1
INTRODUZIONE
Quando sentiamo nominare l’Oriente, ci viene spontaneo pensare a quelle
Wunderkammern del mondo esotico che sono l’Egitto, l’India, i paesi arabi. Sin dai suoi
primi contatti con l’Europa, esso ha assunto le sembianze di uno specchio in cui
riflettere «desideri, rimozioni, investimenti e proiezioni
1
» dell’Occidente: luogo di
avventura, di passioni sfrenate, di pericoli ed insidie, di inesauribili ricchezze.
Edward Said ha descritto l’Oriente come l’Altro verso il quale europei (prima) ed
americani (dopo) si sono interfacciati in modi differenti, ma sempre contando su una
«flessibile superiorità di posizione
2
». Si può dire che l’Occidente abbia creato l’Oriente,
che l’abbia trasformato in un’idea, e che queste idee si siano moltiplicate dando vita ad
una famiglia di idee
3
, che hanno condizionato e gerarchizzato ogni successiva relazione
tra i due. L’Orientalismo è una forma di conoscenza asimmetrica, basata su un rapporto
impari tra soggetto e oggetto del sapere.
Partendo dall’orientalismo, mi sono chiesta se questo concetto, così come impostato da
Said, potesse applicarsi al contesto italiano. Mi sono chiesta, insomma, se anche la
nostra nazione abbia giustificato le sue differenze con l’Altro attraverso una serie di
«meccanismi di enunciazione
4
» e raffigurazione, e che ruolo abbiano assunto gli artisti
del tempo nel processo costitutivo di Identità e Alterità. Nel primo capitolo mi sono
soffermata su Orientalismo (1978), esito ultimo della maturazione intellettuale di un
outsider che si muove attraversando molteplici realtà: Edward Said, «inglese, americano
e arabo […] rifugiato e aristocratico, sovversivo e conservatore, letterato e
propagandista, europeo e mediterraneo
5
». Orientalismo è la denuncia di una tradizione
eurocentrica che, attraversando discipline e periodi differenti, ha dato origine ad
un’insanabile differenza tra Occidente ed Oriente e ne ha fatto il punto di forza per una
strategia di colonizzazione e dominio. La circoscrizione dei discorsi orientalistici alle
1
E. W. SAID, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente. Trad. it. Milano: Feltrinelli editore, 2016,
p. 17.
2
Ibidem.
3
Idem, p. 48.
4
J.C.G. MARTÍN, Il luogo del sapere e i saperi dei luoghi. Considerazioni per la produzione di vita
sostenibile ai tempi della globalizzazione neoliberista. In: AA.VV., Capitale, Natura e Lavoro.
L’esperienza di “Nuestra America”, a cura di Luciano Vasapollo, Trad. it. Milano: Editoriale Jaka Book
Spa, 2008, p. 124.
5
AA.VV., Edward Said. Il mio diritto al ritorno. Intervista con Ari Shavit. Trad. it. Roma: Nottetempo,
2007, p. 10.
2
realtà francesi, inglesi e americane ha fatto sì che proprio in questi paesi il testo fosse
maggiormente recepito e diventasse lo stimolo per il sorgere, a partire dagli anni ’60, di
un dibattito post-coloniale. Alcuni critici ne hanno fatto il punto di partenza per una
progressiva decentralizzazione dell’Europa e per una messa in discussione del suo
secolare predominio sulle rappresentazioni dell’alterità. Il Subalternal Studies Group
l’ha eletto a modello per il recupero delle storie delle minoranze: sviscerando le
relazioni di potere nate con la dominazione coloniale e ancora persistenti nella
contemporaneità, studiosi come Ranajit Guha e Dipesh Chakrabarty hanno promosso
una rivincita delle periferie del mondo, auspicando la costruzione di una storia
universale, non più regolata sui canoni stabiliti dal centro (l’Europa) ma disposta ad
accogliere le storie locali
6
. Una parte della critica ha svelato la natura mortificante e
distruttiva del colonialismo, e da qui si è mossa per dare avvio ad una decolonizzazione
del sapere e della cultura, sulla scia di quanto affermato da Jean-Paul Sartre nella
prefazione a I dannati della terra di Frantz Fanon: «anche noi, gente d’Europa, ci si
decolonizza […] si estirpa, con un’operazione sanguinosa, il colono che è in noi
7
». Nel
secondo capitolo ho voluto approfondire le modalità in cui l’Occidente (e, in minor
misura, l’Oriente) hanno recepito il testo di Said, soffermandomi in particolare sugli
esiti degli studi post-coloniali e di quelli legati al concetto di subalternità.
