei discorsi quotidiani e nei luoghi comuni. La natura
umana ci spinge ad esternare ai nostri cari stati di benessere o malessere e a pensare alla
felicità come il fine ultimo della nostra esistenza. Ma quanto ne sappiamo davvero della
felicità? Esiste un modo per definirla e, soprattutto, per raggiungerla? L’idea della mia tesi
parte da qui.
Cercare di individuare gli ambiti della vita che sono effettivamente influenti sulla
personale sensazione di benessere è l’obiettivo della prima parte di questo lavoro.
Ma l’argomento su cui ho voluto focalizzarmi è il rapporto tra denaro e felicità, nel tentativo
di capire se e in che misura la convinzione diffusa che più denaro comporti maggiore felicità
abbia un fondamento reale. Il mio lavoro rivisita dunque il concetto e le dinamiche della
felicità da un punto di vista esclusivamente economico, basandosi sugli studi e le statistiche
che sono stati finora condotti in merito.
La tesi si articola in 3 capitoli.
Nel primo capitolo cerco di chiarire il concetto di felicità, evidenziando in che termini
esso è stato inteso nel corso del tempo dagli economisti e come questi ultimi la interpretano
ad oggi. L’ultimo paragrafo del capitolo accenna all’economia della felicità, un fenomeno
multidimensionale innescato dall’opera di Richard Easterlin pubblicata nel 1974 ed oggi
incentrato su eventi di rilevanza internazionale e politica.
Nel secondo capitolo passo in rassegna i metodi finora sperimentati e, in alcuni casi
adottati, per misurare il benessere delle nazioni, da un lato, e la felicità soggettiva, dall’altro.
In entrambi i casi, sono presenti riferimenti a studi e metodi italiani che si pongono
all’avanguardia nel campo delle ricerche e sperimentazioni sugli indicatori di benessere
nazionale, da un lato, e sulla misurazione del benessere soggettivo tramite questionari
appositi, dall’altro.
Nel terzo capitolo entro nel cuore dell’economia della felicità. Nella prima parte
spiego le dinamiche del paradosso della felicità introdotto dallo stesso Easterlin.
Ne fornisco poi un’interpretazione inserendolo nel più ampio contesto socio-culturale in cui
si manifesta. Il paragrafo 3.2 si incentra invece su una serie di casi in cui il paradosso risulta
evidente, sulla base di studi e statistiche nazionali ed internazionali. Il capitolo si conclude
con un quadro delle strategie di politica economica a cui i governi locali potrebbero ricorrere
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per ridurre l’entità di tale paradosso, al fine di assicurare o quantomeno proteggere il livello
di benessere soggettivo e sociale.
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CAPITOLO 1. LA FELICITÀ IN ECONOMIA
Nella Dichiarazione di indipendenza americana il “perseguimento della felicità” è uno
dei diritti fondamentali, posto allo stesso livello della “vita” e della “libertà”.
La ricerca della felicità è promossa dall’idea che essa sia l’obiettivo ultimo dell’esistenza o
che sia almeno un aspetto centrale del significato della vita come sostengono molti filosofi
partire da Aristotele ed Epicuro. L’importanza attribuita alla felicità dipende dalle
caratteristiche culturali: l’evidenza mostra che il perseguimento del benessere individuale ha
un peso più rilevante per le società individualiste piuttosto che in quelle collettiviste, le quali
tendono a focalizzarsi sull’armonia all’interno della comunità.
Il concetto di felicità cambia dunque secondo tempi, luoghi, culture e in base alla persone
stesse; non può per questo essere definito in maniera esaustiva in base a un semplice schema
teorico. Comprenderlo è dunque un obiettivo ambizioso che richiede il supporto di approcci e
discipline diversi.
In economia, la massimizzazione dell’utilità è largamente intesa come la
massimizzazione del benessere dell’individuo, intesa come soddisfazione ottimale delle sue
preferenze. Nel XIX secolo l’economista Jeremy Bentham, fondatore della teoria utilitarista,
definisce l’utilità come “quella proprietà di ogni oggetto per mezzo della quale esso tende a
produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità
1
”. Quando il termine “utilità” viene da
lui utilizzato per la prima volta, esso si riferisce a stati di piacere e dolore associati
rispettivamente a condizioni di felicità e infelicità. Il concetto fa riferimento a quella che oggi
viene definita “utilità esperienzale o momentanea”, atta a misurare la percezione del
benessere individuale complessivo e la soddisfazione nei confronti della vita in un dato
momento o periodo di tempo. Tale concetto è stato poi per lungo tempo rimpiazzato dalla
cosiddetta “utilità decisionale”, introdotta dagli economisti neoclassici e perno della teoria
utilitarista in economia moderna.
