procedure e istituzioni politiche. Ma è dopo la seconda guerra
mondiale che furono formulate le teorie più compiute del
totalitarismo, quella di Hannah ARENDT (THE ORIGINS OF
TOTALITARIANISM, 1951), e quella di Carl J. FRIEDRICH e Zbigniew K.
BRZEZINSKI
(TOTALITARIAN DICTATORSHIP AND AUTOCRACY, 1956).
La seconda teoria classica, definisce il totalitarismo in base
ai tratti caratteristici che si possono riscontrare
nell'organizzazione dei regimi totalitari. Secondo questa impostazione
il regime totalitario risulta dall'unione dei sei caratteri seguenti:
1) una ideologia ufficiale, che riguarda tutti gli aspetti
dell'attività e dell'esistenza dell'uomo, che tutti i membri della
società devono abbracciare, e che critica in modo radicale lo stato
delle cose esistenti e guida la lotta per la sua trasformazione;
2) un partito unico di massa guidato tipicamente da un
dittatore, strutturato in modo gerarchico, con una posizione di
superiorità o di commistione con l'organizzazione burocratica dello
Stato, composto da una piccola percentuale della popolazione, di cui
una parte nutre una fede appassionata e incrollabile nell'ideologia ed
è disposta a qualsiasi attività per propagarla e per attuarla;
3) un sistema di terrorismo poliziesco, che appoggia e nello
stesso tempo controlla il partito, mette a frutto la scienza moderna e
specialmente la psicologia scientifica, ed è diretto in modo
caratteristico non solo contro i nemici plausibili del regime, ma
anche contro classi della popolazione scelte arbitrariamente;
4) un monopolio tendenzialmente assoluto, nelle mani del partito
e basato sulla tecnologia moderna, come la stampa, la radio, il
cinema;
5) un monopolio tendenzialmente assoluto, nelle mani del partito
e basato sulla tecnologia moderna, di tutti gli strumenti della lotta
armata;
6) un controllo e una direzione centrale di tutta l'economia
attraverso la coordinazione burocratica delle unità produttive prima
indipendenti.(4)
La tesi di novità è fondata sulla individuazione nei regimi
totalitari di due grandi ordini di fattori combinati: alto livello di
sviluppo tecnologico e legittimazione di massa. E' questo il punto di
vista di FRIEDRICH, per il quale il regime totalitario può essere
definito "una autocrazia basata sulla moderna tecnologia e sulla
legittimazione di massa "(5), o anche "un sistema di governo per la
realizzazione di obiettivi totalisti nel quadro delle moderne
condizioni tecniche politiche"(6). Anche Zbitgniew BRZEZINSKI si
interroga circa l'originalità e l'essenza del regime totalitario;
infatti nel suo IDEOLOGY AND POWER IN SOVIET POLITICS(1962), afferma:"
il nodo cruciale di ogni tentativo di definizione del totalitarismo è
l'imbarazzante passaggio relativo alla unicità di tale regime"(7).
Certo, come specie del genere "dittatura", il totalitarismo riproduce
e presenta numerosi caratteri comuni alla famiglia di appartenenza.
Ma, a differenza delle dittature passate e presenti, i regimi
totalitari "non mirano a congelare la società nello STATUS QUO; al
contrario, loro scopo è di istituzionalizzare una rivoluzione che
cresce in ampiezza, e spesso in intensità, mano a mano che il regime
stabilizza il proprio potere"(8).
Per BRZEZINSKI, dunque, l'essenza originale del totalitarismo è
il suo "zelo rivoluzionario istituzionalizzato"(9), il quale ha lo
scopo di "polverizzare tutte le unità sociali esistenti, con il
proposito di sostituite al pluralismo precedente una unanimità
omogenea modellata sulla falsariga della ideologia totalitaria"(10).
