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INTRODUZIONE
Questo lavoro si propone di trattare, un tema che negli ultimi anni ha assunto rilievo
all’interno dell’organizzazione politica e istituzionale del Paese, e cioè, quello relativo
alle forme di finanziamento delle autonomie locali.
Il profilo riguardato è costituito dal riconoscimento di una più ampia sfera di
autonomia finanziaria a favore degli enti locali, la quale, modificando la capacità di
determinazione nella tipologia delle risorse, ha contribuito ad innescare un processo
evolutivo finalizzato a ridurre la dipendenza finanziaria dai “trasferimenti” dello Stato
che, per molto tempo, hanno caratterizzato la finanza locale.
Il tema, viene esaminato alla luce delle recenti riforme operate attraverso la legge
costituzionale n. 3/2001, che sembra esprimere l’elemento di raccordo necessario ad
assicurare armonia agli innumerevoli tentativi di riforma (attuati con leggi ordinarie),
volti a riconoscere la piena autonomia degli enti locali.
L’attenzione viene incentrata sugli enti locali (in particolare su Comuni e Province),
poiché, rappresentando gli enti più vicini alla collettività amministrata, costituiscono i
destinatari del progetto che, in base al principio di sussidiarietà, il legislatore di riforma
costituzionale intendeva realizzare, ovvero un il decentramento in capo a tali livelli di
governo, di funzioni e competenze necessarie alla cura di interessi pubblici
nell’evidente intento di cogliere direttamente e più agevolmente le aspettative delle
collettività medesime.
A tal proposito, uno degli obbiettivi prioritari della riforma costituzionale, è stato
proprio il riconoscimento sempre più deciso del “principio di sussidiarietà”
(inizialmente contenuto nella l. n. 59/97), al quale, occorreva attribuire un carattere
costituzionale. Per cui, la configurazione dei rapporti fra Stato, Regioni ed enti locali,
implementata dal modello di decentramento “sussidiario”, appare come una delle
componenti fondamentali a cui fare maggiormente riferimento nel tentativo di svolgere
questo lavoro di tesi.
Tuttavia, il decentramento amministrativo, da solo, non assumerebbe alcun valore
istituzionale se esso non venisse accompagnato dal riconoscimento all’ente locale di una
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sfera di autonomia più ampia e di una identità differente rispetto a quelle del passato.
Proprio quest’ultimo punto, costituisce una delle innovazioni più significative della
riforma adottata con la legge n. 3/2001, e cioè, quella di riconoscere a tutti gli enti
istituzionali (Stato, Regioni, Province, Comuni e Città metropolitane) pari dignità
costituzionale, accogliendo così, istanze pluralistiche sotto il profilo politico ed
amministrativo.
Nell’ambito di tale ordinamento, volto ad attribuire piena autonomia agli enti locali,
garantirne anche la capacità finanziaria diviene un esigenza fondamentale dal momento
che, ormai, appare un fatto scontato che senza mezzi finanziari tali enti non sarebbero in
grado di esprimere pienamente un carattere autonomo.
Il processo di decentramento delle competenze verso Province e Comuni, costituisce
quello che oggi comunemente (e a volte impropriamente) viene chiamato “federalismo
amministrativo”, il quale, rappresenta un modello di riferimento a cui molti stati (tra cui
l’Italia) si ispirano nel tentativo di riformare il loro ordinamento strutturale.
Il c.d. federalismo, porta con sé una caratteristica essenziale, ossia la necessità di
modernizzazione, nel senso che sia le strutture organizzative che le risorse finanziarie
dell’ente locale devono oggi essere adeguate rispetto alle nuove competenze spettanti
all’ente medesimo.
Proseguendo nell’analisi, dopo aver richiamato il concetto di “autonomia”, nonché le
problematiche costituzionali poste dal nuovo regime dell’autonomia finanziaria locale,
l’esame intende approfondire, da un lato, le novità introdotte dal nuovo art. 119 Cost.,
seguendo un approccio comparatistico col testo precedente; dall’altro, la delicata
tematica della perequazione fiscale, intesa come strumento al servizio della solidarietà
quale dovere inderogabile dei poteri pubblici.
In seguito il lavoro, si incentra sul tema riguardante le diverse fasi in cui il
legislatore, nel corso degli anni, ha posto mano al decentramento politico e finanziario
del sistema delle autonomie. A tal proposito, si è cercato di mettere in evidenza, le
diverse riforme attuate nell’ultimo decennio, durante il quale è stato possibile registrare
un’attenzione ben più organica di quella conosciuta in passato. In tal senso, a partire
dalla legge n. 142 del 1990, si è realizzata una svolta del processo riformatore di
rilevante portata, in quanto, si è assistito ad una sorta di rilancio delle autonomie
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territoriali e il conseguente riconoscimento di un grado di autonomia politica e
finanziaria, mai attribuito nei tempi passati.
