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INTRODUZIONE
Il lavoro si divide in tre capitoli, anche se le macroaree espositive potrebbero addirittura essere due:
una prima che si potrebbe definire "pre-fantozziana", più esigua, e una seconda "fantozziana" che
domina nella parte centrale e finale della tesi.
Nel primo capitolo ho cercato di indagare il mondo vario e vasto della comicità concentrando
l'attenzione sul meccanismo su cui essa si fonda: il riso. Ho citato scrittori, filosofi e teorici di varie
epoche che si sono susseguiti nel tentativo di definire in modo chiaro ed esaustivo il motivo della
risata che viene sempre collegata al manifestarsi di qualcosa di nuovo e di stupefacente. All'interno
di questa riflessione, tra gli altri, si segnala Luigi Pirandello che distingue il comico, risata crudele
e cinica, dall' umorismo, riflessione che nasce dalla constatazione di una situazione anomala. In
seguito ho spostato la lente d'ingrandimento su un piano meno speculativo e più concreto cercando
di analizzare la figura del comico in quanto attore: la maschera comica. L'attore comico presenta
come scopo principale quello di suscitare la risata, la quale diventa per certi versi il termometro che
permette di misurare l'indice di gradimento della performance presso il pubblico. La presenza
scenica dell'attore comico si basa sulla capacità di combinare e mescolare insieme due diversi
linguaggi comunicativi: il linguaggio verbale, la parola e il linguaggio non verbale, la gestualità.
Dalla fusione di linguaggio verbale e linguaggio non verbale ha origine la maschera comica. Infine
mi sono concentrato sulle più grandi maschere comiche del cinema italiano: Antonio De Curtis, in
arte Totò, e Alberto Sordi. Queste maschere sono state indagate dal punto di vista linguistico e si è
evidenziato proprio come la comicità verbale costituisca il cuore delle loro performance sceniche.
Con il secondo capitolo inizia la "parte fantozziana", ovvero quella sezione incentrata sul
personaggio prima letterario e poi cinematografico del ragionier Ugo Fantozzi. In una prima fase ho
cercato di individuare le tappe salienti prima della nascita, poi dell'ascesa e infine della
consacrazione a livello nazionale della maschera comica. In seguito ho citato altre due maschere
villaggiane, il crudele Kranz e il remissivo Giandomenico Fracchia, provando a spiegare i motivi
che hanno spinto queste maschere a soccombere dinanzi al successo clamoroso di Fantozzi. Solo
con Fantozzi è scattata l'immedesimazione e l'identificazione: egli ha svolto una funzione
terapeutica liberando coloro che si sentivano dei mal riusciti e dei falliti dalla spiacevole sensazione
di sentirsi unici nella propria inadeguatezza. Si è poi ragionato sull'aggettivo tragicomico, termine
con il quale si suole delineare la maschera fantozziana: la componente comica passa inevitabilmente
attraverso una drammaticità connaturata al personaggio. Il tragicomico raggiunge l'apoteosi
all'interno della Megaditta, la surreale azienda all'interno della quale il personaggio elabora il
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proprio personalissimo complesso di inferiorità. Verso la fine del capitolo ho analizzato il rapporto
particolare che lega Fantozzi al posto di lavoro: da una parte odio per gli anni di servilismo e
sfruttamento, ma dall'altra parte impossibilità di farne a meno perchè senza la Megaditta neanche la
sua vita ha più senso.
Il terzo capitolo è senza dubbio quello più interessante perchè mi ha permesso di riflettere sul
contributo più incisivo della maschera di Fantozzi: il linguaggio. Dire che Villaggio ha ampliato il
dizionario della lingua italiana non basta, sarebbe riduttivo: Villaggio ha creato un linguaggio
nuovo. Lo scrittore genovese ha ideato un italiano che prima di essere lingua fosse espressione di
una condizione esistenziale. Il motivo principale del successo del personaggio di Fantozzi consiste
nella creatività verbale, ovvero nella capacità di inventare espressioni e parole non prevedibili ma
estremamente efficaci a livello comunicativo. La comicità di Fantozzi non risiede tanto nella
situazione (già di per sè d'un umorismo surreale e grottesco), quanto nel linguaggio che la racconta,
un linguaggio mai sentito prima, del tutto differente da quello quotidiano.Da Fantozzi nasce il
deonomastico fantozziano che ben presto entra a far parte dei vocabolari della lingua italiana per
indicare il modo di pensare, agire stare al mondo di un individio estremamente sfortunato e perciò
eternamente sconfitto. Fantozziano significa, in poche parole, essere inadeguato a qualsiasi
situazione. Successivamente ho esaminato la lingua fantozziana riscontrando una caratteristica
stilistica: il ricorso incessante all'iperbole. In Fantozzi l'iperbole coincide con l'esagerazione, cioè
col proferire un enunciato in cui il riferimento alla realtà è reso calcolatamente incredibile proprio
per intensificare l'espressione di partenza fino a portarla al massimo grado di paradosso. L'aspetto
più evidente dell'iperbole fantozziana è quello che investe il lessico: titoli onorari ipertrofici, numeri
talmente esagerati da risultare paradossali rispetto all'oggetto a cui si ricollegano, l'utilizzo
frequente del grado superlativo degli aggettivi per deformare la situazione in modo grottesco.Si
segnala dal punto di vista linguistico una sintassi povera, scarna, composta da frasi essenziali e
incisive: la sintassi nominale rende la realtà descritta più immediata e diretta. Un altro elemento
tipico della lingua fantozziana consiste nell'utilizzo di un congiuntivo scorretto, grammaticato che
ha preso il nome di "falso congiuntivo": in questo senso Villaggio rende giustizia allo storico
disagio degli italiani nei confronti di questo ostico tempo verbale. Venghi, vadi, eschi sono tra i
congiuntivi più tipicamente fantozziani.