Attraverso questa indagine è emerso in Italia uno scarto temporale tra gli inizi della
decolonizzazione e l’avvio di un’era post-coloniale. A partire dal dopoguerra, la nostra
nazione è stata colpita da una progressiva tendenza alla rimozione del fenomeno, che
solo alla fine del secolo scorso è tornato protagonista di un tentativo di decolonizzazione
del pensiero, in un dibattito teso ad analizzare gli errori passati e a scardinare alcuni dei
miti più persistenti del nostro colonialismo (tra questi, una posizione di rilievo è stata
occupata dall’idea di un colonialismo auto-assolutorio, esportatore di modernità,
benessere e progresso nei territori primitivi e bisognosi d’aiuto dell’Africa).
Nel terzo capitolo ho voluto affrontare le modalità in cui la coscienza degli italiani è
stata colonizzata, i paradigmi cioè attraverso i quali il potere ha orientato le percezioni
(anche contemporanee) dell’avventura coloniale e dell’alterità. Intellettuali ed artisti
hanno avuto un ruolo determinante nella formazione di un immaginario coloniale: le
6
MARTÍN, op. cit., p. 118 e p. 130.
7
F. FANON, I dannati della terra. Trad. it. Torino: Einaudi, 1962, p. 19. [La frase citata è tratta dalla
prefazione di Jean-Paul Sartre].
3
loro rappresentazioni hanno contribuito ad una standardizzazione dell’Altro entro una
serie di motivi che ricorrono nelle fonti narrative (letteratura, articoli di giornale, opere
storiografiche e geografiche, studi di linguistica) e visive (pittura, scultura, architettura,
grafica, illustrazioni) dell’epoca. Ho voluto in particolare soffermarmi sulle esposizioni
etnografiche e coloniali, che hanno illustrato la storia di intere culture attraverso
l’esposizione di oggetti iconici (fotografie, grafici, cimeli locali, illustrazioni e opere
d’arte) e la duplicazione del loro habitat naturale (piante ed animali esotici, villaggi
indigeni, architetture e decorazioni d’ispirazione locale). In questa messa in mostra
dell’Alterità un ruolo importante è stato svolto dagli artisti che, spinti per propria
iniziativa o incoraggiati dal regime, hanno visitato i territori oltre il Mediterraneo e
tradotto le loro impressioni sensoriali nelle forme mitiche del repertorio orientalista o in
quelle propagandistiche dell’arte coloniale. Giuseppe Biasi, Enrico Prampolini e Bot
hanno dato una corporeità e una contestualizzazione all’Alterità. Se Biasi ha proiettato
sulla sensualità esotica delle Veneri africane i desideri di possesso dell’uomo bianco
occidentale, Prampolini e Bot hanno guardato alla Natura incontaminata dell’Africa, il
primo come teatro del nuovo «primitivismo avvenieristico futurista
8
» ovvero come
terreno su cui estendere la “colonizzazione meccanica” fascista e futurista, il secondo
nell’ottica di una riscoperta dei valori della genuinità, della spiritualità e della fantasia.
Sin dalle sue origini, la civiltà occidentale si è confrontata con un primordiale bisogno
di alterità
9
. A partire dal Rinascimento ha cercato insistentemente il contatto con gli
“altri”, invadendo e occupando le loro terre, sfruttando le loro risorse, o semplicemente
osservando e prendendo nota della loro irriducibile diversità. I racconti, i miti, le opere
d’arte hanno reso più maneggevole l’Altro, hanno annullato la sua pericolosità,
riducendolo ad oggetto delle percezioni e degli interessi dell’Occidente. Solo
trasfigurando l’Alterità, l’Identità ha potuto salvaguardare se stessa.
Monsters cannot be announced. One cannot say: «here are our monsters», without
immediately turning the monsters into pets.
Jaques Derrida
10
8
E. CRISPOLTI, Perché i temi del futurismo? Futurismo. I grandi temi 1909-1944. Milano: Mazzotta,
1997, pp. 20-22.
