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Introduzione
Robert Lewis Balfour Stevenson, poi francesizzato Louis, nacque nel 1850 ad Edimburgo e fu al
suo tempo ed è tuttora uno dei più grandi scrittori dell’Ottocento. Le sue opere e il suo modo di
scrivere hanno avuto una forte influenza su molti scrittori contemporanei e successivi, come avremo
modo di vedere, e su molti critici. Ha avuto un rapporto molto complicato col padre, che ha
influenzato molte sue scelte di vita, ma ha avuto un ottimo rapporto con gli scrittori suoi
contemporanei che ha o lo hanno influenzato, e ha passato gli ultimi anni della sua vita in un’isola
del Pacifico, Samoa, dove è morto a soli quarantaquattro anni e dove è tuttora sepolto. Le sue opere
sono state campo fertile per la critica fin dalla loro pubblicazione.
Lionel Johnson considera Stevenson “a wandering Scot in the literary sense
1
”: i viaggi di Scot
erano per lo più viaggi della mente, mentre Stevenson viaggiava sul serio, portandosi dietro le sue
impressioni, i suoi pensieri, i suoi sentimenti e le sue riflessioni. Egli è grato a Stevenson per aver
viaggiato e creato delle opere “zest and zeal, so sane and indomitable and strong
2
”, nelle sue pagine
c’è tutto. È un romantico, ama l’avventura, osserva il mondo in ogni sua sfumatura e ha un genuino
entusiasmo per ogni aspetto della vita. Ovunque vada impara ad amare la natura e i luoghi in cui si
trova e a vedere con gli occhi delle persone che incontra, “try to read their hearts, and picture them
[…] naturally
3
”. La maggior parte della critica si sofferma sul suo stile, chi apprezzandolo, chi
ritendendolo troppo ampolloso e superato, ma per Johnson, grazie a questo suo stile non calcolato,
che entra nel vivo delle cose, egli ci porta “not into the landscape and setting of men’s lives, but into
their secret
4
”, donandoci una visione del mondo e degli uomini non superficialmente così come
appare ma con una “honest e sincere humanity
5
”.
Per Gavin Ogilvy invece Stevenson non è etichettabile, è un “not to be labelled novelist
6
”, poiché è
versatile, vaga tra i meandri della letteratura senza una meta precisa.
La critica, a lui contemporanea ma soprattutto posteriore, rimane più o meno unanime
nell’affermare che Stevenson abbia copiato lo stile dai grandi maestri che lo hanno preceduto e a cui
1
Maixner, P., Robert Louis Stevenson: The Critical Heritage, Routledge, Great Britain, 1971, pag. 418.
2
Ibid.
3
Ibid., pag. 419.
4
Ibid., pag. 421.
5
Ibid.
6
Ibid., pag. 324.
4
lui si è ispirato – come Montaigne, Scot, Defoe, Sterne – e che l’unica forma di originalità sia stata
quella di affrontare temi e argomenti di cui già tanto era stato detto con una prospettiva nuova. Ma il
trucco era proprio quello, “to utter thoughts which maybe have been uttered a thousand time befor,
in a manner which is new and striking, to speak common things in a way of your own, […] to acquire
in short a style
7
”. E per avere un proprio stile bisogna studiare tanto e a lungo la letteratura, per cui
piuttosto che affermare che Stevenson abbia copiato dai suoi predecessori dovremmo dire che sia
partito dallo stile dei grandi scrittori che lo hanno preceduto per giungere a creare il suo. “To be a
great stylist, after all, one must have great thoughts – and Mr. Stevenson’s thinking is merely
ingenious and graceful
8
”.
Quando i suoi saggi comparvero la prima volta negli anni Settanta dell’Ottocento, la sua era una
voce nuova in una società abituata alle riviste trimestrali, aveva un punto di vista sempre diverso, ma
le vere novità furono che si indirizzava direttamente ai suoi lettori e che non era importante ciò che
diceva ma come lo diceva; “his readers shall look first to his manner, and only in the second place to
his matter
9
”. Il suo stile era opposto e si opponeva alle “complexity, close reasoning, dogmatism,
earnestness and emphasis
10
” della società del suo tempo; non sorprende dunque che la gran parte della
critica si sofferma sul suo stile, è la cosa che maggiormente salta all’occhio e colpisce.
Come vedremo, la critica fu perlopiù positiva fintanto che Stevenson era in vita, per diventare man
mano sempre più negativa fino a raggiungere un vero e proprio ostracismo verso la metà del XX
secolo. Questo è dato dal fatto che per chi conosceva lo scrittore era impossibile scindere la sua figura
da quella dell’uomo, per tanto le opere, che fossero saggi, racconti o romanzi, venivano considerate
all’interno del contesto in cui erano stati scritti, tenendo sempre presente le vicende personali e di
salute di Stevenson. Nel momento in cui la figura dello scrittore venne meno, le opere vennero lette
per quelle che erano: esercizi di stile poco originali in cui molti vedevano una copia di quello di
scrittori precedenti, troppo distanti dal gusto che si stava sviluppando e ormai superati. Stevenson
venne relegato alla narrativa per ragazzi e la sua fama rimase legata solo a Treasure Island,
adombrando completamente tutti gli altri lavori, saggi per primi. Tutt’oggi, se pensiamo a lui, ci
vengono in mente solo Treasure Island e The Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde, perché anche
7
Ibid., pag. 382.