Esso lavora a "distruggere tutte le forme associative esistenti nella
società al fine di riedificare la società stessa, e di conseguenza
anche l'uomo, a misura delle proprie concezioni ideologiche"(11). Ha
perciò bisogno di radere al suolo tutti gli ostacoli, compresi quelli
naturali della famiglia, che si frappongono all'espansione del potere
politico: "se non facesse così, il totalitarismo non potrebbe mai
conseguire l'isolamento dell'individuo e dell'omogeneità monolitica di
massa che rappresentano il suo scopo"(12), in vista della creazione
dell'"uomo nuovo" e dell'"ordine nuovo".
Nelle ORIGINI DEL TOTALITARISMO (1951), la ARENDT, definisce il
totalitarismo come una forma politica radicalmente nuova ed
essenzialmente diversa dalle altre forme storicamente conosciute di
regime autoritario e di potere personale come il dispotismo, la
tirannide, la dittatura. Laddove ha conquistato il potere, il
totalitarismo ha infatti distrutto tutte le tradizioni sociali,
politiche, giuridiche del paese, creando istituzioni del tutto nuove.
Ha portato alle sue estreme conseguenze le caratteristiche della
società di massa, trasformando le classi sociali in masse di individui
intercambiabili; ha sostituito il sistema dei partiti con un movimento
di massa; non ha solo preteso la subordinazione politica delle persone
ma ha invaso la loro sfera privata; ha trasferito il centro del potere
dall'esercito alla polizia; ha perseguito una politica estera
apertamente diretta al dominio del mondo(13).
La ARENDT con questo scritto ha cercato di ricostruire da un
lato il processo di genesi del totalitarismo rivisitando la storia
europea recente e in particolare il periodo che va dagli anni '80 del
secolo scorso alla seconda guerra mondiale e costruendo uno schema
interpretativo incentrato sul declino dello stato nazionale,
l'emancipazione politica della borghesia nell'imperialismo,
l'antisemitismo e lo sviluppo dei movimenti pan-germanici e pan-slavi,
l'avvento della società di massa; dall'altro, analizza la dinamica dei
movimenti totalitari prima e dopo la conquista del potere e
costituisce un "tipo ideale" di regime totalitario, caratterizzato
dalla particolare combinazione di ideologia, terrore e organizzazione
del partito unico(14).
Il libro si articola in tre parti: la prima è dedicata
all'antisemitismo, la seconda all'imperialismo, la terza al
totalitarismo. Secondo la ARENDT già nell'antisemitismo e
nell'imperialismo sono contenuti in qualche modo i germi del
totalitarismo. L'emancipazione civile e politica degli ebrei viene
decisa nel 1791 dalla Francia scaturita dalla rivoluzione la quale si
pone all'avanguardia (nell'Inghilterra liberale la discriminazione a
danno degli ebrei dura molto più a lungo). Notevole appare la
differenza rispetto a un autore come TALMON per il quale le origini
della "democrazia totalitaria" sono da rintracciare nella tradizione
rousseauiano-giacobina: la parabola che porta al totalitarismo vien
fatta partire dalla Rivoluzione Francese.
Nella seconda parte del libro, la ARENDT si interroga sul
rapporto tra antisemitismo e imperialismo. Quest'ultimo si sviluppa
sulla base di un'ideologia fondamentalmente razzista che proclama la
superiorità dell'europeo ovvero dell'uomo bianco. A tale proposi o
emergono i meriti della Rivoluzione Francese. E' la stessa ARENDT a
citare una dichiarazione di Robespierre:" Vadano pure in malora le
colonie se esse dovessero comportare la rovina della libertà in
Francia". Tra le rivoluzioni che hanno contrassegnato la nascita del
mondo moderno e contemporaneo, la Rivoluzione Francese è l'unica che
ha messo in discussione il dominio coloniale. E, ancora una volta,
emergono le differenze dell'analisi della ARENDT rispetto a quelle di
TALMON, il quale ultimo non si stanca di mettere in stato d'accusa
Robespierre come padre della "democrazia totalitaria", mentre la
ARENDT finisce oggettivamente con l'attribuire al dirigente giacobino
il merito di aver messo in discussione quel colonialismo-imperialismo
dal quale bisogna partire per comprendere la genesi del
totalitarismo(15).
