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Introduzione
Femminicidio. Una parola sempre più sentita, più usata, più abusata dalla
nostra società. È ovunque: sui giornali, nei programmi televisivi, sui social
network, nella pubblicità. Basta sfogliare un giornale o una rivista, accendere
la televisione, che sia il TG o “Pomeriggio 5” di Barbara D’Urso, non fa
differenza; basta anche solo fare un gesto quotidiano, come aprire la bacheca
di Facebook, scorrere tra i post, ed eccola lì la notizia della moglie accoltellata
dal marito o della fidanzata bruciata con l’acido dal suo compagno.
Così il nome, il volto, la storia di una donna entrano in un vortice mediatico,
sotto l’etichetta di femminicidio. La notizia rimbalza da un media all’altro per
giorni, mesi, a volte anni. Ricostruzioni dei fatti, interviste, colpi di scena. E la
moglie accoltellata dal marito o la fidanzata bruciata con l’acido dal suo
compagno muoiono ancora, ancora e ancora…
Di fronte a cotanto clamore mediatico mi è quindi sorta spontanea la curiosità
di indagare tale fenomeno, sì inteso come fatto sociale, ma anche, e mi
permetto a oggi di dire soprattutto, fatto mediaticamente funzionale. Così ho
tentato di comprendere i meccanismi in cui una notizia di femminicidio entra
nel vortice mediatico e questo mio lavoro vuole pertanto essere frutto di tale
ricerca. Per capire meglio mi sono avvalsa dell’aiuto di chi fa parte del circuito
dell’informazione, giornalisti professionisti che hanno accettato di sottoporsi a
mie interviste. Da una parte quindi ho cercato di rappresentare il punto di vista
dell’informazione giornalistica, dall’altra ho ritenuto utile dare voce a chi,
invece, riceve tale informazione. Sono state infatti sottoposte a un questionario
con domande relative al femminicidio e all’informazione che viene dato di
esso persone diverse per sesso, età, professione e stato sociale le cui risposte a
mio avviso hanno messo in luce quali siano i pregi e i difetti della cronaca di
femminicidio italiana. Ma ancora prima di considerare il rapporto tra media e
femminicidio ho ritenuto necessario chiarire qual è il rapporto tra società e
femminicidio e, di conseguenza, chiarire cos’è il femminicidio: da dove nasce,
dove si verifica e cosa si sta facendo a riguardo.
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Il primo capitolo, pertanto, tenta di spiegare perché si è sentita la necessità
della definizione di un termine per indicare la violenza sessista e misogina. La
guerra contro il femminicidio inizia proprio con una prima battaglia per il
riconoscimento del suo nome, in quanto dare un nome a un fenomeno significa
ammettere che tale fenomeno esiste: in tale battaglia, le eroine indiscusse sono
state Diana Russel e Marcela Lagarde grazie alle quali oggi c’è, seppur non
ancora molti ne siano consapevoli, una differenza importante tra femmicidio,
inteso come l’uccisione di una donna in quanto tale e femminicidio, ossia
qualsiasi violenza, sia di natura fisica che economica, nei confronti di una
donna perché donna. Il femminicidio, quindi, ingloba il femmicidio, termini
che, seppur con accezioni diverse, uno in senso giuridico, l’altro in senso
socio-istituzionale, vogliono sottolineare l’esistenza di una violenza, che c’è da
sempre, nei confronti delle donne per una questione di genere. E poiché alla
base di tale violenza c’è una precisa identificazione storica del ruolo della
donna, quello di madre che accudisce i figli e di moglie fedele al marito, ho
analizzato e ripercorso tale immagine in diversi ambiti, religioso, letterario e
cinematografico, al fine di comprendere come tale ruolo abbia generato una
determinata concezione di donna e abbia giustificato discriminazione e
violenza, ma come anche allo stesso tempo la donna abbia tentato di riscattarsi,
liberandosi, con più o meno successo, da questa sua parte.
Infine, il cerchio del capitolo si concluderà da dove è partito: chiarito cos’è il
femminicidio, si parlerà del conseguente impegno legislativo internazionale e
nazionale per contrastarlo. Dall’istituzione nel 1979 della CEDAW, ossia la
Convenzione per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le
donne, al riconoscimento della legge in Italia nel 2013. Ci sarà inoltre uno
sguardo particolare nei confronti del territorio ligure e delle sue iniziative,
come il tanto discusso “The Wall Of Doll” di Piazza Matteotti nel capoluogo
genovese, ancora in corso.
Nei capitoli successivi si entra invece nel cuore di tale lavoro. Sfruttando i
recenti casi di cronaca si è tentato di capire le dinamiche del femminicidio
all’interno della nera italiana. Si vedrà quindi come questo reato risulti
mediaticamente appetibile in quanto possiede tutte le caratteristiche necessarie
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per attirare l’interesse del pubblico, e, di conseguenza, vendite e ascolti. I
grandi casi di cronaca nera presentano infatti le capacità di stuzzicare l’istinto
voyeuristico del pubblico (il pubblico inconsciamente è attirato dal sangue e
dal macabro), di suscitare il meccanismo di identificazione (il pubblico è
particolarmente attratto da quei casi in cui può rispecchiarsi o in cui possa
trovare situazioni, ambienti, protagonisti familiari e vicini alla sua vita reale),
di portare al sentimento di pietas (il pubblico è portato a emozionarsi e
compatire i protagonisti della vicenda nel vero senso della parola, ossia
condividere il loro sentimento). La notizia di femminicidio ha quindi tutte
quelle caratteristiche per essere considerato un caso di successo. Ma ha anche
un quid in più. In questo caso la mera informazione di un fatto di cronaca nera
diventa anche una importante occasione per la denuncia sociale di un
fenomeno. Perché i media trattando casi di questo genere dimostrano di non
avere solo la responsabilità di informare, ma anche di contribuire al contrasto
di quello che viene ancora considerato un problema sociale.
