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Introduzione
Il presente lavoro di tesi mira ad approfondire l’evoluzione della Responsabilità Sociale
verso il concetto di Valore Condiviso, massima espressione della prima e in grado di collegare
i risultati economico-finanziari con gli sviluppi sociali. Un’agenda sociale basata sul CSV
(Creating Shared Value) ha l’obiettivo di allineare il progresso sociale con gli interessi
aziendali in modo concreto e tangibile; pertanto attraverso la creazione di valore condiviso si
ridefiniscono i confini del capitalismo, stimolando un “capitalismo consapevole” (Porter &
Kramer, 2011).
La vecchia visione che impone all’azienda un maggior attenzione alle questioni sociali a
discapito del business è ormai superata (Porter & Kramer, 2011), in quanto ogni politica di
Responsabilità Sociale intrapresa deve portare un qualche ritorno economico, poiché si tratta di
organizzazioni for profit. Questo concetto, a differenza della CSR (Corporate Social
Responsibility), viene formalizzato nel CSV escludendo chiaramente l’indirizzo della
filantropia e dell’obbligatorietà; ciò ha portato al successo del concetto sia a livello accademico
che aziendale. Dunque, il valore condiviso offre una prospettiva differente dei problemi sociali,
individuando nuove opportunità nonché bisogni ancora insoddisfatti ed allo stesso tempo anche
la comunità ottiene dei benefici, alimentando un circolo virtuoso dato dalla correlazione tra
business e società.
Già dalla seconda metà dell’Ottocento si registrano orientamenti anticipatori del concetto
di responsabilità sociale attraverso le prime iniziative filantropiche per fronteggiare i gravi
problemi ambientali e sociali, ma i primi veri contributi teorici risalgono intorno agli anni ’50.
Il padre della moderna CSR può essere considerato Bowen che nel 1953 introdusse l’argomento
al mondo accademico attraverso il suo lavoro “Social Responsibilities of the Businessman”,
focalizzando l’attenzione non tanto sulla società, ma sugli imprenditori, le cui decisioni portano
a delle esternalizzazioni da tenere in considerazione. La teoria fu subito apprezzata dagli
studiosi inducendo alla nascita di una vasta letteratura ed oggi, passato oltre mezzo secolo, si
può notare che le più grandi aziende adottano politiche sulla RSI divenute, ormai, un imperativo
per il successo e la massimizzazione dei risultati. Il primo capitolo prosegue ripercorrendo le
tappe più importanti della CSR, evidenziando: gli studi di Davis (1960, 1967 & 1970) che
individua una correlazione tra RSI e potere dell’impresa, più è forte quest’ultimo e maggiore
7
sarà la responsabilità; il lavoro di Johnson (1971), che estende il perimetro della CSR con la
teoria della massimizzazione dei risultati non più a favore degli azionisti, ma comprendente
anche altri attori (considerata l’antenata della famosa Stakeholder Theory di Freeman); la
piramide di Carroll, che suddivide la CSR su quattro dimensioni: responsabilità filantropica,
etica, legale ed economica. Nella seconda parte si affronta lo sviluppo della rendicontazione
non finanziaria, culminata nell’emanazione della Direttiva UE 2014/95 che riconosce il
crescente bisogno, da parte degli stakeholder, di una rendicontazione che vada oltre i classici
dati economico-finanziari e includa aspetti ambientali, sociali e di governance (ESG),
favorendo la comprensione della reale performance dell’impresa, delle sue prospettive e dei
suoi rischi. Si illustra poi la nascita dell’Integrated Reporting: unico documento, sintetico e
trasparente, che illustra come la strategia, la governance, le performance e le prospettive di
un’organizzazione nel contesto del suo ambiente esterno, portino alla creazione di valore a
breve, medio e lungo termine. L’obiettivo del Framework è di diventare un punto di riferimento
internazionalmente riconosciuto e la suddetta Direttiva rappresenta una grande opportunità per
riuscirci; però, sarà necessario superare le difficoltà nella redazione nonché
nell’implementazione, in quanto il report è solo l’atto conclusivo di un processo che porta ad
un cambiamento radicale nell’azienda e infatti si parla di Integrated Thinking.
Il secondo capitolo verte sul passaggio dalla Corporate Social Responsibility al Creating
Shared Value, considerato necessario da Porter in quanto, la prima, non ha raggiunto i risultati
desiderati in rapporto agli anni di applicazione.