La terza parte inizia con una riflessione sulla società di
massa, "senza classi", quasi a sottolineare il ruolo determinante di
questo fattore nel favorire il radicamento dei movimenti totalitari,
si sviluppa poi l'analisi di tali movimenti sia nella fase precedente
la conquista del potere sia nella fase in cui essi sono al potere e
conclude con il capitolo dedicato al binomio ideologia-terrore, che
costituisce la caratteristica più distintiva del totalitarismo(16).
Per la ARENDT sono totalitarie soltanto la Germania hitleriana
(e dal 1938 in poi) e la Russia staliniana (dal 1930 in poi); per
FRIEDRICH e BRZEZINSKI sono totalitari, oltre al regime nazista e
quello sovietico, quello fascista italiano, quello comunista cinese e
i regimi comunisti dell'est europeo(17).
Un panorama della letteratura consente di porre in evidenza che
tra i regimi (reali o ideali) classificati come totalitari sono
annoverati non solo l'Unione Sovietica, la Germania nazional-
socialista e l'Italia fascista, ma anche le esperienze a questi in
misura più o meno ampia riferibili(18), e la Russia zarista nella fase
cesaro-papista, l'India tradizionale nel periodo della dinastia
Maurya, l'impero romano durante il regno di Diocleziano, la Repubblica
di Platone, la Cina non solo nella sua attuale veste comunista ma
anche nel periodo della dinastia Ch'in, talune versioni della
Respublica Christiana medievale, l'antica polis spartana, taluni
regimi cosìddetti di sviluppo, il Leviatano di Hobbes, il Giappone
sotto il governo Meiji, Ginevra all'epoca di Calvino.
Se le teorie razziali fossero un'invenzione tedesca, come si è
talvolta affermato nel fervore della lotta contro il nazismo,
il"pensiero tedesco" (qualunque cosa con ciò si possa intendere)
avrebbe dominato larghi settori dell'attività intellettuale già molto
prima che i nazisti iniziassero il loro tragico tentativo di
conquistare il mondo (19).
Così, la ARENDT polemizza contro la tesi secondo cui le teorie
razziali rinvierebbero originariamente ed esclusivamente alla
tradizione culturale tedesca, sicché paesi come la Francia,
l'Inghilterra e gli USA tendono ad essere considerati come del tutti
immuni dal virus antisemita e razzista. La ARENDT rifiuta tale
impostazione, facendo notare come i germi del razzismo si trovano
nella Francia del XVIII secolo. Essa , a tal proposito, ricorda il
conte BOULAINVILLIERS, che interpretò la storia francese come la
storia di due nazioni diverse, di cui l'una, di origine germanica, che
aveva soggiogato i vecchi abitanti, "i galli", prendendone la terra,
imponendo le sue leggi, assumendo la posizione di classe dominante, di
aristocrazia, fondata sul "diritto di conquista" e sulla "necessità
dell'obbedienza sempre dovuta al più forte"(20). Egli inventava
l'esistenza di due popoli diversi in Francia per fronteggiare la nuova
idea della nazione, rappresentata ai suoi occhi dall'alleanza della
monarchia col terzo stato.
BOULAINVILLIERS era antinazionale in un momento in cui l'idea di
nazione era considerata nuova e rivoluzionaria, ma non aveva ancora
mostrato quanto strettamente fosse legata a una forma democratica di
governo. Egli preparava il suo paese alla guerra civile senza neppure
lontanamente sospettarlo. Le sue teorie rispecchiavano le opinioni di
gran parte dell'aristocrazia, che si considerava, non un elemento
rappresentativo della nazione, ma una casta dominante nettamente
separata dal popolo e molto più affine agli stranieri della "stessa
società e condizione" che ai compatrioti. Queste tendenze
antinazionali trovarono un'eco favorevole nell'ambiente dei
fuoriusciti, e di lì passarono poi nelle dottrine razziste del XIX
secolo.