9
F. AFFERGAN, Esotismo e alterità. Saggio sui fondamenti di una critica dell’antropologia. Trad. it.
Milano: Ugo Mursia editore, 1991, p. VII.
10
J.E. DERRIDA, Some Statements and Truisms about Neologisms, Newisms, Postisms, Parasitisms, and
other small Seismisms. In: The States of Theory: History, Art, and Critical Discourse. New York:
Columbia University Press, ed. David Carroll, 1989.
5
1. L’ORIENTALISMO: EDWARD SAID E L’IMMAGINE EUROPEA
DELL’ORIENTE
1.1 Dire la verità al potere. Il laicismo di Edward Said
A volte mi sembra di essere un ammasso
di correnti in flusso continuo. Preferisco
questa immagine all’idea di un Io solido,
di una identità fissa alla quale, pure, la
gente attribuisce tanta importanza.
Edward Said
1
Edward Wadie Sa’id, nato a Talbiyye (Gerusalemme) nel 1935, crebbe in una famiglia
benestante, che gli trasmise una forte passione per la cultura, la musica e la letteratura
occidentali. I suoi genitori erano entrambi di fede protestante. Suo padre, palestinese,
visse negli Stati Uniti e combatté per il generale John Pershing durante la Prima Guerra
Mondiale
2
. Sua madre, invece, originaria di Nazareth, è ricordata affettuosamente da
Said come l’ispiratrice di molti suoi «radicati punti di vista e atteggiamenti
3
».
Egli visse la sua infanzia tra il Cairo (città dove suo padre, facoltoso commerciante di
articoli d’ufficio, gestiva un rinomato negozio), la Palestina e il Libano.
Frequentò per un breve periodo la Anglican St. George’s Academy di Gerusalemme,
fino al trasferimento con la sua famiglia in Egitto. Nel 1947 lasciò definitivamente la
Palestina, a causa delle tensioni – dovute all’approvazione della Risoluzione 181
4
- che
sarebbero sfociate nella guerra arabo-israeliana del 1948-49: vi tornerà solo nel 1992 in
compagnia della sua famiglia, e ne lascerà testimonianza nel suo libro Tra guerra e
pace. Ritorno in Palestina-Israele
5
.
1
G. MANNOZZI, Ricordo di Edward Said [Online], 2004. Disponibile all’indirizzo:
http://www.equatore.org/index.php?option=com_content&view=article&id=25:bibliografia-
said&catid=21&Itemid=132 (Consultato in data 22/11/2017)
2
G. CALCHI NOVATI, Il sud del mondo. Tre continenti fra storia e attualità. Milano: Fondazione
Achille e Giulia Boroli, 2009, p. 124 n.
3
E. W. SAID, Sempre nel posto sbagliato. Autobiografia. Trad. it. Milano: Feltrinelli, 2009.
4
Il 29 novembre 1947 era stata approvata la Risoluzione 181, con cui l’Assemblea generale delle Nazioni
Unite raccomandava l’adozione del piano di partizione elaborato dall’UNSCOP (comitato appositamente
creato per determinare l’assetto dei territori ad ovest del Giordano una volta cessato il mandato
britannico). In S. BASSO, Dossier Medio Oriente. Storia e scenari delle guerre infinite. Milano: Editore
Periodici San Paolo, 2003, p. 18.
5
E. W. SAID, Tra guerra e pace. Ritorno in Palestina-Israele. Trad. it. Milano: Feltrinelli, 1998.
6
Al Cairo frequentò la Gps (Gezira Preparatory School), dove ebbe la sua prima
esperienza diretta col mondo coloniale inglese. Nella sua autobiografia, Sempre nel
posto sbagliato, rammenta che i libri di scuola «erano così tipicamente inglesi da
sfiorare l’assurdo», mentre gli studenti venivano «trattati tutti indistintamente come se
dovessimo (o volessimo) diventare dei veri inglesi
6
». Ciò rende ancor più stridente il
contrasto tra gli spazi dell’istituzione scolastica e l’esterno, dominato da un perenne
distacco tra i colonizzatori e la popolazione locale.
L’esperienza alla Gps porta in superficie un sentimento che si accentuerà durante il
corso della sua vita: quello di una perenne frattura tra due mondi, quello arabo-orientale
e quello angloamericano-occidentale. Il suo stesso nome, Edward Wadie Sa’id, ne
racchiude l’essenza.
