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Introduzione
La scoperta di un autore e lo studio delle sue opere oltre ad essere un’esperienza in
grado di arricchire la persona si rivela una forma di comunicazione, fatta di
aspettative e, poi, di affettività verso i suoi scritti e le sue storie: Giovanni Mosca
(Roma 1908 – Milano 1983) mi ha trasmesso immediatamente un’immagine
fortemente peculiare, ad iniziare dalla sua inimitabile firma.
Firma molto apprezzata dal pubblico, grazie soprattutto al successo del bisettimanale
«Bertoldo» (fondato nel 1936 con Giovannino Guareschi e Vittorio Metz), che si
rende immediatamente riconoscibile e diviene nota ai lettori di quella testata e non
solo, tanto che la sua firma ‘autografa’ – riprodotta in grandi dimensioni su volumi,
vignette ed elzeviri, come a dire: di Mosca ce n’è uno solo – diverrà assoluta
garanzia di successo editoriale. Il grande consenso, infatti, lo porta già nel 1937 sulla
terza pagina del «Corriere della Sera» – anticipando la collaborazione continuativa
che lo spoglio del quotidiano rivela nel corso degli anni Cinquanta – nonché a
migliaia di copie vendute delle sue opere letterarie. La ragione di questo successo,
riscontrabile in tutta la sua versatile nonché prolifica, cinquantennale attività che
comprende anche la direzione dell’amatissimo, dai bambini e dai loro genitori,
«Corriere dei Piccoli»), credo si possa principalmente ricondurre – oltre all’indubbia
capacità di scrittura e disegno – alla sua qualità di saper coniugare acutezza di analisi
sugli ‘italici’ costumi ad una vena ironica tanto sottile quanto colta ed efficace, per
divenire un apprezzato, come ebbe a dire di se stesso, «cantore delle piccole cose di
tutti i giorni».
Con questo mio lavoro ho cercato dunque di analizzare la sua personalità e il suo
operato, intrecciati alla storia dell’Italia e della sua industria editoriale dal periodo
del regime fascista fino agli anni Ottanta, rendendomi conto di come il fatto di essere
stato quasi dimenticato ancor prima della sua morte sia, a mio parere, profondamente
ingiusto.
Come si evince dal presente lavoro, partendo da una breve biografia ho poi
analizzato la sua attività dagli inizi fino alle ultime produzioni, prendendo in esame
sia il quotidiano esercizio di articolista, illustratore, vignettista e direttore di molte
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testate italiane che – naturalmente – il suo impegno come scrittore di romanzi, e
ancora di traduttore e commediografo, attività sempre caratterizzate dalla sua vena
umoristica e satirica.
Le indagini compiute finora sulla vita e le opere di Mosca hanno fornito solo
indicazioni generiche o comunque incomplete, tanto da giustificare la proposta di
un’analisi accurata di questo autore, non solo raccogliendo quante più informazioni
disponibili per rispondere alle domande ancora aperte, ma analizzando attentamente
molti dei suoi scritti, rileggendoli in un contesto ampio – nazionale ed europeo
insieme – per inquadrarli in una giusta prospettiva letteraria e non solo.
Di conseguenza questo mio lavoro è nato e cresciuto, di settimana in settimana,
dall’analisi del suo lavoro e dei suoi lavori, analisi che, da subito, mi si è presentata
prospetticamente incoraggiante: poliedrico autore, Mosca è riuscito a rappresentare
per moltissimi anni un’Italia – prima fascista (più che monarchica), quindi
democristiana (più che repubblicana) – dal sentire deamicisiano, borghese e spesso
qualunquista, riscattandone la mediocrità intellettuale sostenuto da una robusta
cultura e da una insita – talvolta incontenibile – vena ironica.
Per il mio studio mi hanno soccorso, oltre i libri di Mosca (in particolare la sua
autobiografia La signora Teresa) e i numeri del corriere «Corriere dei Piccoli». Ma
non solo: vere ‘miniere’ sono risultate anche sia le sue prefazioni ricche di note
autobiografiche che le testimonianze scritte dei suoi figli, amici e colleghi che mi
hanno fornito, insieme ad aneddoti divertenti, informazioni utilissime – oltre che per
comprendere il carattere dell’autore – per la mia ricerca, su tutti i racconti
autobiografici di Giovannino Guareschi, giornalista e scrittore noto soprattutto per le
trasposizioni cinematografiche del suo Don Camillo, che ha lavorato fianco a fianco
di Mosca sulle testate appena indicate. Mosca, forse ‘profeta scomodo’, mi è apparso
uomo di forte volontà e coerenza assoluta, dalla cui mente scaturivano idee chiare
che la sua mano traslava sulla carta, con grande dedizione professionale, per la gioia
dei suoi lettori, colpiti dal linguaggio piacevole, dal tono (ad iniziare dalla titolazione
di elzeviri e libri) talvolta tra il surreale e l’ironico, altre tra l’emozionante e il
nostalgico quando, in pagine – colme insieme di tenerezza e intensa partecipazione –
raccontava i problemi suoi e dei suoi contemporanei con vitale serenità.