Viviamo però nell’epoca dell’infotainment, dove sempre più spesso
l’informazione cede il posto allo spettacolo. I media, che ci informano del caso
di femminicidio, inevitabilmente denunciano il fenomeno ma lo sfruttano
anche per farci sopra tanto spettacolo. Via ai talk, veri e proprio salotti nei
programmi mattutini e pomeridiani con chiacchiere fine a se stesse, servizi
strappa lacrime, e indiscrezioni sulle vite private dei protagonisti della vicenda.
Si noterà come la spettacolarizzazione della nera inneschi una sorta di
meccanismo narcisistico per cui anche l’essere state sfregiate con l’acido dal
proprio compagno può diventare una occasione per avere i tanto agognati
minuti di gloria televisiva. Così un problema serio e importante come la
discriminazione di genere e la violenza sulle donne può essere macchiato da un
degradante teatrino trash e mediatico.
Si è anche considerato come il passo dalla spettacolarizzazione all’emulazione
sia poi breve. Il martellamento mediatico può innescare un desiderio emulativo
in menti già deviate o che stanno meditando la devianza. In Italia lo
dimostrano i casi crescenti che vedono l’utilizzo dell’acido tanto che si inizia a
parlare di un delitto specifico, l’omicidio di identità.
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Si è poi successivamente deciso di considerare il rapporto tra femminicidio e i
singoli media, stampa, web, televisione e radio, per cercare di comprenderne le
dinamiche interne e le differenze.
Si parlerà di come la stampa, grazie soprattutto ad appelli e iniziative di reti
femminili come la GIULIA, stia tentando di liberarsi dagli stereotipi del delitto
passionale e, sebbene qualche scivolone come raptus di gelosia e l’ha uccisa
perché l’amava ci siano ancora, il fatto che sia stata ufficialmente riconosciuta
una regolamentazione per trattare un caso di femminicidio dall’Ordine
Nazionale dei Giornalisti fa comunque ben sperare. Una stampa, quella
italiana, che appare più consapevole e matura, che ha imparato la parola
femminicidio e che oggi, al contrario di appena dieci anni fa, non ha più paura
di usarla. A tal proposito ho voluto analizzare articolo dopo articolo del
“Corriere della Sera” il caso provocatoriamente da me definito di non-
femminicidio di Garlasco. Un vero e proprio femminicidio quello di Chiara
Poggi che non è mai stato definito come tale perché ancora nel 2007 la stampa
non sapeva dare un significato a questa parola.
Rispetto a dieci anni fa, inoltre, è sempre più prepotentemente diffusa
l’informazione on line. Si vedrà come un caso di femminicidio si possa perdere
nel labirinto di (dis)informazione “spiccia” e breve del web, dove non ci sono
regole e tutti possono dire di tutto, dai social network fino ai blog personali. E
se il web predilige la brevitas, i salotti pomeridiani della tv controbilanciano
con tante, anzi troppe chiacchiere, sempre alla ricerca dell’intervista esclusiva
al parente della vittima di turno. Un caos mediatico dove a mio avviso tenta di
fare chiarezza un media forse oggi un po’ demodé ma che mantiene un certo
tono e contegno nella tipologia di informazione che vuole trasmettere. Mi
riferisco alla radio, che come “vecchio padre” di tutti i media, dall’alto della
propria esperienza, si permette di giudicare il tipo di informazione trasmessa
dai suoi “figli” più piccoli e la sua saggezza gli permette di parlare
dell’argomento individuando i problemi, facendo denuncia sociale e offrendo
molteplici punti di vista evitando gli errori più marchiani che ritroviamo
puntualmente negli altri media.
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Rappresentato quindi il rapporto che intercorre tra il femminicidio e la cronaca
italiana, si sono ampliati gli orizzonti e si è dato uno sguardo internazionale
facendo una analisi comparativa. In particolare sono stati presi in
considerazioni due Paesi: gli Stati Uniti dove non si usa ancora la parola
femminicidio ma solo violenza domestica e il Messico, la patria del
femminicidio soprattutto grazie al genocidio di Ciudad Juarez, dove
l’informazione dimostra di avere un grado di consapevolezza maggiore rispetto
a quella italiana puntando il dito non tanto contro il fatto ma contro le
Istituzioni, sia quelle fisiche sia quella “tacita” e “silente” che sorregge una
società basata su una cultura machista, una mentalità a cui l’Italia, tutto
sommato, è ancora molto vicina.
Infine, nelle conclusioni, appurato il fatto che il femminicidio fa molta notizia
nel panorama mediatico italiano, si è posta un’ultima domanda: ma quando è la
donna ad uccidere, fa egualmente notizia? Ancora una volta nel cercare di dare
una risposta mi sono rivolta ai professionisti dell’informazione che hanno
dimostrato pareri contrastanti. L’unica vera certezza è che a essere condannata
non debba essere solo la violenza di genere, pur riconoscendo il fatto che
ancora esista e che meriti di essere contrasta in una vera e propria guerra
contro sessismi, stereotipi e patriarchismi sociali, ma la violenza in toto, in
quanto qualsiasi forma di prevaricazione, sopruso e sopraffazione dell’altrui è
e deve essere senza un sesso.