8
Ibid.
9
Ibid., pag. 161.
10
Dury, R., “Stevenson’s Essays: Language and Style” in Dryden, L., Watson, R., Journal of Stevenson
Studies Vol. 9, University of Stirling, 2012, pag. 51.
5
a scuola, da quando fu reintrodotto tra i canoni letterari agli inizi del XXI secolo, si studiano solo
questi due romanzi, considerati adesso capolavori e annoverati tra i classici della letteratura inglese.
Probabilmente a contribuire a questo triste declino e di cui si rammarica Ambrosini fu la sua
scomparsa improvvisa, che mise fine alla sua produzione creativa e non diede modo al suo pubblico
di capire appieno la sua poetica, le sue teorie estetiche, lasciandoci una produzione di cui pochi
capivano davvero il significato. Non a caso è rimasto a legato ai due capolavori sopracitati piuttosto
che a Kidnapped o The Master of Ballantree, che a mio avviso da un punto di vista stilistico sono più
eccelsi di The Strange Case: sono due opere tutto sommato semplici da comprendere, in cui i
personaggi e le loro intenzioni sono ben chiare fin dal principio, in Treasure Island ognuno riusciva
(e riesce tuttora) a rivedersi fanciullo, a rivivere le proprie fantasiose infantili avventure e ad evadere
dalla quotidianità in luoghi esotici pieni di pirati e tesori sepolti, mentre in The Strange Case ognuno
rivedeva il sé stesso del presente nella società che lo circondava, con le contraddizioni e gli orrori che
si nascondevno negli angoli bui e nel buio di noi stessi. Due opere che hanno una profondità facile da
cogliere e che non a caso lo hanno consacrato al pubblico e alla critica di tutto il mondo, primi fra
tutti l’America.
Stevenson è uno scrittore semplice e complesso al tempo stesso: semplice perché le sue idee, le
sue visioni, le sue teorie estetiche sono chiaramente e limpidamente espresse nelle sue pagine e nelle
sue lettere, la sua idea del mondo e della vita sono lì sotto gli occhi di tutti; complesso perché è
riuscito a cogliere la vera essenza delle cose, la vera natura delle cose e delle persone, la loro dualità
e le loro diverse sfaccettature. Un’essenza che purtroppo la critica novecentesca non è stata in grado
di cogliere.
La mia tesi si occuperà di analizzare le teorie estetiche di Stevenson all’interno delle sue opere, a
partire da alcuni saggi pubblicati tra il 1882 e il 1892 e poi nei due classici Treasure Island e The
strange case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde. I saggi che ho preso in esame sono:
- A Gossip on Romance (1882);
- A Note on Realism (1883);
- On Style in Literature: Its Techincal Elements (1884);
- A Humble Remostrance (1885);
- The Lantern-Bearers (1887);
- Pulvis et Umbra (1888);
- Letter To A Young Gentleman Who Proposes To Embrace The Career of Art (1892).
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1
Uno sguardo sull’Estetica
Il termine ‘estetica’ viene dal greco α ἴ σ ϑ η σ ι ς (aisthesis) e vuol dire ‘sensazione’, ‘percezione’,
‘sensibilità’. Il termine fu applicato per la prima volta da Platone e Aristotele a proposito di un
dibattito sull’arte e sul suo scopo. Sono stati i primi a porre il problema del rapporto tra realtà e
arte. Per loro la realtà non doveva essere imitata in maniera meccanica e integrale, poiché da un
lato non tutto è rappresentabile, dall’altro il processo creativo è anche un processo di
interpretazione dell’artista. Platone ha una opinione negativa dell’arte, in quanto sostiene che sia
solo un’imitazione di un’imitazione, non della realtà ma dell’idea o di una realtà ideale, che
allontana quindi l’uomo dalla verità: se è difficile cogliere la verità partendo dalla realtà, è ancora
più difficile partendo da una copia della realtà. Anche per Aristotele l’arte è imitazione, ma per lui
è un’imitazione creativa, perché l’artista non si limita a copiare ma rielabora in maniera personale.