Fu soltanto quando lo scoppio della rivoluzione costrinse una
folta schiera di nobili francesi a cercare rifugio in Germania e in
Inghilterra che le idee di BOULAINVILLIERS rivelarono la loro utilità
come arma politica. I fuoriusciti francesi tentarono effettivamente di
formare un'internazionale dell'aristocrazia per stroncare le rivolte
di quelli che essi giudicavano popoli stranieri ridotti in schiavitù.
E benché questi tentativi subissero lo spettacolare disastro di Valmy,
certi fuoriusciti non ammisero la sconfitta.
Probabilmente non si resero mai conto di essere dei traditori
dal punto di vista nazionale, tanto erano fermamente convinti che la
rivoluzione francese fosse una "guerra fra popoli stranieri". La Valmy
delle ideologie aristocratiche venne quando l'abate SIEYES nel suo
famoso opuscolo propose al terzo stato di "rimandare nelle foreste
della Franconia tutte le famiglie che conservano l'assurda pretesa di
discendere dalla razza conquistatrice e di averne ereditato i
diritti"(21).
Fin da quando la nobiltà nella sua lotta di classe contro la
borghesia asserì di appartenere a una razza diversa da quella del
popolo, i razzisti francesi predicassero la superiorità del
"germanesimo" o perlomeno dei popoli nordici. Se i protagonisti della
rivoluzione si identificarono mentalmente con la tradizione romana,
non fu per contrapporre al "germanesimo" dell'aristocrazia la
"latinità" del terzo stato, ma perché si sentivano gli eredi
spirituali della Roma repubblicana.
Un altro autore citato dalla ARENDT è il conte Arthur DE
GOBINEAU. Nel suo ESSAY SUR L'INEGALITE' DES RACES HUMAINES (SAGGIO
SULLA DISUGUAGLIANZA DELLE RAZZE), apparso nel 1853, il conte trasse
dal declino della nobiltà due conclusioni: la decadenza della razza
umana e la formazione di una nuova aristocrazia naturale.
GOBINEAU si occupò del problema della "decadence" trent'anni
prima di NIETZSCHE(22). La differenza è che NIETZSCHE conosceva per
esperienza diretta la decadenza europea, mentre GOBINEAU non aveva la
minima idea della varietà del moderno taedium vitae e deve essere
considerato l'ultimo erede di BOULAINVILLIERS e dei nobili francesi
fuoriusciti che, senza complicazioni psicologiche, temevano per la
sorte dell'aristocrazia come casta.
L'aspetto più sorprendente della teoria, formulata nel cuore
dell'ottimistico XIX secolo, è il fatto che l'autore sia affascinato
dallo sfacelo e poco interessato dal fiorire delle civiltà. Nel
momento in cui scriveva l'ESSAI, GOBINEAU non pensava al possibile uso
della sua teoria come arma politica, e perciò ebbe il coraggio di
delineare le sinistre conseguenze inerenti alla sua legge della
decadenza. A differenza di SPENGLER, che predisse soltanto il tramonto
della civiltà occidentale, GOBINEAU previde con precisione
"scientifica" nientemeno che la scomparsa dell'uomo dalla faccia della
terra. Per quanto riguarda la formazione di una nuova aristocrazia
naturale, GOBINEAU, seguendo i precursori, cioè gli aristocratici
francesi in esilio, vide nella razza-elite un baluardo non solo contro
la democrazia, ma anche contro la "mostruosità cananea" del
patriottismo (23). E poiché la Francia era pur sempre la patrie par
excellence, basata sull'uguaglianza politica, e, peggio ancora,
l'unico paese dove persino i negri potevano godere i diritti civili,
era naturale che egli volgesse lo sguardo non verso il popolo
francese, ma verso gli inglesi e più tardi, dopo la sconfitta della
Francia nel 1871, verso i tedeschi (24).