Già nelle prime pagine della sua autobiografia emerge un senso di dislocazione, che lo
spinge a non sentirsi mai integralmente parte di un luogo, una cultura, una tradizione
specifici. «Hai sempre la sensazione» dichiara in un’intervista ad Ari Shavit «di non
appartenere. E di fatto non appartieni. Perché non sei veramente di qui e qualcun altro
dice che il luogo da cui provieni non è tuo, ma suo
7
».
I pellegrinaggi della sua famiglia contribuirono infatti a creare uno scollamento tra le
sue origini palestinesi e il suo io quotidiano, evoluto in una forma di perenne
dissociazione. «Per me» scrive Said «l’idea di patria era legata a loro e dunque era
qualcosa dalla quale io ero, nel significato più profondo, escluso
8
».
L’incapacità di sentirsi a casa rende Said consapevole delle sue affinità con il filosofo
tedesco Theodor Ludwig Wiesengrund-Adorno (1903-1969)
9
. Adorno si riferiva
all’esilio come ad una situazione permanente, radicata nella morale umana: per lui,
bisognerebbe pensare al mondo come se si fosse esclusi da esso
10
. Ne consegue una
condizione di perenne estraneità e provvisorietà: un sentirsi sempre nel posto sbagliato,
come recita il titolo del testamento autobiografico saidiano. Qui descrive la sua vita
come un insieme di partenze e ritorni all’insegna della precarietà, al punto che «anche
6
SAID, Sempre nel posto sbagliato, cit., pp. 53-54.
7
AA.VV., Edward Said. Il mio diritto al ritorno. Intervista con Ari Shavit. Trad. it. Roma: Nottetempo,
2007, p. 43.
8
SAID, Sempre nel posto sbagliato, cit., p. 57.
9
AA.VV., Edward Said, cit., pp. 47-48.
10
R. LUPERINI, L’intellettuale e l’esilio. In: Tramonto e resistenza della critica. Roma: Quodlibet,
2013, pp. 36-46.
7
quando parto per un breve viaggio, riempio sempre in eccesso la valigia nel caso in cui
non riesca più a tornare
11
».
Dopo la Gps e come figlio di un uomo d’affari con la cittadinanza americana, proseguì i
suoi studi alla Cairo School for American Children: un’esperienza che si riduce, nei
suoi ricordi, ad un passaggio da un’istituzione e un personale inglesi ai rispettivi
americani.
L’esistenza saidiana sembra risolversi nella ricerca costante di un’identità, ostacolata
volta per volta dagli inglesi, dagli americani, dagli arabi (come testimoniato, ad
esempio, dalla difficoltà di comunicare in arabo con i suoi coetanei durante le vacanze
estive in Libano
12
).
Prima di imbarcarsi per gli Stati Uniti, nel 1951, fu iscritto dalla sua famiglia al Victoria
College del Cairo. La permanenza in questa scuola gli permise un contatto più
ravvicinato con l’esperienza del colonialismo inglese: il Victoria College, ricorda Said,
era l’incarnazione di una strategia imperialistica finalizzata a schiacciare l’indigeno, il
colonizzato, trasformandolo in un manichino da addestrare ai valori britannici
13
,
attraverso l’imposizione della lingua inglese e di programmi scolastici dedicati
esclusivamente alla madrepatria.
Tutti noi ci sentivamo trattati come individui inferiori di fronte a una potenze coloniale
che, benché già agonizzante, aveva ancora il potere di schiacciarci, nel momento stesso in
cui ci obbligava a studiare la sua lingua e la sua cultura come se fossero la lingua e la
cultura dominanti
14
.
La vicenda personale di Said si snoda in uno scenario complesso e ricco di avvenimenti
storici di grande portata: dalla seconda guerra mondiale alle tensioni israelo-palestinesi
(la perdita della Palestina, la fondazione dello stato di Israele e la resistenza dei
movimenti di liberazione), dalla guerra civile libanese al cambio di governo egiziano
(con l’ascesa al potere di Nasser e la guerra del 1967). Di ognuno di questi momenti egli
è testimone nell’accezione che dà al termine Giorgio Agamben
15
, protagonista di un
11
AA.VV., Edward Said, cit., p. 43.
12
SAID, Sempre nel posto sbagliato, cit., p. 191.
13
Idem, pp. 199-201.
14
Ibidem.