Ma Mosca ha rappresentato un esempio di uomo libero, che non ha voluto
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appoggiare nessun partito, per poter rivendicare sempre il proprio diritto di
espressione, raccontando (e sbeffeggiando) la società italiana, prima e dopo la
Seconda guerra mondiale, attraverso la parola e il disegno satirico.
Del primo, difficile, periodo è stato giovane testimone: anni che vedevano
consolidarsi il fascismo, che l’autore attraversò senza alcun entusiasmo, anzi con
interiore avversione e disgusto soprattutto dopo l’assassinio di Matteotti. Presto
arrivarono gli anni bui della guerra… ma qualcosa riuscì in lui ad esorcizzare
l’angoscia che si respirava nell’aria e l’inquietudine per ciò che sarebbe potuto
accadere: la sua vena umoristica.
Dopo la guerra venne la seconda stagione, quella che avrebbe dovuto coincidere con
il tempo della realizzazione dei sogni e delle attese, ma in larga misura fu per lui un
contatto con una realtà deprimente, quella delle delusioni e dell’amarezza di fronte
alla constatazione di un conformismo non meno oppressivo del primo. Il suo non
allinearsi, il non correre ad acclamare il vincitore di turno (vezzo così abituale nel
nostro paese), gli procurarono problemi anche da parte di alcuni colleghi: gli stessi
che poco prima – ardenti mussoliniani – avevano disprezzato la sua commedia La
sommossa, voce critica nel gran silenzio, divenuti dopo il ’45 martiri della dittatura e
precursori della Resistenza – avrebbero preteso che anche Mosca ‘rientrasse nel
gregge’ senza se e senza ma, glorificando incondizionatamente chi aveva assunto
posizioni di rilievo. Lui non lo fece, e i giornalisti antifascisti dell’ultima ora si
dissero che un uomo simile andava punito: oltre a dargli del nostalgico del caduto
regime si spinsero fino al tentativo di rovinargli la carriera inviando denunce
anonime a chi di dovere tra i nuovi ‘potenti’. E allora iniziò una dura battaglia per
mantenersi libero: borghese contro la moda del populismo, indipendente contro le
lottizzazioni intellettuali, incondizionatamente fedele agli amici caduti in disgrazia,
puntualmente critico verso i nuovi idoli a cui si rifiutava di pagare il tributo – pur
fruttifero – dell’incensamento.
Uomo libero dunque che, con i ‘padroni’ fascisti prima e antifascisti dopo, ha
dimostrato – licenziato o dimissionario – una totale incapacità di piegarsi e di servire,
nella dignitosa e spesso solitaria convinzione di dover difendere il proprio sentire e di
non rinunciarvi. Quando da un sistema politico si passa ad un altro, restare fermi su
una simile linea comporta un alto prezzo da pagare. E Mosca lo ha pagato, cocciuto
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nel condurre una lotta donchisciottesca ad esempio con le centinaia di vignette che
per anni furono la bandiera del «Corriere d’Informazione» prima e de il «Tempo»
poi, strali che volevano – riuscendovi – demitizzare gli eroi dell’ultima ora
sgonfiandoli dell’aria di cui erano pieni.
In ogni caso si può dire che abbia vissuto due ‘mondi’ diversi perché anche il suo fu
spaccato a metà dalla guerra, costringendolo a vivere due vite, che infine metterà a
confronto. Quale gli piacque di più? Senza dubbio la prima, perché, come ha
sostenuto, «da giovani si sogna l’avvenire»
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E quegli anni gli restarono vivi nella memoria e dolci nella nostalgia: spesso scrisse
con rimpianto di una stagione incomparabile che, pur irta di difficoltà materiali,
molte rinunce e sacrifici, era ricchissima di illusioni, speranze e pindarici voli di
fantasia.
Sul Mosca giornalista, sostanzialmente conservatore, bisogna in ogni caso tornare a
sottolineare come abbia raccontato un ‘fetta’ cospicua di storia italiana (in qualche
caso influenzandola), una parte importante della nostra vita, politica e non, che come
direttore, redattore, collaboratore esterno o vignettista ha vissuto e commentato in
‘presa diretta’, rendendoci ancor oggi l’impressione di poter analizzare la nostra
evoluzione – talvolta, culturalmente, involuzione – accendendo emozioni sulle
passate ma ancora accese sferzate ai cattivi costumi ed alle istituzioni.