Inoltre, la recente crisi ha portato l’opinione pubblica a puntare il dito contro le aziende,
ree di fare business senza morale e sulle spalle della comunità e accusate di essere la causa di
molteplici problemi ambientali, sociali ed economici; ad esempio le grandi banche americane
hanno promosso prodotti finanziari insostenibili che si sono rivelati economicamente e
socialmente devastanti, pur dichiarandosi socialmente responsabili perché avevano programmi
di beneficienza (Porter & Kramer, 2011). Attualmente, il sistema capitalistico è sotto assedio
(Porter & Kramer, 2011).
Dunque, azienda e società si sostengono ed influenzano a vicenda; ogni attività della
catena del valore porta a delle esternalità, al contempo le condizioni della comunità impattano
sulla performance aziendale. Di certo non si sostiene che tutti i social issues debbano, e
possano, essere risolti dall’azienda, anzi, è necessaria una valutazione degli stessi per
8
canalizzare l’attenzione solo su alcuni, privilegiando quelle questioni sociali dove si è realmente
efficaci ed in grado di massimizzare lo Shared Value.
Successivamente si illustra, nel dettaglio, come si crea valore condiviso attraverso tre
livelli: Riconcepire prodotti e mercati, Ridefinire la produttività nella catena del valore,
Facilitare lo sviluppo di cluster locali (Porter & Kramer, 2011).
Nonostante il notevole impatto degli studi di Porter e Kramer, non sono mancati dei
giudizi negativi illustrati nel terzo capitolo, che possono essere raccolti su quattro punti (Crane
et al., 2014):
• Mancanza di originalità;
• Trade-off tra obiettivi economici e sociali, e relativi problemi, non analizzati;
• Compliance data per scontata;
• Concezione superficiale del capitalismo nella società.
L’elaborato evidenzia anche i limiti della Corporate Social Responsibility che hanno
portato al fallimento della stessa (Visser, 2011). Molte aziende hanno attivato la CSR solo per
rispondere alle pressioni esterne o per allinearsi ai competitor, ma senza crederci veramente e
senza stabilire una connessione con la strategia.
Infine, come esempio pratico, si espone il case study di Telecom Italia, impegnata da oltre
un ventennio ad analizzare la propria performance di sostenibilità, con la pubblicazione del
primo Bilancio di Sostenibilità nel 2001, che ha raccolto la sfida della creazione del valore
condiviso nel 2014 portando a termine, nell’esercizio successivo, il passaggio da CSR a CSV.
In particolare si illustra in che modo il Gruppo ha sviluppato il proprio modello, quali sono stati
i progressi fatti ed i risultati raggiunti; concludendo con delle riflessioni nate grazie ad un
confronto con l’azienda stessa, in particolare sulla funzione di Sustainability Reporting,
Monitoring & Relationship di TIM.
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La scelta è caduta sul Gruppo Telecom per una serie di ragioni: in primis, perché viene
considerata un’azienda pioniera della sostenibilità, che ha saputo comprendere questa nuova
opportunità trasformandola in un’occasione per migliorare il posizionamento competitivo e
aumentare i propri profitti creando anche valore sociale; la sensibilità verso tali tematiche viene
risaltata ancor di più pensando alle aziende italiane con un modello CSV, come Enel, Snam,
Gruppo Hera e Sanofi, tutte realtà con un core-business ad alto impatto ambientale e che meglio
si presta ad un’integrazione con le politiche di valore condiviso. Dunque, è chiaro che TIM non
adotta queste pratiche a scopo di marketing, ma perché è davvero convinta in ciò che fa. Lo
conferma anche la decisione di integrare gli SDGs (Sustainable Development Goals) con la
strategia.
Inoltre opera in un contesto molto particolare, il settore delle telecomunicazioni, oltre ad
essere strategico per lo sviluppo socio-economico del Paese, è passato dal monopolio alla
privatizzazione e liberalizzazione arrivando ad un’iper-competizione tra poche grandi
compagnie che si dividono un mercato, con un numero di clienti ormai stabile e con ricavi in
diminuzione
1
, nonostante gli ingenti investimenti. Considerando tutti questi fattori l’obiettivo
di crescere e aumentare il proprio profitto risulta difficile da raggiungere, ma grazie al CSV si
aprono molte opportunità per soddisfare nuovi bisogni, acquisire efficienza, creare
differenziazione ed espandere i mercati (Porter & Kramer, 2011).