Con riferimento all’autonomia finanziaria degli enti locali, certamente non si può
fare a meno di considerare il versante dell’autonomia tributaria di Comuni e Province,
che risulta essere profondamente legato a quello centrale. Al riguardo, quindi, l’analisi
si incentra, per un verso, sull’autonomia tributaria potenzialmente riconosciuta agli enti
locali sulla base alla l. cost. n. 3/2001 e, dall’altro, sulle varie forme di finanziamento
(consolidate ed innovative) attraverso cui, le autonomie territoriali, reperiscono risorse
per l’erogazione di quelli che sono i cd. “servizi pubblici locali”. In particolare,
un’attenzione particolare è stata rivolta alla natura giuridica del tributo ed alla
classificazione delle varie forme di “prelievi” economici che l’ente locale effettua sulla
collettività amministrata.
Tuttavia, l’analisi si è voluta incentrare, non tanto sulla verifica di quali o quanti
siano i singoli tributi comunali e provinciali, né tantomeno nell’esplicare quale sia il
loro funzionamento tecnico–contabile, quanto, piuttosto, si è voluto affrontare un
problema di recente proposizione che scaturisce in seguito all’introduzione del nuovo
art. 119, e cioè, la possibilità per gli enti locali di istituire tributi propri.
La trattazione si conclude, infine, rivolgendo l’attenzione (anche se in via del tutto
generale) verso la tematica del dissesto finanziario degli enti locali. A tal proposito,
vengono analizzati, in primo luogo, le cause che possono condurre l’ente locale ad una
limitazione della sua sfera di autonomia, nonché alle modalità attraverso le quali può
ottenersi il risanamento dell’ente dissestato.
In conclusione, il lavoro offre il tentativo di ricomporre i principali tasselli della
nuova autonomia dell’ente locale nelle sue diverse sfaccettature (potestà statutaria,
legislativa, amministrativa e finanziaria), ed inoltre, di offrire una panoramica
concernente il processo legislativo che ha riguardato l’ente locale fino a coglierne gli
aspetti essenziali introdotti dalla legge cost. n. 3/2001, sottolineandone quelli di
carattere finanziario.
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CAPITOLO 1
IL NUOVO TITOLO V DELLA PARTE SECONDA DELLA
COSTITUZIONE
1.1. Processo di riforma costituzionale: motivi e presupposti
Prima di procedere alla trattazione dell’argomento centrale di questo lavoro, si ritiene
necessario svolgere qualche considerazione che metta in evidenza i presupposti e la
relativa ricostruzione della vicenda parlamentare che hanno portato all’approvazione
della legge costituzionale n. 3/2001 (modifica del Titolo V della parte seconda della
Costituzione).
La transizione costituzionale non è un processo che avviene in modo improvviso e
immediato, ma è un processo composto da una serie di momenti “puntuali”
1
che quali
scaturiscono da eventi economici, sociali e ideologici ed incidono sul sistema nel suo
complesso.
Anche nel caso della nostra Costituzione, la legge di riforma n. 3/2001 non può
essere considerata come una soluzione scaturita per caso, ma certamente è il frutto di un
complesso susseguirsi di interventi riformatori i quali hanno portato a maturazione un
processo iniziato da tempo.
Essa si collega idealmente ad altre due soluzioni di riforma: alla revisione
dell’autonomia statutaria e sulla forma di governo delle regioni ordinarie, apportata
dalla legge cost. n. 1/1999, ed alla successiva estensione alle regioni ad autonomia
speciale di una disciplina simile a quella dettata da quest’ultima (legge cost. n. 2/2001).
1
Così, S. GAMBINO, “Introduzione” al Convegno su: “Le transizioni costituzionali”, Rende,
08/10/2002.
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Tali riforme, presentano una intensità innovativa rivoluzionaria e un forte elemento
di discontinuità rispetto ai tempi pregressi; esse segnano, infatti, il deciso superamento
dell’idea che, nonostante il riconoscimento alle Regioni di una sfera di autonomia
costituzionalmente garantita, allo Stato dovesse pur sempre spettare, nei loro confronti,
una funzione di vigilanza.
La riforma operata con la l. cost. n. 3/2001, potrebbe inquadrarsi come una
“architrave”
2
costituzionale necessaria al fine di assicurare una certa “armonia” alla
serie innumerevole di interventi legislativi che, a partire dagli anni ‘90 hanno interessato
e interessano l’ordinamento delle autonomie locali e regionali italiane.