Fino al momento in cui i nazisti, presentandosi come razza-
elite, manifestarono apertamente il loro disprezzo per tutti i popoli,
compreso quello tedesco, il razzismo francese fu il più coerente
indulse mai alla debolezza del patriottismo. Persino TAINE credeva
fermamente nel genio superiore della "nazione germanica"(25), ed
Ernest RENAN fu probabilmente il primo a contrapporre i "semiti" agli
"ariani" in una decisiva "division du genre humain", pur concependo la
civiltà come la grande forza superiore capace di cancellare le
particolarità locali e le differenze di razza(26).
Il libro incontra subito notevole fortuna nel Sud degli USA,
dove è presente la schiavitù dei negri e si vanno accumulando le
contraddizioni che di lì a qualche anno (1861) avrebbero portato alla
Guerra di Secessione. E' TOCQUEVILLE ad osservare che il successo
dell'ESSAI SUR L'INEGALITE' DES RACES HUMAINES in America si spiega
con gli interessi che hanno i proprietari di schiavi a diffondere la
teoria della disuguaglianza(27).
La ARENDT si rifiuta di contrapporre in bianco e nero la storia
culturale e politica della Germania da una parte e quella
dell'Inghilterra e degli USA dall'altra: questa è la visione propria
di autori come HAYEK e TALMON per i quali la tradizione anglosassone è
la terra promessa della libertà, mentre la tradizione tedesca è la
terra dannata del totalitarismo.
Ad essere presa in considerazione sono i diritti dell'uomo;
usualmente per cogliere sul piano storico l'origine dei diritti
dell'uomo, si risale alla DECLARATION DES DROITS DE L'HOMME ET DU
CITOYEN, votata dall'Assemblea nazionale francese nel 1789, nella
quale si proclamava la libertà e l'uguaglianza nei diritti di tutti
gli uomini, si rivendicavano i loro diritti naturali e
imprescrittibili (la libertà, la proprietà, la sicurezza, la
resistenza all'oppressione),in vista dei quali si costituiva ogni
associazione politica legittima. In realtà la DECLARATION aveva due
grandi precedenti: i BILLS OF RIGHTS di molte colonie americane,
ribellatesi nel 1776 al dominio dell'Inghilterra, e il BILL OF RIGHTS
inglese, che consacrava la Gloriosa Rivoluzione del 1689(28).
Le Origini del Totalitarismo non contengono alcuna
contrapposizione tra la rivoluzione francese e rivoluzione americana:
le due dichiarazioni dei diritti vengono accostate e analizzate
congiuntamente. Entrambe, con linguaggio appena diverso, "parlano di
diritti inalienabili", "dati con la nascita" e di "verità evidenti",
implicano la fede in una "natura" umana che sarebbe soggetta alle
leggi di sviluppo regolanti quella dell'individuo e da cui diritti e
leggi potrebbero esser desunti(29).
La dichiarazione dei diritti dell'uomo alla fine del XVIII
secolo segnò una svolta nella storia. Essa significa che d'allora in
poi l'uomo, e non il precetto divino o gli usi consacrati dalla
tradizione, sarebbe stato la fonte del diritto. Incurante dei
privilegi assicurati dalla storia a certi strati della società e a
certe nazioni, documentava l'emancipazione del genere umano da
qualsiasi tutela, la sua condizione di maggiorenne(30). La rivoluzione
americana e quella francese sono viste kantianamente, e sempre
congiuntamente, come la fuoriuscita dell'umanità dallo stato di
minorità.
