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CAPITOLO I
LE AZIENDE NON PROFIT: CARATTERISTICHE GENERALI E
NORMATIVA DI RIFERIMENTO.
1.1. Il non profit italiano e la difficile definizione.
Il settore non profit identifica organizzazioni che promuovono servizi di utilità collettiva
e comprende tante anime diverse, sviluppatesi separatamente; in ogni caso, nonostante
le importanti differenze, sono tutte organizzazioni accomunate da una peculiarità: non
distribuiscono a soci o dipendenti gli eventuali profitti derivanti dalla gestione ma li re-
investono al loro interno, per aumentare la quantità e migliorare la qualità dei servizi
erogati.
Le espressioni che vengono utilizzate nel nostro Paese per definire le organizzazioni
senza fini di lucro e che operano con obiettivi di utilità sociale sono molteplici e la
scelta di utilizzo dell’una piuttosto che l’altra è spe sso motiva ta da ll’ inte nzione di
sottolineare una specificità o di mettere in risalto un aspetto che si ritiene importante.
Il termine “non profit”, preso in prestito dalla legislazione statunitense, ha cominciato
ad essere utilizzato ed ad affermarsi solo in tempi r e c e n t i , p er t e n t a re d i d a r e un
carattere unitario alla molteplicità di termini utilizzati. Tra gli altri termini
principalmente in uso nel corso degli anni, per definire le organizzazioni che
perseguono il benessere della collettività, trova posto l’espressione “volontariato”. Essa,
comincia ad essere utilizzata agli inizi degli anni O t t a n t a n o n p e r r i fe r i r s i a d u n a
specifica tipologia di organizzazione, ma piuttosto ad un “atteggiamento individuale o
collettivo nei confronti dei bisogni sociali”, soprattutto nei confronti degli anelli più
6
deboli della società
4
.
Il volontariato venne enfatizzato al punto da invocarlo come risposta risolutiva alle
difficoltà del sistema del welfare pubblico, alla lentezza della burocrazia e all’egoismo
del mercato.
La caratteristica fondamentale dell’azione volontaria è la gratuità e “l’azione del
volontariato tende a concentrarsi verso le aree di bisogno più classiche della
solidarietà, come la sanità e i servizi sociali”
5
.
In seguito prese piede il concetto di “associazionismo”, di gran lunga più generico del
precedente in quanto fa riferimento al vasto mondo delle associazioni regolate dal
codice civile e attive in quasi tutti gli ambiti (dallo sport alla cultura, dalla religione ai
servizi sociali).
L’associazione indica quel vasto insieme di organizzazioni che nascono dall’iniziativa
autonoma della società civile: si costituisce un’associazione ogni qualvolta un gruppo di
persone si organizza per svolgere un’attività che non abbia scopo di lucro ( ciò non
implica che essa debba avere particolare attenzione al sociale, tipica invece del concetto
di volontariato)
6
.
Va sottolineato che esistono spesso delle aree di sovrapposizione tra le due definizioni,
sia perché molte associazioni sono prevalentemente costituite da volontari, sia perché la
forma giuridica tipica delle organizzazioni di volontariato è proprio quella
dell’associazione, regolata dal codice civile.
Intorno alla metà degli anni Novanta, quando il settore non profit italiano andava
lentamente acquisendo sempre più marcati caratteri imprenditoriali, venne riconosciuta
4
G. P. BARBETTA, F. MAGGIO, “Nonprofit”, Il Mulino, Bologna, 2008, p. 11.
5
G. P. BARBETTA, F. MAGGIO, Op. cit., p. 13.
6
G. P. BARBETTA, “Il settore non profit italiano. Occupazione, welfare, finanziamento e regolazione”,
Il Mulino, Bologna, 2000.
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la prima vera forma di “impresa sociale”, che cerca di far conciliare la pratica della
solidarietà e del diritto con l’esercizio di un’attività economica, volta a produrre beni e
servizi che, non solo possano essere distribuiti gratuitamente, ma anche venduti a
soggetti, pubblici o privati. Da allora l’esercizio di attività volta alla produzione di
servizi di utilità collettiva non andò più in contraddizione con l’esercizio di attività
d’impresa
7
.