L’utilità decisionale scaturisce dall’osservazione del processo di scelta di un individuo
da parte di un soggetto esterno ed è in grado di fornire informazioni circa le sue preferenze e
il modo in cui egli cerca di massimizzare il proprio benessere. L’argomento principale
dell’economia moderna in proposito prende il nome di “teorie delle preferenze rivelate”.
1
Fonte: Bentham J., Introduzione ai principi della morale e della legislazione. 1998, pp. 90-91
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Questa teoria si basa sui cosiddetti assiomi di razionalità, ritenuti essenziali per descrivere il
comportamento decisionale di un individuo.
Tali assiomi si riflettono dunque anche nelle sue preferenze che, secondo la teoria, devono
essere coerenti nei confronti delle alternative che egli ha di fronte; in particolare, il
consumatore tipico non si contraddice (assioma di transitività) e non è incerto nell’ordinarle
(assioma di completezza). A questi assiomi se ne aggiungono altri atti a descrivere un
comportamento razionale anche quando le scelte avvengono in condizioni di incertezza.
La teoria microeconomica non dà alcuna importanza all’analisi del contenuto delle preferenze
perché, una volta che il soggetto le ha espresse o rivelate con le sue scelte, ha già fornito tutti
gli elementi necessari per capire come probabilmente si comporterà. La razionalità
economica prevede che l’agente non abbia molti margini di manovra: la scelta è già implicita
nelle premesse del discorso economico, poiché è data dalla massimizzazione della funzione
di utilità che rappresenta le preferenze.
Una delle implicazioni principali di questa teoria è che un individuo può migliorare il
proprio benessere aumentando il reddito a sua disposizione, e anche che le misure di politica
pubblica finalizzate all’aumento del reddito complessivo della società portano a un livello
maggiore di benessere. La teoria può dunque essere descritta nei termini di un “di più è
meglio”. Essa però non include alcuna valutazione degli stati mentali soggettivi e tratta
solamente i comportamenti osservati.
Il filone di ricerca sulla felicità che ha recentemente preso piede anche in economia ha
riportato la concezione della felicità al significato originale di utilità. Seguendo dunque la
linea degli economisti nell’usare il termine “utilità” come sinonimo di felicità e benessere,
possiamo distinguere l’utilità in base ad un criterio temporale: l’utilità percepita è legata ad
un sentimento positivo come gioia o una sensazione di contentezza momentanee; l’utilità
attesa invece all’occasione si dimostra inferiore a quella effettiva; ne segue un sentimento di
delusione e quindi di diminuzione della felicità. Infine vi è anche l’utilità ricordata che deriva
da precedenti esperienze legate ad una stesso consumo e quindi dovuta alla formazione di
abitudini.
L’economista Edgeworth definisce la felicità di un individuo come “la somma delle
utilità momentanee sperimentate in un determinato periodo di tempo, oppure come
l’integrale temporale delle utilità momentanee
2
”.
2
Fonte: Kahneman and Krueger, Developments in the Measurement of Subjective Well-Being, 2006
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In base a tale definizione, il benessere di un individuo può essere espresso dalla seguente
equazione:
dove u
t
rappresenta l’utilità momentanea nell’istante di tempo t, c
t
è il consumo nell’istante t
e U
t
è l’utilità totale nell’istante t. La validità di questo modello basato sull’idea di utilità
additiva è confermata dal fatto che esso è stato poi ripreso da altri economisti e riportato nei
modelli economici più importanti della teoria del consumatore, in particolare quelli che
spiegano il suo comportamento di consumo e risparmio.