Dopo aver analizzato le caratteristiche generali del linguaggio di Fantozzi ho tentato di redigere un
Vocabolario della lingua fantozziana. L'intenzione era quella di catalogare l'universo fantozziano
elencando in ordine alfabetico i termini più utilizzati e più significativi. Mi sono avvalso dell'aiuto
di prestigiosi dizionari, quali il GRADIT e il GDLI, per cercare di capire quale tra le accezioni dei
vari termini fosse quella utilizzata in Fantozzi. Si assiste a una deformazione dei termini, in linea
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con la situazione decritta, e l'unico significato accettato è quello eccessivo e smodato. Questa
forzatura verso l'esagerazione spesso genera la creazione di coppie inedite di aggettivi e sostantivi.
Con Fantozzi sono nate delle espressioni che, grazie alla loro potenza comunicativa, sono entrate di
diritto nel nostro patrimonio linguistico: nuvola da impiegato, crocefisso in sala mensa e molte
altre.
L'ultima parte del capitolo si è occupata del rapporto tra il romanzo e la trasposizione
cinematografica: in che modo è avvenuto l'adattamento? Quando si decide di realizzare
l'adattamento cinematografico di un libro di successo , come nel caso di Fantozzi, l'operazione
migliore è quella di confezionare un prodotto che sia il più possibile vicina all'opera letteraria,
confidando nel suo trionfo editoriale. La trasposizione cinematografica di Fantozzi si rivela un
indubbio successo da attribuire alla fedele e riuscita traduzione in sequenze del ritmo e dei tempi
con i quali Villaggio ha dato vita al personaggio nei suoi libri. Facendo una comparazione tra libro e
film è possibile osservare come i vari racconti siano stati talvolta riportati in toto, altre volte
"corretti" per essere più agevolmente inseriti nella trama; inoltre, mentre alcuni non hanno avuto la
fortuna di arrivare sul grande schermo, altri sono stati ripresi successivamente o in film che esulano
dalla saga fantozziana. Si può concludere che, nonostante le differenze dovute a mezzi espressivi
diversi, il rapporto tra opera letteraria e prodotto filmico resta simbiotico.
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CAPITOLO I: IL COMICO
1.1 Meccanismo della comicità: il riso
Il riso è la risposta emotiva dell'uomo di fronte all'esperienza del comico: ne costituisce l'effetto e la
conseguenza. L'importanza della risata è stata percepita fin dalle epoche più antiche tanto che
Aristotele nelle Parti degli animali sostiene che «l'uomo soltanto, fra tutti gli animali, ride.»
1
Il
filosofo greco riconosce all'uomo l'unicità di possedere una caratteristica che lo differenzia e, per
certi versi, lo rende superiore agli altri animali. L'atto del ridere è una peculiarità umana e ne
manifesta la presenza. Il fenomeno fisico della risata produce le stesse dinamiche esteriori in ogni
epoca: modificazione del ritmo respiratorio, sospensione dell'aspirazione, contrazione dei muscoli
addominali e facciali e talvolta lascrimazione. A tal proposito se dovessimo redigere un manuale
della risata riscontreremmo sempre le stesse reazioni fisiche in ogni contesto analizzato: «la risata è
un meccanismo che ognuno di noi ha; la risata fa parte del vocabolario umano universale. Ci sono
migliaia di lingue, centinaia di migliaia di dialetti, ma tutti ridono più o meno allo stesso modo».
