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Introduzione
Chiunque si trovi ad osservare una carta geografica dell’Italia nota la bizzarra
conformazione di un estremo lembo nord-orientale del Paese e più precisamente
quell’area che fino a pochissimo tempo fa era la Provincia di Trieste.
Come un’appendice sporgente dal contesto nazionale essa si protende a fare da ponte tra
la costa bassa e sabbiosa del Friuli e quella alta, scoscesa e rocciosa dell’Istria.
Per decenni terra contesa e divisa da mille storie e problemi che poco avevano a che fare
con la sua intima vocazione, oggi, grazie all’inarrestabile mutare dei tempi e in buona
parte proprio grazie a tutti quei vincoli che per tanti anni l’hanno ingabbiata rendendola
una specie di “area interdetta”, si trova ora ad avere tutte le carte in regola per rinascere
dal punto di vista sociale ed economico. Già la conformazione geologica di quest’area
segna un punto di confine tra l’area padana di formazione alluvionale e quella
sedimentaria effetto di millenni di stratificazioni fossili.
Guardando oggi il paesaggio di questo tratto di costa dal mare si può benissimo osservare
la diversità biologica delle due zone contermini: da un lato la rigogliosa prolificità dei
campi coltivati, dall’altra la brulla severità dell’Altopiano carsico.
In mezzo a questi due caratteri biologici così difformi compare, come se fosse un’oasi,
sorgente però dalle acque del mare, la fascia di vegetazione costiera.
Ad un osservatore attento potrà sembrare molto strano che un altopiano come quello
carsico, così avaro di acque superficiali, abbia dato vita lungo la sua costa ad un tale
rigoglio di vita dando quasi la sensazione di essere in presenza di una giungla asiatica di
mangrovie.
Ma è l’effetto, unico, del carsismo, con l’infiltrazione e lo scorrimento al disotto della
superficie del terreno delle acque e dei torrenti.
Uno fra tutti si distingue e raccoglie buona parte delle acque superficiali: il Timavo.
Scomparso nei meandri della roccia calcarea a quasi 30 km dalla costa, ricompare
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improvvisamente al livello del mare unendo in una simbiosi unica sorgente e foce e
scaricando copioso le sue acque praticamente direttamente nell’Adriatico.
La sua sorgente-foce più rilevante si trova quasi al confine della zona carsica ma sono
innumerevoli le altre bocche sorgive, alcune delle quali anche molto copiose, e tantissime
altre di minore entità, anche minuscole, che permettono alla vegetazione costiera una
crescita davvero lussureggiante.
La presenza di questo fenomeno in un’area un tempo foce del fiume Isonzo, prima che nei
millenni avvenisse una delle innumerevoli modifiche del suo alveo, ha generato una vasta
area paludosa alimentata ora dalle acque dolci del Timavo, e questo ha permesso di creare
quell’ambiente ecologico unico e particolare che già gli antichi avevano riempito di
significati magici e spirituali.
Trasformare una meraviglia naturale in un luogo magico e spirituale era per l’uomo antico
una conseguenza ovvia: nulla in natura esisteva se non per il volere di qualche Spirito
Divino e inoltre le peculiarità naturali del luogo ben si adattavano a qualsiasi dottrina
religiosa.
Ecco allora sorgere nelle vicinanze della sorgente principale numerosi Templi dedicati a
tutte le Divinità che si sono avvicendate nei secoli: dalle divinità celtiche fino alle divinità
latine e il Dio Mitra, e, una volta caduti gli Dei, vennero costruite sopra le macerie dei
loro templi varie chiese cristiane.
Tutte queste religioni hanno fatto sì che tutta l’area fosse ricca di fascino, di mistero e ha
portato alla nascita di numerose leggende.
Questa “bizzarria” permise agli uomini preistorici di abitare nella zona sfruttando
inizialmente le numerose grotte carsiche presenti per poi edificare, in epoca neolitica,
numerosi villaggi fortificati, i castellieri, segno della necessità di difesa da un costante
passaggio ed infiltrazione di genti nuove.
La presenza dell’acqua, buona ed abbondante in tutti i periodi dell’anno era allora, come
oggi, un elemento essenziale per la sopravvivenza umana ed elemento indispensabile per
qualsiasi attività economica.
L’acqua è presente in abbondanza lungo tutta la costa nord adriatica ma si tratta di acqua
in massima parte salmastra oppure palustre e se questa permette la navigazione ed il facile
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collegamento tra le varie località della costa e dell’entroterra veneto, per contro crea
problemi di approvvigionamento per gli equipaggi.
I fiumi, anche di grandi dimensioni, generano delle foci molto ampie e quindi molto basse
che impedivano l’accesso delle pesanti barche del passato e pertanto
l’approvvigionamento idrico era estremamente difficoltoso o oneroso.
Perciò quello che fu conosciuto da tutti i naviganti come “Locus Timavi” divenne in breve
tempo un approdo indispensabile per le navi che volevano proseguire il viaggio verso le
coste della Dalmazia e di conseguenza divenne un punto di raccolta, di mercato e
comunicazione tra i più importanti di tutta l’area nord-adriatica.
I Romani, che proseguivano il loro cammino di conquista verso est, dopo aver fondato
Aquileia, posero un loro primo confine proprio ai margini del “Locus Timavi”.
La presenza di navi mercantili e di un approdo sicuro in quel luogo favorirono l’iniziativa
degli abitanti locali, avvezzi all’utilizzo e alla lavorazione della pietra calcarea per le loro
necessità, ed iniziarono a fornirla in quantità sempre più consistente agli edili romani e
con quella venne edificata gran parte di Aquileia e delle altre città romane del Friuli e del
Veneto.
