1.2 Breve storia della traduzione
“A mio avviso, di tali vie ce ne sono soltanto due.
O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il
più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore.
Le due vie sono talmente diverse che, imboccatane una,
si deve percorrerla fino in fondo con il maggiore rigore possibile”
13
F . Schleiermacher
In un’ottica puramente pragmatica, è impossibile non accettare che “tradurre è
comprendere” e che esso è dunque, come detto precedentemente, alla base della comunicazione. Sin
dai primordi infatti l’uomo, nonostante i diversi codici linguistici, è sempre riuscito a creare e
sviluppare qualsivoglia tipo di relazione con società/persone “straniere”.
Tuttavia, il fatto che studi sulla traduzione in quanto scienza particolare e a sé siano un
fenomeno tutto sommato recente, dimostra come questa disciplina non abbia in realtà goduto di un
oggettivo riconoscimento, essendo caratteristicamente una scienza che Lawrence Venuti ha definito
quasi “invisibile”, come “all’ombra” di un autore “dominante” che di fatto catalizza l’importanza e
il valore dell’opera
14
. Significativo è che, fra i primi studi di traduzione, essa venga sempre
accostata, affiancata a qualche altra disciplina. Secondo Eric Jacobsen, la traduzione è
“un’invenzione romana”
15
, affermazione forse audace ma che puntualizza come, in precedenza, essa
fosse sì, un processo in atto, ma non una “materia” di riflessione. Conviene tuttavia accettare questa
“teoria” per avere se non altro un punto di partenza preciso da cui iniziare.
Possiamo cominciare a parlare di attenzione nei confronti di questa disciplina con Orazio e
Cicerone. Entrambi includono con un certo agio la traduzione in discipline ben più “prestigiose”,
rispettivamente nella poetica e nell’arte oratoria, con la ferma convinzione che essa abbia la
“capacità” innegabile ma soprattutto necessaria di arricchire la lingua e la letteratura natìa. Perché
necessaria? Nell’ottica romana di inclusione, tradurre era il mezzo indispensabile affinché la
letteratura “straniera” entrasse a far parte di quella romana, operando non solo un’appropriazione
ma anche una nobilitazione, paradossalmente a doppio senso: della cultura straniera in quanto
giudicata “degna” di far parte di quella latina, e della cultura latina stessa, giacché appunto le sue
lingua e letteratura in questo modo venivano ampliate e sviluppate da ogni punto di vista, che sia
semantico, lessicale o formale. In effetti in ambito romano suona a questo punto impreciso
sostenere che la traduzione fosse un’attività secondaria (a posteriori emerge anzi l’esatto contrario),
13F. Schleiermacher, “Sui diversi metodi del tradurre”, in La teoria della traduzione nella storia, Milano,
Bompiani, 1993, p. 153.
14L. Venuti, L’invisibilità del traduttore”, Armando Editore, 1990.
15E. Jacobsen, Translation, a Traditional Craft, Nordisk Forlag, 1958.
6
è però vero che a livello, diciamo così, “conscio”, essa non era percepita che come strumento al
servizio della cultura egemone (benché consapevoli che fosse “in formazione”). Il principio dunque
dominante si rivela nella celebre massima non verbum de verbo, sed sensum exprimere de sensu
16
.
In breve, è questo il metodo che logicamente fu privilegiato (logico se si considera la matrice
unanimemente definita imperialista della società romana), un “moderato addomesticamento” (per
“moderato” si intenda “ragionevole, di buon senso”), un far sì che l’opera straniera risultasse come
“latina” cercando comunque di non alterarne troppo le strutture, e però contemporaneamente
esortando alla creazione di nuove.
Da questo momento in poi la traduzione sarà dunque etnocentrica, secondo un principio
“addomesticante” che vede il testo di partenza come un originale di cui fondamentale è mantenere il
senso ma che, dal punto di vista formale, viene via via sempre più sciolto dalle sue strutture
originarie a favore di una maggiore simiglianza con quelle invece facenti parte la cultura d’arrivo. A
stigmatizzare la pratica sarà San Gerolamo, quando accingendosi a tradurre il Nuovo Testamento
afferma di aver seguito le idee di Cicerone: solo un approccio sensum de senso determina una
“vera” traduzione, essendo concepita come pedante o da mero interprete quando eseguita parola per
parola
17
.