A fianco delle definizioni che identificano una o più delle diverse realtà che
costituiscono il settore non profit italiano, negli anni Novanta sono stati introdotti altri
termini, allo scopo di unire le diverse anime del settore, evidenziandone le principali
caratteristiche comuni, e a separarle dal resto dell’economia. Le più comuni sono: “terzo
settore”, “privato sociale” ed “economia civile”.
L’espressione “terzo settore” serve a distinguere le organizzazioni oggetto del nostro
studio, da quelle del mercato (primo settore) o dello Stato (secondo settore) a riprova di
quanto risulti forte il carattere residuale assegnatogli in un passato non troppo lontano;
si esplicita quindi l’impossibilità di collocarlo all’interno dei due settori in cui si è soliti
classificare le attività economiche: quelle svolte in forma privata, contraddistinte di
norma dalle finalità profittevoli, ed il settore pubblico, segnato dalla gratuità nell’agire.
Secondo Zamagni, “terzo settore è espressione tipicamente errata (lo Stato e il mercato,
che dovrebbero essere gli altri due, non sono settori!) e culturalmente equivoca perché
accredita l’idea di residualità e di supplenza: dove non può arrivare lo Stato e dove non
ha convenienza ad operare l’impresa privata, lì si crea lo spazio per il non profit”
8
.
“L’espressione privato sociale pone l’accento sul fatto che i soggetti di cui parliamo
7
A. HINNA, “Gestire e organizzare nel terzo settore – Soggetti, strategie, strumenti”, Carocci Editore,
Roma, 2005.
8
S. ZAMAGNI, “Dal non profit all’economia civile”, in “Le aziende non profit tra Stato e mercato” Atti
del XVIII convegno AIDEA, Clueb, Bologna,1995, p. 207.
8
hanno certamente carattere privato, ma […] è un privato con forti connotazioni sociali,
le quali in qualche modo sospingono questi soggetti verso lo Stato che, per definizione,
ha contenuto sociale. Insomma, si tratta di entità che si pongono in mezzo tra lo Stato
(tipica espressione del sociale) e le imprese (tipica espressione del privato)”
9
.
Il termine più generale è quello di economia civile: “economia” perché le organizzazioni
non profit producono beni (o forniscono servizi), “civile”, perché il principio che
guiderebbe la vita delle organizzazioni sarebbe quello della reciprocità.
Nel proseguo si adotterà l’espressione non profit, individuando con essa le molteplici e
difformi organizzazioni operanti in molti campi del s o c i a l e , c o n f i n a l i t à d i n a t u r a
filantropica o solidaristica.
Le caratteristiche funzionali – operative, secondo la letteratura internazionale
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, utili ad
identificare le organizzazioni del non profit sono:
sono formalmente costituite;
hanno natura giuridica privata;
si autogovernano e quindi non sono sottoposte ad alcun controllo esterno;
non posso distribuire profitti derivanti dalle attività ai soci e dirigenti;
sono volontarie, sia nel senso che l’adesione non è obbligatoria, sia perché sono in
grado di attrarre una certa quantità di lavoro gratuito;
sono aconfessionali e apartitiche;
devono avere finalità di utilità sociale;
devono avere una struttura democratica.
9
P. CAPALDO, “Appunti sul non profit”, in “Le aziende non profit tra Stato e mercato”, Atti del XVIII
Convegno AIDEA, Clueb, Bologna, 1996, p. 27.
10
Il primo nucleo di tali caratteristiche è stato identificato dalla Johns Hopkins University (Stati Uniti), al
fine di condurre una ricerca comparativa sul non profit in diversi paesi, i cui risultati per l’Italia sono
contenuti in G. P. BARBETTA, “Senza scopo di lucro – Dimensioni economiche, legislazione e politiche
del settore non profit in Italia”, Il Mulino, Bologna, 1996.
