Indice
PREFAZIONE……………………………………………………………………….......1
INTRODUZIONE………………………………………………………………………..2
La bioluminescenza nel Regno animale……………………………………………….…2
Emissione di luce dal punto di vista chimico e molecolare……………………………...4
Convergenza evolutiva…………………………………………………………………...7
CAPITOLO I……………………………………………………………………………..8
1.1 La bioluminescenza nel Regno animale……………………………………….……..8
1.2 Bioluminescenza: ciò che si sa di sbagliato…………………………………………17
1.3 Bioluminescenza: ruolo ecologico…………………………………………………..17
CAPITOLO II……………………………………………………………………………21
2.1 Fotofori………………………………………………………………………………21
2.2 Batteri luminosi: forme libere e forme simbiontiche………………………………..26
CAPITOLO III…………………………………………………………………………..34
3.1 Stretto di Messina: morfologia e correnti oceanografiche………………………….34
3.2 Classificazione e caratteristiche morfo-anatomiche dei pesci di acque profonde nello
Stretto di Messina………………………………………………………………………..39
SCOPO DELLA TESI…………………………………………………………………...67
CAPITOLO IV…………………………………………………………………………..67
Notizie sulla specie……………………………………………………………………....67
4.1Morfo-anatomia………..……………………………………………………………..67
4.2 Biologia……………………………………………………………………………....70
CAPITOLO V…………………………………………………………………………...72
5.1 Materiale e metodi………………………………………………………………...…72
5.2 Risultati………………………………………………………………………………75
CAPITOLO VI………………………………………………………………………..…78
Conclusioni………………………………………………………………………………78
Bibliografia………………………………………………………………………………81
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PREFAZIONE
In questa tesi è stato eseguito lo studio della bioluminescenza nel Regno animale e in
particolare degli organi fotofori dei pesci meso-batipelagici. Si è voluto comprendere la
natura della luce emessa dal punto di vista chimico e molecolare. Ci si è chiesto se
presentava delle differenze o uguaglianze nei diversi animali: ad esempio, se l' emissione
di luce fosse continua o per azione di batteri luminosi simbionti. Si è studiata la
importanza ecologica e funzionale della bioluminescenza di un organismo in rapporto all'
habitat e agli altri viventi, considerando come gli organismi bioluminescenti sfruttino al
meglio questa proprietà per sopravvivere in ambienti ostili. In particolare è stato
effettuato in laboratorio lo studio morfo-anatomico e biometrico del teleosteo Hygophum
benoiti, sfruttando la possibilità di trovare esemplari di profondità spiaggiati lungo le
coste siciliane e calabresi. I fotofori sono stati isolati ed è stata eseguita l' analisi
istologica ed immunoistochimica.
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INTRODUZIONE
La bioluminescenza nel Regno animale
La bioluminescenza è una proprietà di alcune specie presenti nel Regno animale, sia
terrestri che acquatiche. In “Bioluminescence in the sea” Haddock et al. (2010) la
definiscono come “l'emissione di luce visibile da parte di un organismo come risultato di
una reazione chimica naturale”.Si tratta quindi di luce propria usata da numerosi
organismi appartenenti a tutti i Regni dei viventi. La bioluminescenza infatti, è presente
non solo negli organismi marini che popolano le profondità degli oceani, ma anche nei
terrestri come lucciole, coleotteri, mosche, collemboli, funghi, millepiedi come
Luminodesmus sequoiae, lumache come Quantula striata, lombrichi, e negli abitanti
delle acque dolci quali alcune larve di insetti. Tra i dulciacquicoli è da menzionare la
patella Latia neritoides, l’unico gasteropode d’acqua dolce ad emettere luce secondo
Meyer-Rochow e Moore (“Biology of Latia neritoides Gray 1850 (Gastropoda,
Pulmonata, Basommatophora): the Only Light-producing Freshwater Snail in the
World”, Intern. Rev. Hydrobiol. Hydrograph, 1988) . La luminescenza è generalmente
più diffusa nelle forme viventi in profondità e in organismi planctonici piuttosto che in
specie bentoniche o poco profonde. Non esiste in rettili, anfibi, mammiferi o piante
luminose.