15
«Nel libro che conclude la trilogia Homo sacer, dedicato al campo di concentramento come luogo
emblematico della biopolitica e del controllo sui corpi, Giorgio Agamben, attraverso le pagine di Primo
Levi, esprime la paradossale condizione del testimone. Posto che la possibilità di testimoniare è accordata
solo ai sopravvissuti, e che questi sono chiamati a testimoniare per coloro che non avrebbero potuto farlo,
o per chi, come il “musulmano”, ha subito una posizione di decentramento tale da sprofondare nella non-
8
“esilio dorato
16
” che lo spinge a differenziare sé stesso dai rifugiati palestinesi vittime
della Nakba (lett. la “catastrofe”, cioè la fuga, l’emigrazione e l’allontanamento forzato
a seguito della guerra del 1948-49): «Per me il termine rifugiato […] vuol dire cattiva
salute, miseria sociale, privazione e dislocazione. Questo non è il mio caso. […] Però
sento di non avere un luogo. Sono tagliato fuori dalle mie origini. Vivo in esilio. Sono
un esule
17
».
In L’umanesimo radicale di Edward W. Said, Marco Gatto approfondisce la posizione
di Said rispetto al dramma del popolo palestinese: il suo sarebbe un esilio segnato da un
profondo “senso di colpa”, derivante dal non aver potuto vivere in prima persona il
conflitto palestinese se non attraverso «il ricordo o il perenne sradicamento
18
». Said si
sente investito di una missione, quella di testimoniare al posto di chi non può o non è in
grado di farlo. Interprete della condizione di perenne spaesamento del popolo
palestinese, ne denuncia l’ «ingiustizia umiliante sentita nel profondo», sussistente nella
privazione di «risorse, diritti, proprietà della terra e libertà di movimento».
Un’ingiustizia che «va avanti. Ogni giorno. In ogni modo possibile
19
».
Ghada Karmi (1939-), medico palestinese, si concede una riflessione su Said (con il
quale intrattenne un’amicizia trentennale) a partire dalla ricezione delle sue opere presso
il pubblico palestinese. Tale riflessione, pubblicata in Edward Said: A Legacy of
Emancipation (a cura di A. Iskander e H. Rustom)
20
, ha anche il merito di trasporre le
parole saidiane entro un discorso più ampio, che coinvolge l’intero popolo palestinese.
soggettività, dunque nella non-esistenza, allora la testimonianza testimonia, per delega, «una
testimonianza mancante» (Agamben 1998: 32). Non si può negare la possibilità di testimoniare per gli
assenti: è questa, in altri termini, la missione intellettuale del testimone. Non sfugge che a testimoniare,
pertanto, sia colui il quale, esiliato nel campo di Auschwitz e sopravvissuto alla pratica mortale
dell’esilio, allo sradicamento orrido della deportazione, parla a nome di un tipo di esiliato differente, una
sorta di esiliato nell’esilio stesso, di deprivato della vita, la cui condizione è scongiurata da chi, già nelle
sue stesse condizioni di partenza, non ne sopporta la futura e possibile identificazione. Il deportato,
pertanto, testimonia l’esilio, testimonia per chi non può avere voce e, parlandone, ne appura l’esistenza.
La figura di intellettuale cui Said aspira è, in qualche misura, quella del testimone», in M. GATTO, I
dilemmi dell’esule e l’intuito della molteplicità. Le reti di Dedalus. Rivista online del sindacato nazionale
scrittori [Online], 2009, pp. 1-5. Disponibile all’indirizzo: http://www.retididedalus.it/ (Consultato in data
22/11/2017), pp. 3-4.
16
L. CURTI, Percorsi di subalternità: Gramsci, Said, Spivak. In: I. CHAMBERS, Esercizi di potere.
Gramsci, Said e il postcoloniale. Roma: Meltemi editore, 2006, p. 19.
17
AA.VV., Edward Said, cit., pp. 42-43.
18
M. GATTO, L’umanesimo radicale di Edward W. Said. Critica letteraria e responsabilità politica.
Milano-Udine: Mimesis Edizioni, 2012, p. 141.
19
AA.VV., Edward Said, cit., pp. 24-27.
20
G. KARMI, Said e la diaspora palestinese – Una riflessione di Ghada Karmi [Online], 2014.
Disponibile all’indirizzo: http://www.ism-italia.org/ (Consultato in data 22/11/2017)