La traduzione delle scritture sacre rappresenta una tappa centrale nello sviluppo e
definizione di questa disciplina. Bisogna innanzitutto considerare il contesto sia storico che sociale.
Si andavano formando gli stati nazionali e le traduzioni delle bibbie che circolavano erano
principalmente un mezzo di opposizione al potere della Chiesa: a partire da Wycliffe che
convenzionalmente per primo ha dato il via a tutta la serie di bibbie tradotte (la sua apparve tra il
1380 e il 1384) per finire con la celeberrima versione di Lutero (1522-1534), il presupposto era che
tutti potessero avere accesso ad un testo considerato capitale per la vita quotidiana. Questa funzione
divulgativa condizionò inevitabilmente la procedura del traduttore, soprattutto una volta che furono
autorizzate tali versioni non latine dei testi sacri. Da un lato, la fedeltà alla parola era di estrema
importanza “in un periodo in cui la scelta del pronome poteva significare una condanna a morte
come eretico”
18
, dall’altro la necessità di chiarificazione e interpretazione dei dogmi in modo da
facilitarne la fruizione era un presupposto fondamentale. Lo stesso Lutero “consigliava ad aspiranti
traduttori di utilizzare proverbi o espressioni tratte dal volgare, […] di attingere alla tradizione
popolare per aggiungere ricchezza di immagini al testo di partenza”
19
: affinché il messaggio
essenziale arrivi alla “massa” diviene dunque lecito rendere un originale simile alla cultura d’arrivo
16M. T. Cicerone, De optimo genere oratorum, Loeb Classic Library, 1959.
17“La materia comune diverrà tua se tu […] non ti curerai di render parola per parola, da semplice
interprete”, Q. Orazio Flacco, L’arte poetica in Le opere di Quinto Orazio Flacco a cura di T. Colamarino e
D. Bo, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1969.
18S. Bassnett, op. cit., p. 74.
19Ibid.
7
invece che mantenere una “fanatica” sottomissione ad una lettera talvolta oscura (similmente,
benché nella sfera laica, avvenne anche tempo prima, nel IX secolo: Alfredo il Grande diede il via
al rinnovamento della cultura proprio tramite le traduzioni, hwilum worde be worde, hwilum andgiet
of angiete
20
, seguendo appunto un progetto didattico e morale traducendo quei libri “che tutte le
persone dovrebbero conoscere, nella lingua che tutti comprendiamo”
21
).
Per tutto il Rinascimento l’opera del traduttore fu dunque ispirata da un’idea più o meno
consapevole di nazionalizzazione, da Dolet (La manière de traduire, 1540) a Du Bellay (Dèfense et
illustration de la langue française, 1549), a Wyatt (che nel XVI secolo traduce Petrarca optando per
“una resa con un impatto immediato sui lettori del periodo, come se l’opera fosse a loro
contemporanea”
22
), per culminare con John Denham, il quale rese il secondo libro dell’Eneide in
una versione talmente avulsa dal testo d’origine (per quanto riguarda la fedeltà alla lettera) che
addirittura chiamò “saggio” e a cui decise anche di dare un titolo diverso (The destruction of Troy,
An Essay upon the Second Book of Virgils Æneis. Written in the year, 1636). Questo naturalmente
non significa che la traduzione letterale fu completamente abbandonata, ci sono anzi numerosi
esempi di studiosi che la sostenevano, era però comunque considerata come una “credenza”
(Holyday 1635, pp. A5
r
-A5
r
; DNB), in opposizione dunque ai “grammatici” i quali si illudono in
una “ferulariae superstition”, un “credo trasmesso col bastone (ferula), ossia con la disciplina
scolastica: un gioco di parole ideato per un grammatico”
23
. Un atteggiamento di questo tipo, benché
possa effettivamente esprimere una certa arroganza o per lo meno la pretesa di aver capito
totalmente e veramente il significato dell’opera, implica tuttavia una rivalutazione della figura
stessa di traduttore, in quanto di fatto per produrre un’opera che sia “all’altezza” dell’originale è
necessario che anche il traduttore abbia dimestichezza con il bello stile e le belle forme della lingua
d’arrivo. Quel che in sostanza trapela sembra, in parole povere, che per tradurre una poesia c’è
bisogno di un poeta
24
(sempre in opposizione ai “grammatici” o pedanti), o per lo meno di qualcuno
dal forte estro creativo, che riesca ad “immaginare in che modo l’autore originale si sarebbe
espresso se avesse scritto nella lingua della traduzione”
25
.