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Benché lo psicologo statunitense Robert Provine non possa essere smentito nel momento in cui
riscontra una manifestazione fisica universale della risata, bisogna tenere presente che il comico non
può essere compreso ed esperito totalmente quando viene separato dal contesto storico e sociale in
cui è nato: «Probabilmente il comico provoca i risultati più diversi a seconda delle condizioni del
corpo sociale che lo consuma [...] e ogni teoria dei meccanismi del comico deve integrarsi a una
storia sociale del riso.»
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Umberto Eco, in queste poche righe, intende specificare che un'analisi del
comico svincolata dalla conoscenza del corpo sociale di riferimento sarebbe riduttiva e ci
restituirebbe solo una parte, e non la totalità, della vis comica. Il comico, quindi, non è un elemento
fisso e definitivo, ma è in continuo divenire vivendo in simbiosi con la società: la visione del
mondo peculiare di un'epoca esercita un'influenza decisiva sul riso, e non è un caso che in ciascun
momento storico esso ne rispecchi la mentalità.
Scrittori, filosofi, teorici di varie epoche si sono susseguiti interrogandosi sulla natura del comico e
nel tentativo di definire in modo chiaro ed esaustivo il motivo del riso, senza riuscirci: «i più grandi
pensatori, a partire da Aristotele, hanno affrontato questo piccolo problema, che si sottrae ad ogni
1
ARISTOTELE, Opere 5 Parti degli animali, Laterza, Bari, 1990, p. 93, 673a.
2
R. PROVINE, Ridere. Un'indagine scientifica, Dalai Editore, Milano, 2003.
3
U. ECO, Il nemico dei filosofi, «l’Espresso», 13 agosto 1967, p. 18.
7
sforzo, scivola, sfugge, si ripresenta, impertinente sfida lanciata alla speculazione filosofica.»
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Insomma secondo il filosofo francese Henri-Louis Bergson, di cui parleremo nel dettaglio in
seguito, la difficoltà principale che si instaura di fronte al comico consta nell'indeterminatezza e
nebulosità della materia, impossibile da cogliere pienamente.
Nel mondo antico il comico nasce con la diffusione della commedia, genere teatrale che presenta
come scopo principale quello di provocare la risata del pubblico mettendo in evidenza il brutto:
«La commedia è, come dicevamo, imitazione di persone moralmente inferiori, tuttavia non
secondo ogni vizio, ma [suo oggetto] è la parte ridicola del brutto. Il ridicolo è infatti una sorta
di errore e una bruttezza senza sofferenza né tale da far danno, come, per un esempio di
immediata evidenza, la maschera comica è qualcosa di brutto e di stravolto senza sofferenza.»
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Aristotele presenta la commedia come una forma d'arte in grado si segnalare, attraverso l'imitazione
teatrale, l'inferiorità morale di ciò che viene messo in scena per mezzo del ridicolo. Il riso diventa
ridicolo nel momento in cui subentra l'elemento del brutto: la risata non è fine a se stessa ma
diviene derisione e scherno. Il filosofo, nel corso della Poetica, proclama l'assoluta necessità del
riso confidando sulla sua funzione catartica capace di rimuovere gli ostacoli della vita e far ritrovare
un proprio equilibrio interiore.
Aristotele non è l'unico esponente del mondo antico ad occuparsi del meccanismo del riso. Il
filosofo greco Platone, nel terzo libro del dialogo La Repubblica, scrive: «nemmeno bisogna essere
troppo amici del riso, giacché in generale quando uno si abbandona a un gran ridere, questo suol
richiedere un forte mutamento del proprio equilibrio.»
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Platone si mostra evidentemente preoccupato delle conseguenze del ridere, come se di per sé fosse
diseducativo e mettesse in ridicolo l'uomo devoto che è tale in quanto sa controllarsi. In questo
passo il riso viene visto come una minaccia alla quale non bisogna cedere e dalla quale bisogna
allontanarsi. L'ostilità mostrata dal filosofo, nelle pagine della Repubblica, non viene confermata,
anzi viene smentita nell'ultima opera Le Leggi, dove disquisendo circa l'importanza di «ciò che è
serio» emerge come imprescindibile il suo contrario, «ciò che è ridicolo»:
«Ora è necessario approfondire la conoscenza delle espressioni imitative dei corpi deformi, dei
pensieri bassi, di ciò che è orientato alla canzonatura che suscita il riso, nella dizione, nel canto,
nella danza, nelle imitazioni comiche operate in tutti questi campi. Non è possibile apprendere
4
H. BERGSON, Il Riso, SE Editore, Milano, 1990, p. 17.
5
ARISTOTELE, Poetica, Einaudi, Torino, 2008, p. 31, 1149a.
6
PLATONE, La Repubblica, Bur, Milano, 1981, p. 82, 388e.