Una testimonianza quotidiana, sorprendente per quanto semplice ma efficace appare
il suo scrivere e disegnare con stile brillante e umoristico, che senza retorica cerca di
comprendere e far comprendere, offrire spiegazioni – e talvolta soluzioni – ai
malanni che affliggevano e affliggono ancora il nostro paese, del quale la classe
politica, in tanti anni, ha consumato stimoli e risorse con gli sprechi e il malaffare.
Le sue analisi lucide e sottili, anche quando espresse in modo onirico o surreale, di
fenomeni che, come le cause che li hanno determinati, ancora pesano sul nostro
presente, appaiono come brani determinanti per una critica che continua o dovrebbe
proseguire su quel solco, ma non appare vitale come la sua, prototipo di giornalismo
“controcorrente” (basato sull’osservazione del costume), con il quale Mosca credeva
importante dare il suo contributo per rendere migliore l’Italia.
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Giovanni Mosca, La signora Teresa, Milano, Rizzoli, 1986, p. 7.
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Io credo che non abbia mai scritto o disegnato nulla per divertire e basta, ma il suo
impegno fosse quello di cercare di mettere in dubbio le certezze, di far meditare su
certe esternazioni, di spingere all’indignazione, insomma di far meditare i suoi lettori
portandoli a ragionare con la loro testa.
Oggi si sente la mancanza dei suoi elzeviri e delle sue vignette, perché la satira di
Mosca (uomo dai rarissimi epigoni data la generalizzata scarsa attitudine di pagare
alla libertà il prezzo che egli pagò senza vantarsene) è stata forse l’ultima degna di
chiamarsi tale.
È stato un creativo che ha respirato, dal futurismo al surrealismo, l’aria delle
avanguardie e, insieme ad altri autori come Zavattini, Guareschi, Manzoni, Metz,
Marotta, Marchesi e Fellini (solo per citare qualche nome), diede vita al neorealismo
prima e alla commedia all’italiana poi. Senza i giornali che hanno permesso di dare
sfogo alle loro poetiche ed alla loro satira, anche le prospettive sul ‘nuovo’ –
dall’umorismo di Pirandello al comico-grottesco di Gadda – sarebbero orfane della
giusta scenografia storica.
Infatti è stato grazie ai giornali umoristici come «Il Becco giallo», «Marc’Aurelio»,
«Bertoldo», «Settebello» e «Candido» se si ebbero a creare quelle complesse
‘diramazioni’, dalla tradizione che attraversava il Novecento, che hanno portato tanti
autori fuori dai generi letterari canonici verso nuovi strumenti mediatici, diramazioni
che oggi continuano nei siti internet, dove tornano in auge settimanali umoristici
morti da decenni.
Di fatto, senza più ampie prospettive su questo periodo, si rischia di valutarlo in
maniera assolutamente miope e restrittiva, dimenticando che il secolo recente più
tragico della storia umana, in verità, è stato anche quello del grottesco, del comico e
dell’umorismo, che ha portato tra l’altro – appunto – la letteratura fuori dai canoni
imperanti. E Mosca è uno degli autori che ebbe a superare gli ‘argini’ perché,
impegnatissimo sia nell’inventare ed impaginare giornali che nello scrivere libri,
riuscì non solo a soffiare l’aria fresca delle avanguardie su una cultura stantia o
provinciale, ma pure a riportare in vita tradizioni letterarie dell’antichità sopite o
relegate ai soli banchi del liceo classico: i personaggi ed i valori morali espressi – ora
nei suoi romanzi ora nei suoi racconti umoristici – non sono quelli della tradizione
letteraria tardo ottocentesca, hanno radici più profonde e lontane.
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Ma non solo, ho cercato anche di concentrarmi sugli aspetti più umani che lo hanno
contraddistinto: uomo innamorato di sua moglie (che fu insieme sua compagna e
ispiratrice), dei suoi figli e nipoti, ho rilevato come si sia espresso rivelando pietà
profonda unita ad uno sguardo libero, leggero e sorridente sia sulla meraviglia che
sull’orrore del mondo.
I suoi romanzi – accolti all’uscita come una narrazione di avvenimenti vissuti
individualmente, ma trasferibili nell’esperienza comune a una generazione – oggi ci
lasciano la malinconia postuma dei rimpianti: di lui, della sua arte, del suo mondo
poetico, del tempo scomparso con le sue nostalgie. Ma, su tutto, continuano a
trasmettere il suo originale umorismo, l’irripetibile e fulminante capacità di satira e
quella magica irrealtà con cui sapeva far vivere i personaggi dei suoi racconti.