Gli interventi legislativi, a partire dalla l. n. 142/90, fino ad arrivare all’approvazione
del TUEL (Testo unico sull’ordinamento degli enti locali), adottato con d. lgs. del 18
agosto 2000 n. 267, mettevano in evidenza la volontà del legislatore di voler costruire
un principio che unificasse il sistema dei poteri locali, nella logica del cosiddetto
“federalismo amministrativo e fiscale”.
In tale scenario istituzionale, l’obbiettivo prioritario era quello di realizzare
l’attribuzione di un elevato livello di autonomia statutaria e finanziaria in capo agli enti
territoriali, da realizzarsi attraverso la valorizzazione, in senso democratico, delle
procedure di partecipazione popolare all’amministrazione locale e nell’ottica di un
modello strutturalmente differenziato rispetto allo Stato accentrato dei periodi passati.
Ciò che si voleva rendere esplicito e pienamente operante attraverso il processo di
riforma costituzionale in questione, era quanto già introdotto nell’ordinamento dalle
leggi ordinarie e soprattutto dalla l. n. 59 del 1997 (c.d. legge Bassanini). Si voleva,
cioè, con tale processo di revisione realizzare la piena “costituzionalizzazione”
3
del
“principio di sussidiarietà”, il quale fino ad ora era stato previsto in modo esplicito solo
da leggi ordinarie.
Sulla base di questo principio l’obbiettivo fondamentale è quello di spostare le
competenze e i poteri dallo Stato centrale, all’ente quanto più vicino alla comunità
2
Così, S. GAMBINO, “L’organizzazione politica e amministrativa dell’ente locale prima e dopo la
revisione costituzionale del Tit. V Cost. (l. cost. n. 3/2001), in Relazione al convegno “Retos de derecho
constitucional del siglo XXI: entitates locales estato nacional Y union europea”, Machado de Baeza,
27/28 giugno 2002.
3
Così, ancora, S. GAMBINO, L’organizzazione politica e…, in Relazione al convegno Retos de
derecho…cit.
10
locale, nella prospettiva di valorizzazione del Comune come ente autonomo
nell’erogazione dei servizi pubblici.
A tal fine, il legislatore di revisione costituzionale, doveva muoversi, in un quadro
teorico nel quale assumeva come definitivamente superato il modello del centralismo
statale a favore del decentramento verso le singole autonomie sulla scia delle recenti
esperienze europee di regionalismo/federalismo.
La riforma costituzionale si rendeva necessaria, inoltre, al fine di dare alla potestà
statutaria degli enti locali una fonte di legittimazione che non provenisse da una legge
generale della Repubblica ma direttamente dalla stessa Costituzione.
Infine, tra i motivi che hanno condotto al processo di revisione della Costituzione,
non si può fare a meno di annoverare la necessità di dare una esplicita base
costituzionale all’esercizio della potestà legislativa, la quale doveva essere esercitata
dallo Stato e dalle Regioni non solo nel rispetto della Costituzione, ma anche nel
rispetto dell’ordinamento comunitario, che derivano dall’appartenenza del nostro Paese
all’Unione europea e dagli obblighi internazionali.
1.2. Le vicende parlamentari relative al processo di approvazione
Per comprendere a pieno i contenuti e le caratteristiche dei lavori parlamentari,
occorre prendere in considerazione l’intera attività politica svolta dalle Camere durante
la XIII legislatura (maggio 1996 – maggio 2001), attività caratterizzata da un intenso
processo di riforma su tutti i fronti. Tale processo riformista, potrebbe essere suddiviso
in tre fondamentali periodi di riferimento:
Un primo periodo (1996 – maggio 1998) caratterizzato sia dal tentativo di effettuare
una “grande riforma”
4
costituzionale avviato con la commissione bicamerale, sia dalla
volontà di avviare il cosiddetto “federalismo amministrativo” con la parallela
approvazione della legge 15 marzo 1997 n. 59;
4
Così, G. RIZZONI, “La riforma del sistema delle autonomie nella XIII legislatura”, in T. GROPPI e M.
OLIVETTI (a cura di), “La Repubblica delle autonomie, Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V”,
Torino, 2001, p. 24.
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Un secondo periodo, che si delinea lungo tutto il 1999 che riguarda un stagione di
riforme legislative sull’autonomia degli enti locali e sul procedimento amministrativo (l.
n. 50/99, 133/99 e da una serie di regolamenti e decreti attuativi);
Un terzo periodo, quella che si definisce in tutto l’anno 2000 e negli ultimi mesi della
legislatura nel 2001, nel corso del quale si svolge in modo concreto la formazione del
testo successivamente divenuto la legge cost. n. 3/2001.