La distribuzione di questa proprietà nel Regno animale non sembra seguire alcun vincolo
filogenetico od oceanografico evidente (Fig.1), in cui ogni gruppo in blu o in verde indica
la presenza di almeno una specie luminescente. Spesso però è difficile confermare che
una data specie sia bioluminescente oppure no perché a sua volta è difficile separare
l’organismo che a noi appare luminoso dai batteri al suo interno, I quali potrebbero essere
i veri responsabili della produzione di luce. Per questo motivo anche il calcolo del
numero di volte che la bioluminescenza si è evoluta nei vari taxa può avere delle
potenziali sovrastime e sottostime. Haddock et al. (2010) stimano che solo i molluschi
bioluminescenti arrivarono a sviluppare in modo autonomo fino a sette modi di produrre
luce e forse anche di più. Inoltre, considerando sia i distinti meccanismi chimici per
produrre luce sia le discendenze monofiletiche (Fig.1), ha stimato che la bioluminescenza
si è evoluta un numero minimo di 40 volte.
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Fig.1 (Distribuzione della bioluminescenza in rapporto alle relazioni filogenetiche. Haddock et
al., 2010)
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Emissione di luce dal punto di vista chimico e molecolare
La bioluminescenza è una delle tre tipologie in cui si suddivide la più generale
luminescenza. Infatti esistono anche la fotoluminescenza e la chemioluminescenza.
Entrambe si basano sull’eccitazione di elettroni a livelli energetici superiori che quando
decadono allo stato fondamentale emettono fotoni. Tuttavia la prima considera una
molecola che viene colpita da una luce e la riemette ad una diversa lunghezza d’onda, ne
è un esempio la fluorescenza; la seconda indica il processo esoergonico di eccitazione
degli elettroni. La bioluminescenza si distingue da questi due tipi perché in primis
avviene in organismi viventi, implica enzimi catalizzatori, e si basa sull’ ossidazione di
una molecola luminescente detta luciferina. A tal proposito fu Robert Boyle a scoprire
che la luminescenza (egli fece riferimento a quella dei funghi) necessita di “aria”, usando
una pompa a vuoto da lui costruita. Come spiegano Haddock et al. (2010), l’ enzima è la
luciferasi o una sua variante, la fotoproteina, nella quale luciferasi, O
2
, lo ione cofattore
Ca
2+
o Mg
2+
, ed altri fattori necessari sono legati e compresi in un’ unica unità. Il
cofattore provoca un cambiamento conformazionale necessario per l’attivazione del sito
attivo. La presenza di un cofattore aiuta a regolare l’ attività catalitica. Quindi, la
luciferina reagisce in presenza di O
2
, grazie alla luciferasi che attiva i processi
ossidoriduttivi del carbonio, e passa ad un livello minore di energia liberandola sotto
forma di fotoni, la cui lunghezza d’ onda è varia: vediamo luce azzurra, verde oppure
giallo-arancione. Fu Dubois a scoprire per primo la luciferina e la luciferasi e a
dimostrarne la reazione nel 1885. Precedentemente anche Benjamin Franklin condusse
studi a proposito: in una prima fase ipotizzò, erroneamente, che la fosforescenza in mare
fosse un fenomeno prettamente elettrico.
LUCIFERINA + O
2
+ luciferasi ------------------> PEROSSILUCIFERINA + [P] + hv
5
Haddock et al. (2010) illustrarono ed analizzarono le diverse strutture dei quattro tipi di
luciferina responsabili della maggior parte della produzione di luce nell’oceano (Fig.2).
Analizza inoltre i componenti luciferina, luciferasi, fotoproteine nei principali taxa del
Regno animale e non solo.
Fig. 2 (Struttura molecolare delle luciferine. Haddock et al., 2010)
Un primo tipo di luciferina si riscontra nei batteri, nei quali il processo comporta
l'ossidazione della flavin mononucleotide ridotta FMNH2 con un aldeide a catena lunga e
due subunità di luciferasi.