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Le ultime due caratteristiche in particolare sono state inserite per adeguare la
descrizione e le caratteristiche del non profit alle esperienze europee; la democraticità
interna e l’utilità sociale, infatti, fanno parte dei criteri richiesti alle organizzazioni che
intendono usufruire dei benefici previsti dal D. Lgs. 4 dicembre 1997, n. 460
disciplinante le ONLUS
11
e p e r p o t e r s i i s c r i v e r e a l l ’ a l b o d e l l e a s s o c i a z i o n i di
promozione sociale, ai sensi della Legge 7 dicembre 2000 n. 383.
Sono escluse quindi le organizzazioni informali, perché prive di uno statuto, di un atto
costitutivo o di qualunque altro documento che regoli l’accesso dei membri, i loro
comportamenti e le relazioni reciproche.
In Italia, dell’espressione “settore non profit” è stata recentemente fornita una
definizione strutturale - operativa, utilizzata dall’Istat per la realizzazione, nel 1999, del
primo censimento delle organizzazioni presenti nel territorio.
Secondo la suddetta definizione, rientrano nel settore non profit tutte le organizzazioni
private che sono sottoposte al vincolo della non distribuzione degli utili; in funzione di
ciò, dovrebbero essere escluse le cooperative sociali, in quanto violerebbero il sopra
citato vincolo di non distribuzione degli utili ma, come gli altri istituti di ricerca, anche
l’Istat ha derogato alla regola generale, per via della loro finalità e della parziale pratica
della distribuzione di una quota minima di utili, includendo loro nel non profit
12
.
Rientrano invece a pieno titolo nel campione: sindacati, associazioni di categoria etc…
Il campione così determinato è stato poi distinto tra attività “market” e “non market” in
ragione dei proventi derivanti dalle attività di vendita di beni e servizi: se questi
superano il 50% delle spese dell’organizzazione, allora essa si definisce market, se
inferiori al 50% non market.
11
Organizzazioni non lucrative di utilità sociale.
12
Le cooperative sociali, regolate dalla legge 381/1991, pur essendo giuridicamente identiche alle altre
cooperative, sono quindi in genere considerate parte del settore non profit italiano.
10
Sebbene il censimento del non profit, svolto dall’Istat in base a quanto detto sopra, sia
stato uno strumento fondamentale, che ha permesso di avere dati esatti sull’entità e sulla
natura di questo settore, è evidente che l’assenza di lucro è spesso insufficiente a
definire una realtà così complessa. Per questo motivo, la finalità solidaristica e la
democraticità delle organizzazioni costituiscono i tratti maggiormente qualificanti
13
.
1.2. Origini e sviluppo delle organizzazioni non profit in Italia.
“Il fenomeno delle organizzazioni caratterizzate da un interesse altruistico e quindi
orientate alla soddisfazione dei bisogni collettivi, in Italia, trova origini piuttosto
remote. Tali organizzazioni nascono infatti nell’età classica e si sviluppano poi nel
corso della storia, sino alle soglie dell’età moderna contemporanea”
14
.
Nel passato e in particolare sino alla fine dell’Ottocento, le istituzioni che anticiparono
il settore non profit erano rappresentate da enti, di matrice religiosa, assai spesso
cattoliche, molte delle quali frutto di una tradizione secolare che si può fare risalire al
Medioevo.
Erano le istituzioni ecclesiastiche, infatti, a monopolizzare le attività di beneficienza,
disimpegnando così lo Stato e relegando ai margini l’impegno della società civile.
L’assistenza sociale e sanitaria di matrice cattolica era fornita principalmente dalle
Opere pie, enti morali che fornivano servizi di tipo assistenziale, sanitario, educativo e
di formazione professionale, il cui patrimonio consisteva principalmente in lasciti e
donazioni accumulate nel corso dei secoli; quasi tutte le Opere pie erano sotto il
13
P. MORI, “Economia della cooperazione e del non profit”, Carocci Editore, Roma, 2008.
14
A. HINNA, Op. cit., p. 19.
11
controllo diretto delle congregazioni religiose
15
.