Il primo periodo in questione, come già ricordato, ha come obbiettivo fondamentale
quello di realizzare una revisione della Costituzione vigente; esso inizia con l’istituzione
di una commissione ad hoc, la quale aveva il compito di redigere uno o più disegni di
legge di revisione della parte seconda della Costituzione del 1948, da sottoporre
successivamente alla deliberazione delle assemblee dei due rami del parlamento
(Camera e Senato). Tale commissione, denominata bicamerale, era composta da 35
deputati e da 35 senatori provenienti dalle forze politiche sia della maggioranza di allora
che dell’opposizione. Della commissione, entravano a far parte i segretari politici di
tutti i partiti.
I lavori parlamentari della bicamerale venivano così avviati. Il clima instaurato
durante i lavori, sembrava ripercorrere l’esperienza dell’Assemblea costituente di inizio
Repubblica, proprio perché la riforma si prefiggeva di a risolvere tutti i problemi che
avevano inutilmente tenuto impegnati i precedenti tentativi di riforma istituzionale:
come il rafforzamento del governo; il nuovo rapporto tra Stato ed enti locali; la
revisione delle competenze della Corte Costituzionale.
Dopo un’intensa attività istruttoria, la commissione bicamerale, approvava nel
novembre 1997 un testo di revisione complessiva della seconda parte della
Costituzione. Tuttavia, nel maggio del 1998, il processo della bicamerale, si arrestava
di colpo, poiché venivano meno le condizioni politiche necessarie alla continuazione
dell’esame. La stagione della bicamerale, comunque, non si chiudeva senza aver
conseguito alcun risultato positivo, infatti, nel 1997 veniva approvata la l. n. 59/97. Con
questa legge di riforma, che potremmo definire rivoluzionaria rispetto ai processi
passati, si dava avvio ad un complesso sistema di trasferimenti di funzioni
amministrative dallo Stato centrale verso Regioni ed enti locali in tutti i settori,
cercando così di eliminare quel fenomeno di centralismo politico che da sempre aveva
caratterizzato l’esperienza repubblicana. Un altro fondamentale obiettivo della legge era
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quello di realizzare lo snellimento delle procedure burocratiche e amministrative, le
quali erano uno dei motivi di “stallo” del sistema politico - amministrativo locale.
Durante il governo D’Alema, l’esame delle proposta di revisione costituzionale
concernenti i rapporti tra Stato e autonomie venne ripreso; così, il 18 marzo 1999 si
realizzò un progetto di revisione del Titolo V della Costituzione recante il titolo di
“Ordinamento federale della Repubblica”
5
.
L’esame del progetto iniziava il proprio iter presso la Commissione Affari
Costituzionali della camera, dove venne abbinato a numerosi altri progetti di iniziativa
parlamentare al fine di realizzarne un testo unificato. Tale testo, veniva presentato il 27
ottobre del 1999 e presentava rilevanti novità sia rispetto al progetto della bicamerale
che a quello del Governo, e in particolare in ordine al riparto delle competenze
legislative tra Stato e Regioni.
La commissione, tuttavia, non ebbe il tempo di esaminare tutti i numerosi
emendamenti che vennero presentati insieme al testo unificato, per cui, in fase di
discussione in assemblea alla Camera, l’intervento di alcuni gruppi parlamentari, i quali
reclamavano l’esame di tutti gli emendamenti presentati dalle varie forze politiche,
determinavano di fatto l’arresto dei lavori della commissione.
Nel settembre del 2000, dopo le elezioni regionali, riprendeva presso l’Assemblea
della Camera l’esame del progetto di revisione costituzionale, stavolta esaminando
immediatamente gli emendamenti presentati.
Un aspetto interessante da sottolineare è che in questa nuova fase di discussione del
progetto, Regioni ed enti locali tentarono con successo di inserirsi nella discussione
facendo pervenire in Parlamento le proprie proposte di modifica del progetto in esame
attraverso loro emendamenti. Si trattò di un’azione politica importante e molto efficace
ma di cui venne fatta scarsa menzione negli atti parlamentari.
Tra gli emendamenti presentati, di particolare significato politico, era quello che
eliminava il titolo “Ordinamento federale della Repubblica” in capo al Titolo V, poiché
ravvisava delle forti incoerenze tra il contenuto delle singole disposizioni e il titolo di
questa seconda parte. Altre importanti modifiche, riguardavano: la riformulazione del
principio di sussidiarietà, il quale compariva in modo esplicito in Costituzione; la
5
Sul commento al testo della bicamerale del 1999, si veda, A. BARBERA, “Le Regioni nel testo della
bicamerale”, in A. BARBERA e L. CALIFANO (a cura di), “Saggi e materiali di diritto regionale”,
Rimini, 1997.