Un secondo tipo di luciferina è presente nei Dinoflagellati. Si tratta di un tetrapirrolo
simile in struttura alla clorofilla. La loro luciferasi ha una struttura terziaria che cambia
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conformazione in dipendenza della concentrazione degli H
+
in modo da esporre o meno il
suo sito attivo alla luciferina, e ciò è stato riprodotto in laboratorio (Lee et al.,
“Molecular cloning and genomic organization of a gene for luciferin-binding protein
from the dinoflagellate Gonyaulax polyedra”, 1993). Non tutte le luciferasi dei
dinoflagellati sono uguali. Infatti Liu et al. Evidenziarono che quella di Gonyaulax p.
possiede tre domini catalitici funzionali e ripetuti (“Molecular evolution of dinoflagellate
luciferases, enzymes with three catalytic domains in a single polypeptide”, 2004),
successivamente videro che Noctiluca scintillans ha una luciferasi con un solo dominio
(“Two different domains of the luciferase gene in the heterotrophic dinoflagellate
Noctiluca scintillans occur as two separate genes in photosynthetic species”, 2007).
Un terzo tipo di luciferina, la prima a essere chimicamente ben compresa, è presente
negli Ostracodi. Kato et al. (“Biosynthesis of cypridina luciferin in Cypridina noctiluca.
Heterocycles”, 2007) dimostrarono che la sintesi di questo composto deriva dagli
amminoacidi triptofano, isoleucina e arginina anche se i dettagli del processo non sono
del tutto conosciuti. Si trova in particolare nei generi Cypridina, Vargula, nei pesci
Pempheris e Parapriacanthus.
La coelenterazina è una combinazione di 5 o 6 anelli contenenti azoto. Come la luciferina
degli ostracodi, la coelenterazina deriverebbe dalla ciclizzazione del tripeptide Phe-Tyr-
Tyr e la prova più forte della sua origine naturale deriva da sperimentazioni sull’
artropode crostaceo Systellaspis Debilis (Thomson et al., “Evidence for de novo
biosynthesis of coelenterazine in the bioluminescent midwater shrimp, Systellaspis
debilis”, 1995), dove le uova isolate mostravano livelli crescenti di luciferina nonostante
la dissociazione da ogni contributo materno. La coelenterazina si trova negli cnidari
Aequorea e Renilla, in cui è presente in forma enolica-solfato, nel calamaro Watasenia,
nel gamberetto Oplophorus, nel calamaro volante Symplectoteuthis sottoforma di deidro-
coelenterazina. Negli Idrozoi, Ctenofori e Radiolari si riscontra una collaborazione tra
coelenterazina e fotoproteine. Ad esempio in R. reniformis e R. mulleri la coelenterazina
è avvolta dalle eliche di un’ altra proteina e fuoriesce attraverso un foro per mezzo del
quale lega ioni Ca
2+
(Stepanyuk et al., “Structure based mechanism of the Ca
2+
-induced
release of coelenterazine from the Renilla binding protein. Proteins: Structure, Funct.
Bioformatics”,2009) .
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Una quinta tipologia di luciferina ha una struttura semplice simmetrica unica. Vede il
coinvolgimento, nel processo, di perossido e di riboflavina; è stata riscontrata nel bivalve
Pholas, nei vermi squamati polinoidi, nei vermi tubo chetopteridi, nei vermi di fuoco
sillidi, nell’ hemichordata Ptychodera flava.
Convergenza evolutiva
Haddock et al. (2010) arrivarono alla conclusione che “una luciferina chimicamente
identica può essere il composto attivo in organismi indipendenti tra loro” . Infatti le
coelenterazine si trovano in circa nove phyla, tra cui protozoi, chetognati, meduse,
crostacei, molluschi, e vertebrati. Come mai questa convergenza evolutiva? Esistono
varie spiegazioni. La luciferina viene acquisita per via esogena attraverso la dieta. Ne
sono esempi i rapporti tra dinoflagellati e il krill. Secondo Barnes e Case
(“Bioluminescence in the mesopelagic copepod, Gaussia princeps”,1972) la
coelentarazina persiste anche nei copepodi in cattività, il che indica che i crostacei sono
la fonte più probabile, ma forse non esclusiva, di coelenterazina nella catena alimentare.
Il predatore, una volta assunta la luciferina, dovrà sviluppare la luciferasi. Un’ altra
spiegazione alla convergenza si basa sullo “scavenging” di composti reattivi dell’ O
2
(
come radicali, ioni e perossidi) il cui sottoprodotto è appunto la luce, (Labas et al., “On
the origin of bioluminescent systems.”. “Bioluminescence and Chemiluminescence”,
2000). L’ipotesi più generale è che differenti taxa abbiamo sviluppato lo stesso composto
e lo abbiano poi mantenuto nel tempo.