Anche la critica che vien fatta della Dichiarazione dei diritti
investe entrambi le rivoluzioni: data la divisione in Stati nazionali,
i diritti dell'uomo hanno finito con l'essere riconosciuti solo ai
membri di una comunità nazionale; i diritti del cittadino hanno finito
cioè col riassorbire e annullare i diritti dell'uomo. E anzi non sono
le due rivoluzioni a essere messe in stato di accusa, ma il "pensiero
politico del XIX secolo" e i "partiti liberali e radicali del XX
secolo" che hanno trattato i diritti dell'uomo "come una specie di
cenerentola". Il processo di degenerazione vede il prevalere sul
citoyen del bourgeois esclusivamente immerso nella sua sfera privata e
poi vede il bourgeois smarrire la dimensione dell'universalmente umano
per sentirsi in rapporto soltanto con una comunità fisicamente ed
etnicamente limitata:"la concezione dei diritti umani è naufragata nel
momento in cui sono comparsi individui che avevano tutte le altre
qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana. Il mondo
non ha trovato nulla di sacro nell'astratta nudità dell'essere
uomo"(31).
Prendendo in esame la critica che MARX rivolge alla società del
suo tempo, ad essere in discussione è il rapporto libertà-uguaglianza.
Al di là di un certo limite, la disuguaglianza nelle condizioni
economiche-sociali finisce col vanificare la libertà pur solennemente
garantita e consacrata a livello giuridico-formale. Alle spalle di
MARX agisce la lezione di HEGEL, e già a quest'ultimo si deve una
configurazione chiara e persuasiva del problema: colui che soffre una
fame disperata, sino addirittura a rischiare la morte per inedia, è in
una condizione di "totale mancanza di diritti", cioè in una condizione
che, in ultima analisi, non differisce sostanzialmente da quella dello
schiavo(32).
La consapevolezza di tale fatto sembra emergere nella stessa
tradizione liberale, ma emerge come confessione involontaria.
Partendo da SIEYES che teorizza la distinzione tra cittadini
attivi e cittadini passivi - i quali ultimi hanno soltanto diritti
naturali, il diritto alla protezione della loro persona, alla libertà
e alla proprietà. Essi non hanno alcuna parte nella formazione dei
poteri pubblici. Ciò è riservato soltanto ai cittadini attivi. Essi
soli contribuiscono alla costituzione e al mantenimento del bene
pubblico(33) - considera come un fatto pacifico che la "moltitudine
senza istruzione" sia obbligata ad un lavoro "forzato" e sia dunque
"priva di libertà"; propone di introdurre formalmente in Francia il
lavoro servile o semiservile, cui dovrebbero essere sottoposti i
cittadini passivi ovvero le "macchine di lavoro": le due categorie
coesistono talvolta tranquillamente(34). E, oltre che come machines de
travail, il portavoce del terzo stato e della borghesia liberale
francese parla della "maggior parte degli uomini" come "strumenti
umani della produzione" o come "strumenti bipedi"(35).
Se dalla Francia passiamo all'Inghilterra, vediamo che anche
BURKE, il whig inglese ancora oggi assai caro ad autori liberali come
HAYEK e DAHRENDORF, sussume il bracciante o il lavoratore salariato
sotto la categoria di instrumentum vocale utilizzata nell'antichità
classica per designare e classificare lo schiavo(36). Anche LOCKE è
dell'opinione che "la maggior parte dell'umanità" non può non essere
sottoposta a condizioni di vita e di lavoro dalle quali è enslaved, è
cioè ridotta ad una condizione simile alla schiavitù(37); a sua volta
MANDEVILLE, un altro della tradizione liberale, definisce la "la parte
più meschina e povera della nazione"(the working slaving people),
destinato per sempre a svolgere un "lavoro sporco e simile a quello
dello schiavo"(dirty slavish Work), un lavoro rispetto al quale
l'istruzione può essere considerata solo un elemento di disturbo(38).