Benché il concetto possa sembrare a primo impatto uno sforzo evidentemente impossibile
(come potremmo immaginare Virgilio nell’Inghilterra del 1600, con tutte le diverse strutture sociali,
politiche ed etiche che il cambio comporterebbe? Il rischio di non ottenere altro che una farsa
superficiale è alto…), è in generale questa la linea guida per tutta la traduzione moderna e, talvolta,
20“Talvolta parola per parola, talvolta secondo il senso”.
21Alfred, Prefazione alla Pastoral Care di Gregorio, in G.L Brook, An introduction to Old English,
Manchester University Press, 1955.
22S. Bassnett, op. cit., p. 83.
23L. Venuti, op. cit., p. 78.
24“Per Schleiermacher il ‘vero traduttore’ è uno scrittore”: L. Venuti, op. cit., p. 143.
25A. F. Tyler, Essay on the principles of translation, a cura di J. F. Huntsman, John Benjamins, 1978.
8
contemporanea. Inoltre, questo atteggiamento di “appropriazione” dell’opera non di rado si
tramutava in un vero e proprio plagio: in un’epoca in cui il diritto d’autore era solo qualcosa di
vagamente abbozzato (ed è tutt’ora discusso
26
), risultava estremamente facile tradurre/parafrasare
un’opera e rivendicarla come propria. V orrei citare a questo proposito il caso di Igino Tarchetti
(1839-1869), scrittore, poeta e giornalista italiano appartenente al movimento della Scapigliatura.
Tarchetti è una figura che nel panorama della letteratura italiana ha dato un grande apporto
allo sviluppo di tematiche e forme sperimentali in opposizione ai collaudati e frivoli romanzetti
rosa/licenziosi che circolavano all’epoca – opere “vendibili” che ben si adattavano al gusto per il
sentimentale tipico italiano – o al romanzo impegnato “alla Manzoni” che, benché “non vi sia luogo
di dubitare che I promessi sposi sieno finora il migliore romanzo italiano”, allo stesso tempo “non
occorre dimostrare come esso non sia che un mediocre romanzo in confronto dei capolavori delle
altre nazioni”
27
. Alla base dell’atteggiamento di Tarchetti c’era sicuramente una spiccata
insofferenza per il cosiddetto “individualismo borghese” (rappresentato appunto da certa letteratura)
unita all’esigenza di una “riforma del canone letterario italiano, affinché esso ammettesse altri
discorsi narrativi, oltre al realismo, sia nazionali che stranieri”
28
. In voga all’estero era all’epoca il
genere fantastico, ed è su questo che Tarchetti rivolse la sua attenzione come soluzione al problema.