La fama della qualità della pietra carsica si sparse e innumerevoli furono le opere che da
allora in poi vennero realizzate in tutto l’impero, fama che non si spense più se non per
eventi estremamente traumatici quali pestilenze o invasioni devastanti ma che alla fine,
proprio come i fiumi carsici, riemerse sempre.
Lungo tutto quel breve tratto di costa e nel territorio immediatamente retrostante
cominciarono così a comparire numerose cave di pietra.
Apparve subito chiaro ai cavatori dell’epoca la presenza di materiali che, seppur
appartenenti al medesimo genere, avevano caratteristiche diverse.
Dalla roccia sbrecciata o scavata dall’acqua si potevano ricavare massi o pietrisco per la
costruzione di strade o di moli frangiflutti, da quella bianca, compatta ed esente di
imperfezioni si potevano ricavare elementi architettonici e perfino statue di estrema
bellezza e qualità.
Per il primo tipo di materiale era sufficiente cavare pietre a pochi passi dal mare così da
facilitarne la movimentazione ed il carico.
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Per le seconde invece era necessario un lungo e oneroso trasporto dalle cave più interne
fino alle banchine poste lungo la costa.
Storici antichi raccontano che tale operazione fosse resa possibile dall’esistenza di alcune
strade “piombate”, cioè ricoperte da lastre di piombo molto spesse, su cui venivano fatti
scivolare i blocchi dalle cave stesse fino ai pontili di carico.
Si racconta perfino che alcuni frammenti di queste lastre di piombo siano state ritrovate
durante la costruzione della strada “costiera”, da Monfalcone a Trieste, nel 1928.
Già dall’epoca romana l’industria estrattiva si rivelò essere un’attività molto fiorente ma
fu soprattutto dopo la metà dell’Ottocento, in seguito all’apertura della linea ferroviaria
Vienna-Trieste, con le capacità di trasporto che il treno permetteva soprattutto verso
l’interno dell’Impero Asburgico, che lo sviluppo economico ebbe un notevole
incremento.
Alle numerosissime cave poste sull’altopiano adibite alla fornitura di materiale pregiato si
affiancarono altrettante cave di estrazione di materiale “povero” necessario per la
costruzione del porto di Trieste nei suoi vari e molteplici ampliamenti e della stessa città,
nonché per tutte quelle attività industriali in cui la pietra la faceva ancora da padrona.
L’utilizzo di macchinari, prima a vapore e poi a motore, permisero la lavorazione di
blocchi sempre più considerevoli e la presenza delle cave lungo la costa consentivano un
trasporto a destinazione estremamente economico tale da incrementare continuamente la
richiesta.
Si vennero a formare così alcuni fronti di cava prospicenti il mare che per le popolazioni
del posto rappresentarono una fonte indispensabile di sussistenza ma che comportarono
inevitabilmente uno sfregio alla componente ecologica e paesaggistica della costa.
Proprio al fine di risanare una di queste situazioni, una cava in funzione dal II secolo d.C.
ma in disuso e abbandonata da decenni, nacque l’idea di creare dal nulla quel complesso
edilizio e turistico che oggi noi possiamo ammirare sotto il nome di “Portopiccolo” nella
baia di Sistiana.
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1. Portopiccolo: dall’idea iniziale alla realizzazione
1.1 Gli antefatti
L’idea di realizzare una importante struttura turistica all’interno dell’ex cava di Sistiana
nacque agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso con un’idea di Marcello D’Olivo ma per
un’area molto più ampia, comprensiva della baia naturale e dell’ambito della cava, per la
quale veniva ipotizzato un intervento da 5.000 posti letto e 350 natanti e fu fortemente
voluta e sostenuta da una componente politica ed imprenditoriale della zona, che vedeva
in questo progetto un volano irresistibile di progresso economico per tutta l’area, ma che
venne da subito aspramente contestata dalla parte politica avversa e per varie motivazioni
anche da una buona parte della popolazione.
Si era negli ultimi tempi della “guerra fredda”. Le contrapposizioni politiche erano ancora
fortemente ingabbiate nel dualismo est-ovest e le ferite lasciate nel territorio dal
ventennio fascista e dalle durissime contrapposizioni belliche e anche post belliche erano
ancora molto aperte e in qualche caso anche sanguinanti.
Il comune di Duino - Aurisina (Dvin Nabrežina) risentiva in maniera particolare di questo
dualismo e la componente etnica di maggioranza slovena aveva, ed ha tuttora, da sempre
temuto la perdita della propria identità.
Per evitare ciò le autorità comunali, per anni compattamente unite politicamente nella
difesa della loro specificità, applicarono regole e procedure che hanno tentato, in tutti i
modi legittimi e possibili, di impedire l’ingresso nell’area comunale di imprenditorialità
provenienti da fuori, specialmente se etnicamente diverse.
Dall’altro la componente italiana, certamente non con la virulenza e l’arroganza che
l’aveva contraddistinta durante il Ventennio precedente la Seconda Guerra Mondiale, ma
giustificata dalla difesa di quello che era rimasto l’ultimo lembo di territorio che un tempo
era la Venezia Giulia, in un tratto di territorio in cui la distanza tra quel confine che tutto
il mondo conosceva come la “cortina di ferro” e la costa del mare non raggiunge
nemmeno i tre chilometri, tentava di modificare questo stato di cose.