Mosca è un autore capace di esaltare la nostra giovinezza e di toglierla dal grigiore
del conformismo utilizzando un lessico funambolico dalla sconcertante carica di
novità espressiva, farcita di situazioni e battute surreali: i suoi racconti, i suoi
personaggi, il suo modo di guardare il mondo parla al cuore di lettori in ogni tempo e
latitudine.
Un uomo insomma che morì quasi dimenticato ma che avrebbe avuto ed ha tutt’ora
ancora molto da insegnare, tanto i suoi scritti appaiono attuali: raccontando il
presente di allora Mosca insegna, con un lessico semplice ma brillante, decenni di
storia a quelli che non l’hanno vissuta o non vogliono sia ricordata; possibile che non
sia rimasto nulla di suo – considerato anche il grande successo di pubblico ottenuto
in passato – da rileggere e rivalutare?
Perché, ribadisco, l’Italia narrata e ‘graffiata’ da Giovanni Mosca è simile a quella di
oggi, così come Candido in Italia sembra un libro contemporaneo: leggendolo si
sorride spesso, ma altrettanto spesso lo si fa amaramente, perché si è indotti a
riflettere sui mali che – storicamente – affliggevano e affliggono il nostro Paese.
Oggi il nostro vivere è più distratto, siamo impegnati in tante attività nel tentativo di
trovare – con difficoltà – una strada, ci colpiscono solo le notizie più drammatiche o
eclatanti… credo che manchino, oggi, figure come Giovanni Mosca, «cantore delle
piccole cose di tutti i giorni». Non solo come ‘fustigatore’ di cattivi costumi, ma
anche come scrittore che sapeva mantenere saldo il senso del racconto in romanzi
ricchi di personaggi – reali o di fantasia – tratteggiati a tutto tondo, figure concrete
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che impartiscono insegnamenti muovendosi in un’Italia ‘difficile’.
Per concludere, studiando Mosca si ha l’impressione di ascoltare un nonno che,
lucido testimone del suo tempo, rievocandolo con ironia priva rimpianti o nostalgie
consegna ai nipoti un piccolo patrimonio, che auspico provocherà, oltre alla mia
ricerca, altri interventi che riportino un autore che merita di essere ricordato sotto la
giusta luce.
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Capitolo I
Gli esordi
1.1. I primi anni
Giovanni Mosca nasce a Roma, al numero 8 di via Quattro Fontane, il 14 luglio 1908
da Benedetto, impiegato dello Stato al ministero dell’Agricoltura, Industria e
Commercio, e Emma Ugolini, che muore mettendolo alla luce. Il rimorso per aver,
secondo lui, ucciso la madre (si somigliavano come 2 gocce d’acqua) lo tormentò
tutta la vita. Mosca è stato cresciuto, insieme ai suoi tre fratelli, dalla nuova moglie
del padre, Zaira Filippini, che Mosca scopre non essere la vera madre poco prima dei
diciotto anni, quando si reca all’anagrafe per ritirare i documenti per poter sostenere
l’esame di licenza liceale. Iscritto al liceo classico Mamiani, ha la fortuna di avere,
come professore d’italiano, il letterato e scrittore Alfredo Panzini (1863-1939), che
era stato allievo di Carducci. Durante questo periodo scolastico, oltre a ‘divorare’
romanzi cavallereschi (ama in particolare il Don Chisciotte del Cervantes), per
aiutare la scarna economia famigliare compila dispense che una scuola per
corrispondenza spedisce agli abbonati. Più tardi trova anche impiego (forse anche per
i buoni uffici del padre) presso il casellario del ministero di Grazia e Giustizia: la sua
mansione è quella di redigere le schede dei cittadini che hanno commesso reati.
Il suo ‘esordio’ come vignettista satirico avviene a sedici anni: il 16 agosto 1924
viene ritrovato il corpo senza vita di Giacomo Matteotti (rapito due mesi prima), ed il
ragazzo ne rimane scosso, come la gran parte degli italiani.
Allora disegna una vignetta dove un cane poliziotto, addentato un carabiniere, lo
conduce a forza sul luogo di occultamento del cadavere, intitolandola Mussolini,
cave canem!. Cosa farne? Decide di affiggerla alla statua di Pasquino, storico
‘termometro’ del malumore popolare verso la corruzione e l’arroganza dei potenti,
visto che fin dal Cinquecento i romani, naturalmente in modo anonimo, nottetempo
gli appendono fogli dai contenuti satirici detti appunto “pasquinate”.
La nota un collaboratore del giornale antifascista «Il becco giallo», testata fondata dal