Infine, TIM risulta essere all’avanguardia per la comunicazione del proprio impegno,
utilizzando principalmente il sito Web aziendale ed integrandolo con le pagine social dove
illustra i propri obiettivi, la performance, le attività, la governance e quant’altro, tenendo
sempre informati tutti gli stakeholder. Il Gruppo si è piazzato al terzo posto nella classifica
stilata da Lundquist nella settima edizione del CSR Online Awards (Giugno 2017
2
), nell’anno
precedente si posizionò al primo posto, che analizza e valuta le aziende europee per l’utilizzo
dei canali digitali per informare e ingaggiare i propri stakeholder.
1
Nel 2015 i ricavi del mercato italiano sono stati pari a 31,9 miliardi di euro, in diminuzione dell’1,5% sul 2014
(-500 milioni di euro) e del 21,4% sul 2011 (8,7 mld in meno). (Mbres TLC Annuario R&S 2016-Principali
operatori delle telecomunicazioni https://www.mbres.it/sites/default/files/resources/rs_Focus-TLC-2016.pdf).
2
https://lundquist.it/wp-content/uploads/2017/11/CSR_OA_2017_interattivo-1.pdf
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CAPITOLO 1. Corporate Social Responsibility ed evoluzione della
rendicontazione non finanziaria
1.1 Introduzione
In questo primo capitolo si evidenziano i momenti storici più importanti e l’evoluzione
della Corporate Social Responsibility e della rendicontazione non finanziaria in generale. Molti
studiosi hanno dedicato anni di lavoro favorendone la nascita e lo sviluppo, ma è tutt’ora un
argomento in costante mutamento ed ancora oggi è oggetto di studi nonché fonte di discussioni.
La Responsabilità Sociale d’Impresa
3
è stata definita nel Libro Verde della Commissione
Europea, nel 2001, come “l’integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali e ambientali
delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate”
4
,
successivamente è stata data una versione più sintetica ed olistica, ovvero la RSI come “la
responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società”
5
.
È quindi chiara la difficoltà nel fornire una definizione inequivocabile, date le diverse
viste sulla funzione delle aziende e sull’impatto delle stesse sulla creazione del valore.
Nel corso del capitolo si analizzano anche chiavi di lettura alternative che hanno portato
a degli scontri tra le differenti scuole di pensiero, contribuendo all’evoluzione della CSR e di
tutte le teorie affini.
1.2 Storia ed evoluzione della CSR
I primi veri contributi teorici sull’argomento risalgono intorno agli anni ’50, ma già dalla
seconda metà dell’Ottocento si registrano orientamenti anticipatori del concetto di
responsabilità sociale attraverso le prime iniziative filantropiche per fronteggiare i gravi
problemi ambientali e sociali con l’impegno di parte dei propri profitti. Henry Ford, ad esempio,
3
Cosiddetta RSI.
4
Commissione delle Comunità Europee, Bruxelles, 18/07/2001, COM (2001) 366 definitivo, Libro verde:
“Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”.
5
Commissione Europea, Bruxelles, 25/10/2011, COM (2011) 681 definitivo, “Al consiglio, al comitato economico
e sociale europeo e al comitato delle regioni – Strategia rinnovata dell’UE per il periodo 2011-14 in materia di
responsabilità sociale delle imprese”.
11
attuò il programma “cinque dollari al giorno di paga”
6
che, nel 1914, rappresentava un salario
superiore al doppio della media, inoltre introdusse la settimana corta: turni di lavoro che
andavano dal lunedì al venerdì, offrendo maggior tempo libero.
Il padre della moderna CSR può essere considerato Bowen. Nel 1953, introdusse
l’argomento al mondo accademico attraverso il suo lavoro “Social Responsibilities of the
Businessman”, dove si chiede: «What responsibilities to society may businessman reasonably
be expected to assume?» focalizzando l’attenzione non tanto sulla società, ma sugli
imprenditori, le cui decisioni portano a delle esternalizzazioni positive e negative e sono,
necessariamente, da tenere in considerazione. Inoltre l’autore dà la prima storica definizione di
responsabilità sociale come “l’obbligo degli uomini d’affari di seguire le politiche, prendere
decisioni, o seguire le linee d’azione in linea con gli obiettivi e i valori della società”
7
. La
conseguenza, secondo lo studioso, è che i manager comprendendo l’entità del loro potere
decisionale e del relativo impatto, tengano un comportamento eticamente e moralmente
accettabile ed in linea con le politiche e i valori della società: l’impresa, quindi, assume un
atteggiamento da “buon cittadino”.