Al di là dell’ideologia sovversiva che l’autore attribuisce a questo genere, è interessante soffermarsi
invece sulle tecniche utilizzate per il raggiungimento di tale scopo di “rinnovamento”. Lo
“scandalo” intorno alla figura di Tarchetti nasce perché, di fatto, egli non solo si ispirò ad autori
stranieri per le proprie originali composizioni (un esempio ne è Fosca, 1869): egli plagiò
(traducendo ovviamente) e spacciò per sue opere appartenenti ad altri, nello specifico a Mary
Shelley, quantunque riportando in note o in sottotitoli la dicitura “imitazione dall’inglese”, in cui,
per inciso, la parola “imitazione” comporta tecniche di assimilazione, e il tipo di traduzione sarà da
un lato fedele al significato (generale) di partenza; dall’altro sarà necessariamente orientato al
pubblico d’arrivo, che deve sì sentirsi “straniato” per la novità ma deve anche sentirsi a proprio agio
nel riconoscere stili e tematiche propri della cultura di arrivo (Tarchetti – come Denham un paio di
secoli prima con Virgilio – non esita ad adattare il discorso della Shelley a supporto delle proprie
teorie politiche antiborghesi). Ebbene, i problemi sollevati da tale procedura sono ovvi e
probabilmente una simile azione verrebbe bollata oggi come “immorale”, giacché vige senz’altro
una regolamentazione più chiara a riguardo. È innegabile tuttavia il merito che Tarchetti ha avuto
nell’operazione di arricchire la cultura italiana, come al solito ancorata a vecchi e intoccabili miti
“sacri”. Un po’ come al tempo di Orazio e Cicerone (ma direi che in ogni tempo il discorso è
valido), in mancanza d’inventiva, ampliare la cultura patria corrisponde all’attingere dall’altro. E
26L. Venuti, op. cit., capitolo: Richiamo all’azione.
27I. U. Tarchetti, Tutte le opere, a cura di E. Ghidetti, Bologna, Cappelli, 1967.
28L. Venuti, op. cit., p. 203.
9
come far ciò evitando la traduzione, evitando di trasportare, dunque, da una cultura d’origine ad
una cultura d’arrivo?
La fedeltà più o meno al senso è il principio ispiratore della maggior parte dei traduttori,
poiché anche al giorno d’oggi non si può non fare i conti con la “richiesta di intelligibilità”
29
del
pubblico, che materialisticamente non comprerà un’opera che troverà astrusa e di oscura
comprensione. Non bisogna però neanche pensare che “la lettera” sia stata persa completamente del
tutto durante lo sviluppo della disciplina traduzione, c’è stato anzi un periodo in cui il verbum de
verbo era il metodo privilegiato e ritenuto l’unico vero e giusto in grado di rappresentare
l’individualità (divenuta quindi importantissima) dell’autore, e si tratta naturalmente del
Romanticismo, l’apoteosi dell’individuo in sé, la scoperta del proprio “spirto guerrier” che è grande
e degno di rispetto ad ogni livello.
Tradurre significa in quest’epoca non solo veicolare un significato da una lingua all’altra.
Tradurre diviene sinonimo di conoscenza, si attiva in un certo senso un percorso d’umiltà
diametralmente opposto al precetto rinascimentale di addomesticamento. Il traduttore adesso non
può avere la pretesa di azione sul testo d’origine: egli deve far in modo che questo arrivi nella
cultura d’arrivo nella sua interezza, il che comprende non solo il senso ma anche e soprattutto la
forma, rispettandone le tecniche, lo stile, i “non detti” dell’autore (precedentemente e talvolta
inevitabilmente ancora ora soggetti ad aggiunte e chiarificazioni). Non solo l’opera dunque ma
anche l’autore dev’esser “tradotto”. Esplicativa è a questo proposito l’affermazione di Francis
Newman (1805 – 1897) in difesa della sua traduzione dell’Iliade di Omero:
Omero non vede mai le cose nelle stesse proporzioni in cui le vediamo noi. Omettere le sue digressioni, e
quelle che potrei definire le sue “impertinenze”, […] vuol dire attribuire maggiore importanza alle nostre
menti logiche piuttosto che alla sua mente pittoresca e illogica.
30
Come non citare, in ambito italiano, anche le versioni leopardiane di Omero: egli si accorse
leggendo il testo greco che alcune parole, nello specifico quelle che indicano il fisico dell’uomo,
erano state nelle versioni italiane “abbellite” o rese con eufemismi che ne nascondessero l’
“impudicizia” (emblematica e sintetica di certi atteggiamenti traduttori è la scena del recente film di
Martone, Il giovane favoloso, 2014, in cui il regista raffigura un Leopardi che afferma davanti ad un
oltremodo scandalizzato padre/precettore la veridicità letterale della sua versione di “omphalos”
come “ombelico” al posto del comunemente accettato dal buon senso “centro del mare”
31
, giacché
29Ibid., p. 286.