Come si vede, vanno di pari passo la discriminazione censitaria
e una divisione del lavoro che si spinge fino alla giustificazione del
lavoro servile o semiservile.
Che senso avrebbe concedere i diritti politici a coloro che,
"per il naturale e inalterabile stato di cose in questo mondo", sono
destinati-è LOCKE ad esprimersi in questi termini-a rimanere al
livello di un "cavallo da soma portato avanti ed indietro dal mercato
per un ristretto sentiero ed una strada sporca" e che sono separati
dagli uomini delle classi superiori da "una distanza maggiore che tra
alcuni uomini e alcune bestie"(39)? Analogo è l'atteggiamento di BURKE
che parla della maggior parte degli uomini, quella che deriva i suoi
mezzi di sussistenza dal duro lavoro quotidiano, come della
"moltitudine suina"(swinish multitude)(40), o quello di SIEYES che
nega si possano "trovare degli uomini", almeno nel senso pieno della
parola, tra la "folla immensa di strumenti bipedi(instruments
bipédes), priva di libertà, priva di moralità, priva di vita
intellettuale (intellectualité)(41).
Il rapporto tra discriminazione censitaria e processo di
razzizazione degli esclusi si può sorprendere in una metafora cui la
tradizione liberale ricorre per definire e giustificare l'esclusione
dalla cittadinanza dei lavoratori salariati, i quali, costretti a
lavorare giorno e notte, rimangono in una situazione di "eterna
dipendenza" e dunque sono simili a "fanciulli" dotati di una singolare
caratteristica: l'impossibilità di divenire, prima o poi,
maggiorenni(42). D'altro canto, secondo LOCKE, il servo salariato
entra a far parte della "famiglia del suo padrone" ed è assoggettato
"alla normale disciplina di essa"(43). MILL, invece, teorizza il
dispotismo nei confronti dei "barbari" o dei membri delle "società
arretrate", e precisa che in questo caso "la razza stessa può essere
considerata minorenne"(44). D'altro canto, SIEYES, che divide la
società in "due popoli" nettamente distinti e contrapposti, definisce
quello destinato a fornire gli "strumenti umani"- o meglio "bipedi"-
della produzione anche come la "moltitudine sempre bambina"(45).
Se si vuole trovare una critica dei processi di razzizazione,
non è certo alla tradizione liberale classica che si può far
riferimento. E' in un frammento di ROUSSEAU che gli schiavi in lotta
contro il loro "padrone" rimproverano a quest'ultimo di considerarli e
trattarli alla stregua di semplici "macchine", "strumenti di lavoro" o
"utensili"(46): da questo testo scaturisce un'oggettiva messa in stato
d'accusa della tradizione liberale che, per definire il lavoro
salariato, continua a servirsi delle categorie già utilizzate
dall'antichità classica in riferimento allo schiavo cui negava la
piena dignità umana. Se LOCKE paragona il lavoratore salariato ad un
"cavallo da soma" e BURKE tuona contro la "moltitudine suina",
ROUSSEAU rimprovera alle classi superiori la tendenza ad assimilare al
"bue" o ad un animale domestico gli "infelici oppressi da un lavoro
incessante"(47). Infine, la metafora(cara a CONSTANT e implicitamente
presente già in SIEYES) che assimila i lavoratori salariati a
stranieri ovvero a membri di un popolo diverso e inferiore a quello
costituito dalle classi dominanti, tale metafora viene criticata
anticipatamente dal filosofo ginevrino, allorché sottolinea che in uno
Stato ben ordinato nessuno deve potersi sentire "straniero"(48).
Discepolo di ROUSSEAU si considera ROBESPIERRE per il quale, a
differenza della monarchia assoluta e dell'aristocrazia, dove uno solo
o soli pochi individui possono dire di avere una "patria", mentre
tutti gli altri sono apolidi, il "regime democratico" è quello in cui
"lo STATO è veramente la patria di tutti gli individui", tutti
ammessi, su un piano di uguaglianza, "alla pienezza dei diritti del
cittadino"(49).