Sulla scia di questa nuova corrente di studi, Davis (1960, 1967 & 1973) trova il punto di
partenza della responsabilità sociale dove finiscono gli obblighi legali: «un’azienda non può
dirsi socialmente responsabile se si attiene ai minimi requisiti di legge: è quanto ogni buon
cittadino dovrebbe fare». Inoltre, collega la CSR al potere dell’impresa stessa: più è forte
quest’ultimo e maggiore è la responsabilità.
Anche il Comitato per lo Sviluppo Economico, il CED, pubblica uno studio (1971)
sostenendo l’importanza della relazione tra business e bisogni della comunità in cui l’impresa
opera, la quale deve considerare e rispettare le aspettative della società. L’eccezionalità di
questo lavoro la riveste la composizione del CED, in quanto formato da studiosi, imprenditori
e manager, ciò evidenzia la maggior attenzione da parte del mondo delle imprese a questo tema.
6
Fonte online: http://www.treccani.it/enciclopedia/henry-ford_(Enciclopedia-dei-ragazzi)/
7
Bowen, H.R., Social Responsibilities of the Businessman. New York: Harper & Row, 1953.
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Il CED schematizza la CSR graficamente, attraverso tre cerchi:
• Il cerchio blu indica la responsabilità di base: svolgere il core-business della
società attraverso produzione, posti di lavoro, vendita di beni o servizi;
• Il cerchio verde indica la responsabilità per l’esercizio dell’attività: le politiche
aziendali devono seguire i valori e gli obiettivi della comunità;
• Il cerchio arancione indica la responsabilità dell’impresa a migliorare le
condizioni e il benessere della collettività, superando i normali obblighi
economici e legali.
Gli studi negli anni successivi vanno a rafforzare, ma soprattutto ad estendere il perimetro
della CSR. Johnson (1971) scosse l’intero mondo accademico introducendo l’idea della
“massimizzazione dei risultati” non più esclusivamente a favore degli azionisti, ma
comprendente anche altri attori
8
, i cosiddetti stakeholder.
Arrivati a questo punto, la scuola di pensiero della CSR si pone nettamente in contrasto
con le teorie liberiste capeggiate dall’economista Milton Friedman, il quale criticò aspramente
(1962, 1970) la responsabilità sociale etichettandola come inutile e dannosa: «few trends could
so thoroughly undermine the very foundations of our free society as the acceptance by
corporate officials of a social responsibility other than to make as much for their stockholders
8
Possiamo considerarla l’antenato della Stakeholder Theory formalizzata da Freeman nel 1984.
Figura 1. Modello dei tre cerchi concentrici
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as possible»
9
. Il premio Nobel evidenzia che l’unica responsabilità dell’impresa è la
massimizzazione della ricchezza degli azionisti, tuttavia deve rispettare la legge e tenere un
comportamento civile.
Nonostante le critiche, gli studi sull’argomento procedono e la letteratura diventa sempre
più ampia; un contributo importante viene dato da Archie Carroll (1979, 1991), il quale scinde
la CSR su quattro livelli e la raffigura nella celebre piramide:
• Responsabilità filantropica: attività a totale discrezione dell’azienda, ove, a
differenza della categoria sottostante, non ci sono attese da rispettare. La società
è spinta dalla sua volontà di impegnarsi a migliorare le condizioni della comunità
dove opera;
• Responsabilità etica: tutte quelle azioni che l’azienda si impegna ad eseguire e
che vanno oltre il rispetto delle leggi, ma seguono dei principi morali, etici e valori
della stessa collettività soddisfacendo, quindi, le aspettative che quest’ultima
ripone nell’impresa stessa;
• Responsabilità legale: evidenzia l’importanza del rispetto delle leggi e delle
norme giuridiche ovvero il terreno dove l’azienda può operare in maniera onesta;
• Responsabilità economica: legata al valore dei beni e servizi prodotti che vanno a
soddisfare i bisogni della società e degli azionisti.
9
Friedman M, Capitalism and Freedom. Chicago: University of Chicago Press, 1962, p. 112.