“L’azione sociale di queste istituzioni rispondeva ad un orientamento culturale e
sociale di tipo assistenzialista, secondo il quale questa doveva rispondere ad un dovere
morale che era proprio di chi prestava soccorso e non ad un diritto all’assistenza da
parte di chi versava in condizioni di bisogno. L’azione caritativa veniva svolta non per
eliminare la povertà, quanto allo scopo di realizzare un’azione di soccorso verso
individui qualificati da uno stato di bisogno. Sulla base di questa impostazione,
fortemente permeata di valori religiosi, l’intervento concreto si traduceva soprattutto
nella tradizionale beneficienza (il cui scopo era di operare una redistribuzione del
superfluo), nell’offerta di strutture residenziali, n e l l ’ a s s i s t e n z a d o m i c i l i a r e . L o
svolgimento di queste attività indubbiamente meritorie era finalizzato, oltre ad offrire
sollievo agli indigenti, anche all’edificazione morale dei soccorritori”
16
.
È solo negli ultimi anni dell’Ottocento che la questione sociale iniziò a portarsi al centro
dell’attenzione della classe politica in quanto iniziano ad emergere nuove problematiche
legate, ad esempio al fenomeno migratorio o all’istruzione professionale, che
determinarono una maggiore ampiezza dei bisogni sociali. Questa, ha originato quella
prima configurazione di interessi che ha dato inizio ad un periodo di conflittualità tra
Stato e Chiesa.
Intorno alla seconda metà del XIX secolo, infatti, dopo la conclusione del processo di
unificazione nazionale, l’élite laica del nuovo Stato nazionale iniziò una lunga battaglia
contro la Chiesa Cattolica, allo scopo di affermare il proprio ruolo e limitarne il potere.
Tra il 1866 ed il 1890 lo Stato italiano emanò una serie di leggi che miravano a
15
G. B. BARBETTA, “Senza scopo di lucro – Dimensioni economiche, legislazione e politiche del
settore non profit in Italia”, Il Mulino, Bologna, 1996.
16
C. RANCI, “La crescita del terzo settore in Italia nell’ultimo ventennio”, in U. Ascoli (a cura di), “Il
Welfare futuro. Manuale critico del Terzo settore”, Carocci, Roma, 1999, pp. 62-63.
12
confiscare i patrimoni di diversi ordini e congregazioni religiose ed obbligarono le
Opere pie a sottomettersi al controllo pubblico. In particolare, la Legge n. 3036 del 7
luglio 1866, portò alla soppressione di circa 1.800 istituti di matrice religiosa, nonché
alla confisca dei loro patrimoni. Gli edifici espropriati furono assegnati alle autorità
locali per ospitarvi scuole, ospedali etc…
Nel 1867, a causa dell’approvazione della Legge n 3848, altre 25.000 congregazioni
vennero spazzate via ed i loro patrimoni venduti all’asta.
Un segnale importante giunse con la legge nota come Legge Crispi
17
, approvata nel
1890, con la quale si costituì il fondamento giuridico della posizione statalista nel
campo dell’assistenza: vennero definite le Istituzioni pubbliche di assistenza e
beneficienza (Ipab), trasformando le Opere pie da istituzioni private in istituzioni
pubbliche e se ne affidò la vigilanza ai prefetti, con il compito di sottomettere le
organizzazioni di carità all’ingerenza dello Stato
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Le organizzazioni religiose conservarono comunque un certo grado di autonomia, che si
accrebbe ulteriormente nel corso del ventennio fascista (1922-1943) quando, con la
firma del Concordato del 1929, cessarono le ostilità tra lo Stato e la Chiesa cattolica:
non solo fu riconosciuto un consistente grado di autonomia di azione ma il cattolicesimo
venne dichiarato religione nazionale.
La lenta evoluzione economica e sociale dell’Ottocento diede il proprio contributo a
rendere poco rilevante l’apporto delle iniziative solidaristiche da parte di aggregazioni
private; comunque, all’interno di ristrette categorie di lavoratori specializzati, non
mancavano organizzazioni di stampo mutualistico e aggregazioni di tipo
cooperativistico aventi l’obbiettivo di ottenere beni, servizi e occasioni di lavoro più
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Legge n. 6972 del 17 Luglio 1890.
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Veniva quindi legittimato il progressivo controllo della beneficienza privata da parte dello Stato.