Ma, la democrazia moderna non può essere compresa senza le idee
e le lotte della tradizione democratico-socialista, la quale ultima ha
un merito ancora più alto, quello di aver contribuito in modo decisivo
all'elaborazione del concetto universale di uomo, estranio, sino a
quel momento, alla tradizione liberale. E' da notare che è proprio
tale nominalismo antropologico(la negazione del concetto universale di
uomo) a costituire la fondazione teorica della negazione dei diritti
politici ai non-proprietari. E' una visione che ai giorni nostri
continua in qualche modo ad agire in un autore come HAYEK, il quale
dichiara esplicitamente che una società libera potrebbe benissimo
rifiutarsi di concedere il suffragio alle masse: il diritto di voto
viene negato anche alle "persone troppo giovani"(50).
Può essere interessante esaminare la rilettura della storia
contemporanea di un autore come HAYEK, che fa coincidere il primo
manifestarsi della crisi del liberalismo col primo affacciarsi della
democrazia moderna. E' a partire dal 1848 che la "democrazia sociale o
totalitaria" inizia la sua lotta funesta contro la "democrazia
liberale" che il patriarca del neoliberismo intende, invece,
ripristinare nella sua purezza e autenticità(51).
Se il 1848 segna l'affermarsi del suffragio universale maschile
in Francia in cui, dopo il crollo della dittatura bonapartista e la
fiammata della Comune di Parigi, falliti i tentativi sia di
restaurazione borbonica sia di de-emancipazione mediante il ritorno
alla discriminazione censitaria aperta o all'introduzione del voto
plurale, la Terza Repubblica comincia a funzionare come democrazia
parlamentare fondata sul suffragio universale(maschile).
Questi dati non disturbano HAYEK, il quale non nasconde in
alcun modo il sovrano atteggiamento d'indifferenza o superiorità nei
confronti di quella che comunemente viene chiamata "libertà politica",
e cioè della "partecipazione popolare allla scelta del proprio
governo, al procedimento e al controllo sull'amministrazione(...). Un
popolo che sia libero in questo senso non è, necessariamente, un
popolo di uomini liberi; né è indispensabile godere di questa libertà
collettiva per essere libero come individuo"(52). E cioè, la libertà
presa nel suo significato più autentico, anzi, nell'unico accettabile
per il patriarca del neoliberismo(l'autonomia e l'inviolabilità della
sfera individuale), non ha necessariamente bisogno della democrazia e
del riconoscimento per tutti dei diritti politici. Ecco perché HAYEK
non ha difficoltà a procedere ad una datazione che fa coincidere
l'inizio della crisi della "dottrina liberale" con l'avvento del
suffragio di massa. L'estensione dei diritti politici non ha nulla a
che fare con la libertà:"Non si può certo affermare che(...) i
residenti stranieri negli Stati Uniti, o le persone troppo giovani per
avere il diritto al voto non usufruiscano della più ampia libertà
anche non partecipando alla libertà politica"(53).
Significativamente, gli esempi qui adotti(stranieri e
minorenni) sono i medesimi a cui ricorre CONSTANT per giustificare
l'esclusione dei non proprietari dai diritti politici:"Nessun popolo
ha considerato come membri dello Stato tutti gli individui che
risiedono come che sia sul suo territorio"; anche la "democrazia più
assoluta" esclude dai diritti politici "gli stranieri e coloro che non
hanno raggiunto l'età prescritta dalla legge". Infine - sottolinea
LABOULAYE in una nota -"ai fanciulli bisogna aggiungere le donne, cioè
la metà della nazione. Il suffragio universale è dunque esercitato
soltanto da una minoranza di cittadini. Ciò prova all'evidenza che
esso è una funzione politica e non un diritto naturale"(54).