Tuttavia, già alcuni economisti del tempo rilevarono qualche difficoltà
nell’applicazione empirica dell’integrale. Irving Fisher, ad esempio, condivideva con
Edgeworth la convinzione che fosse necessario studiare un modo per misurare l’utilità anche
ai fini di una politica economica che mirasse alla massimizzazione del benessere collettivo,
ma riteneva che non fosse possibile misurarla direttamente. Fisher suggerì infatti dei metodi
indiretti per misurare l’utilità, quali l’induzione retrospettiva e l’osservazione del
comportamento di scelta. L’idea di Fisher e i metodi da lui suggeriti erano pienamente
condivisi anche da Vilfredo Pareto e da altri economisti di rilievo, finchè essa ha
completamente preso piede all’interno della teoria economica. Di lì in seguito, gli economisti
hanno fatto riferimento a misure oggettive e quantificabili per misurare il benessere e che
fossero ad esso collegate, quali il reddito a livello individuale e il PIL, seguito da
disoccupazione e inflazione, a livello macroeconomico.
Gli psicologi in realtà non si dissolsero mai dalla convinzione che fosse possibile
misurare in maniera diretta e specifica il benessere. I loro nuovi tentativi furono ignorati dagli
economisti fino agli anni ‘70. A livello macroeconomico, l’opera pubblicata da Easterlin nel
1974, “The Easterlin’s Paradox”, sull’evidente incapacità dello sviluppo economico di
determinare un aumento della felicità negli Stati Uniti, costituiva un richiamo immediato a
rivedere la teoria: se una crescita economica così significativa come quella sperimentata nel
dopoguerra dagli Stati Uniti, così come da altri Paesi sviluppati, non sfociava in alcun
aumento di felicità, qual era a quel punto il senso di perseguire la crescita economica?
A livello microeconomico, invece, lo studio condotto dallo psicologo Kahneman nel 1979
poneva luce sul processo decisionale dell’individuo e sulle irrazionalità e distorsioni
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cognitive che spesso lo dominano inconsapevolmente. Tale constatazione rappresentava una
forte critica alla validità della teoria delle preferenze rivelate, sulla quale l’economia
tradizionale aveva fondato il processo di scelta del consumatore.
Lo sviluppo di un’economia sperimentale e comportamentale fu la risposta a tali
contrasti e reintrodusse la legittimità degli studi psicologici in ambito economico. È stato
probabilmente quest’ultimo il fattore che ha incentivato gli studi economici sulla misurazione
della felicità e della soddisfazione fino alle ricerche più recenti. Il premio Nobel in economia
riconosciuto a Kahneman nel 2002 sottende l’importanza e il valore che questo campo di
studi ha assunto nelle ricerche economiche attuali.
Le definizioni finora citate non possono comunque celare una certa leggerezza
metodologica nell’uso dell’espressione felicità, come confermato dallo stesso capostipite
Richard Easterlin: “uso i termini happiness, subkective well-being, satisfaction, utility, well-
being e welfare come sinonimi
3
”.
Gli economisti distinguono tra la dimensione sociale della felicità, la cosiddetta
felicità pubblica, e la dimensione individuale o soggettiva. La felicità pubblica può essere
definita come il bene comune a cui deve essere finalizzata l’attività di governo. All’aspetto
pubblico della felicità si dedica una branca economica specifica, l’economia civile, che
rappresenta l’approdo moderno della tradizione civile iniziata nel Medioevo. Essa è infatti il
risultato di studi incentrati sul nesso tra vita civile e felicità pubblica o nazionale che videro il
periodo di fioritura durante l’Umanesimo con la scuola napoletana guidata da Antonio
Genovesi. La vita civile è vista come il luogo in cui la felicità può essere raggiunta
pienamente, grazie alle buone e giuste leggi, ai commerci e ai corpi civili; in questi ultimi, gli
uomini esercitano la loro socialità e la reciprocità, intesa come il reciproco diritto e dovere di
ricevere e prestare soccorso nei bisogni umani.
Sia la socialità che la reciprocità sono, secondo gli economisti civili, alla base dell’istinto
altruistico dell’uomo che lo stimola e lo motiva nel fornire il proprio personale contributo al
bene pubblico. In continuità con Montesquieu e la sua tesi del “dolce commercio”, la
tradizione napoletana considera l’attività economica come un fattore civilizzante che,
promuovendo l’equa distribuzione della ricchezza, contribuisce al bene pubblico.
3
Fonte: Easterlin R. A., Income and Happiness: Towards a Unified Theory. 2001, p. 465