Per lui l’arte è un piacere puramente estetico. Il vero soggetto della rappresentazione poetica non
è però il vero, ma il verosimile. Nella sua Poetica definisce i quattro criteri e la struttura che un
poema dovrebbe avere secondo lui: il mito, ossia il tema centrale da narrare; l’etica, ossia il ritratto
morale e psicologico dei personaggi; la dianoetica, vale a dire l’impianto culturale del poema,
ossia tutti quei fatti che l’autore deve conoscere per ambientare la storia che ha deciso di
raccontare; il lessico con cui affrontare la trattazione, ossia il linguaggio da adottare per
comunicare con il pubblico cui si prevede sia destinato il poema. Quindi se da un lato Platone
condanna l’arte perché suscita passioni e distrae, Aristotele la esalta perché le passioni che suscita
liberano l’animo dalle tensioni.
Ma l’estetica in quanto tale, con il termine come lo intendiamo oggi, nasce propriamente nel
1735, quando il filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten nel saggio Meditationes
philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus la nomina per la prima volta, e afferma che “la
filosofia poetica è la scienza che dirige verso la perfezione l’orazione sensitiva
11
”. È difficile dare
una definizione precisa di cosa sia l’estetica, in quanto il dibattito sul suo significato e sui suoi
confini prosegue ancora oggi, ma in maniera generica possiamo dire che è la conoscenza della
sensibilità, lo studio del bello nelle sue varie forme, la teoria dell’arte, il punto di raccordo dei
caratteri sensuali, una “disciplina filosofica battezzata da Baumgarten, fondata filosoficamente da
Kant e sistematizzata sotto la forma di filosofia dell’arte da Hegel
12
”. A partire dal XVII secolo la
11
Franzini, E., Mazzocut-Mis, M., Breve Storia dell’Estetica, Bruno Mondadori, 2003, pag. VIII.
12
Griffero, T., Storia dell’Estetica Moderna, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2012, pag. 11.
7
filosofia comincia ad interessarsi all’arte, vista come un’imitazione della realtà, fino ad arrivare al
XVIII secolo in cui i filosofi vedevano l’arte come un qualcosa non di astratto ma di concreto,
poiché le arti differiscono tra di loro in virtù delle varie tecniche utilizzate nel processo imitativo.
“L’arte è infatti, prima ancora di essere definita come ‘bella’, la modalità originaria
dell’interpretazione della natura da parte dell’uomo
13
”, e i problemi filosofici dell’estetica si
modellano mano a mano che cambiano le esigenze delle arti. Kant, per esempio, pur non ritenendo
l’estetica uno strumento di conoscenza, fa riconfluire in essa i due filoni di pensiero sull'arte e sul
bello, fondendo perciò insieme la dottrina della sensibilità antica e il discorso settecentesco
sull'arte e sul sentimento del bello (e del sublime, inteso da un lato come “dispiacere per
l’incapacità della nostra immaginazione sensibile a contenere la grandezza di uno spettacolo
naturale
14
” e dall’altro come sentimento di piacere), gettando di fatto le basi dell'estetica moderna.
Tra il Cinque e il Seicento in tutta Europa si susseguono cambiamenti e crisi politico- religiose
e sociali; a questo periodo appartengono figure intellettualmente rivoluzionarie (e quindi
considerate scomode) come Giordano Bruno, Francis Bacon e soprattutto René Descartes, che col
suo trattato Discours de la Methode, delinea la nuova mentalità metodologica del sapere, ponendo
la coscienza come fondamento della verità (ricordiamo il famoso postulato “Cogito ergo Sum”).
Questo significava che ogni uomo può pervenire alla verità, e pose le basi per il razionalismo e
inaugurò la concezione meccanicistica della realtà naturale, vista come “pura materia estesa in
meccanico movimento
15
”. La letteratura e le arti di questo periodo, proprio a causa di queste idee,
vengono fortemente represse e censurate. L'Umanesimo e il Rinascimento si affermano in
Inghilterra con notevole ritardo rispetto agli altri Paesi europei e sono profondamente condizionati
dalla Riforma protestante e dallo scisma anglicano. La fioritura degli studi classici dell'Umanesimo
favorisce l'affermazione di nuovi ideali letterari e di nuove concezioni della realtà. Le poetiche
letterarie ed estetiche cinquecentesche ruotano tutte intorno alla riscoperta Poetica di Aristotele e
al rapporto tra realtà imitata e realtà da imitare, cioè tra realtà e letteratura. La realtà non va imitata
integralmente e meccanicamente, e la letteratura tratta quindi il verosimile piuttosto che il vero.
Le poetiche seicentesche vanno nella direzione opposta rispetto a quelle del secolo precedente,
prendono le distanze dalla verosimiglianza predicata da Aristotele e opponendole una concezione
edonistica dell’arte: l’arte deve intrattenere e meravigliare, creare stupore attraverso il linguaggio.
13
Maixner, P., Robert Louis Stevenson: The Critical Heritage, op. cit., pag. 18.
14
Ibid., pag. 24.
15
Guglielmino, S., Grosser, H., Il Sistema Letterario. Guida alla storia letteraria e all’analisi
testuale, vol. Cinquecento-Seicento, Principato, Milano, 1994, pag. 31.