30F. W. Newman, Homeric Translation in Theory and Practice. A Reply to Matthew Arnold, Esq., London-
Edimburgh, William and Norgate, 1861.
31La frase dal greco:
οϑι τ'ομφαλος εστι ταλασσης / dov’è l’ombelico del mare. Omero, Odissea, Einaudi
Tascabili, trad. di R. C. Onesti, Torino, 1963, pp. 4-5.
10
inconcepibile era l’idea che Omero potesse utilizzare una parola triviale come appunto “ombelico”).
Come ben sintetizza la studiosa Susan Bassnett, l’ “assunto [è] che il significato si trovi al di sotto e
fra il linguaggio” e la sua resa può avere due soluzioni, che sono appunto la traduzione letterale o,
inversamente, la creazione di una “lingua artificiale […] con la quale le emozioni particolari del
testo d’origine possano essere restituite per mezzo della stranezza”
32
.
Un impatto veramente decisivo ed evidente nella traduzione fedele alla parola è da
riconoscere tuttavia qualche tempo dopo, in pieno clima modernista. Siamo agli inizi del XX secolo
e la letteratura sviluppava nuove forme sperimentali nella composizione artistica così come,
parallelamente, nella traduzione, che addirittura divenne una “pratica chiave della poetica
modernista”
33
che prevedeva appunto il recupero di certe forme arcaiche e straniere e la loro resa in
modo funzionale al fine di allontanarsi dall’idea comunque imperante di scorrevolezza e
trasparenza. Le opere prese in considerazione sono spesso opere del passato di cui si cerca di
riproporre tematiche e valori creduti perduti ma che si tenta di “assimilare” a quelli “nuovi”, propri
del modernismo. Il lavoro di Ezra Pound (1885 – 1972) è particolarmente significativo in questo
contesto giacché le sue versioni degli antichi poeti sono state d’ispirazione per le generazioni
successive. Nel tradurre la poesia di Guido Cavalcanti, di cui apprezza “il positivismo e l’esattezza
linguistica”
34
, Pound definisce due tipi di strategie, una “interpretativa” e una “di altro genere”
35
indipendente, una “creazione originale”
36
che ha il compito di evocare, di far percepire il passato-
stranezza., tramite, giustamente, l’utilizzo di arcaismi (“strategia arcaizzante”
37
). Il problema di un
simile approccio sorge nel momento in cui il rifiuto immoderato della scorrevolezza “privilegiando
il significante sul significato”
38
produce una sostanziale inintelligibilità. Se questo ancora non è
evidente in Pound, è però fondamentale per leggere e capire la versione di Catullo che ne danno i
fratelli Zukofsky. L’operazione richiese un lavoro decennale, dal 1958 al 1969. Nel loro intento vi
era certamente la resa del significato, ma ben più consistente e sofferto è stato invece il tentativo di
renderne anche la forma, specificatamente il suono, tanto che la traduzione degli Zukofsky viene
generalmente indicata come “omofona”
39
. Tanto per fare un esempio, il latino “dicit” diventa in
inglese “dickered”
40
, il cui significato è meno che intuitivo ma il cui suono ha per lo meno
l’intenzione di ricalcare quello dell’originale. La criticità nella versione degli Zukofsky risiede
appunto nel non essere di facile comprensione e, dal punto di vista prettamente linguistico, è stato
32S. Bassnett, op. cit., p. 95.
33L. Venuti, op. cit. p. 245.
34Ibid., p. 248.
35E. Pound, Traduzioni, in Opere scelte, a cura di M. de Rachewiltz, Mondadori, Milano, 1977.
36Ibid.
37L. Venuti, op. cit.
38Ibid., p. 260.
39Ibid.
40Ibid.
11
loro rinfacciato il fatto di aver adottato linguaggi poco pertinenti tra loro, ossia una mescolanza tra
quello arcaico e quello corrente, il letterario e il tecnico, il linguaggio accademico e quello della
strada
41
. Di nuovo, bisognerà chiarire il significato di traduzione per deciderne la validità: sebbene a
livello fonetico gli Zukofsky abbiano egregiamente riprodotto Catullo, è pur vero dall’altra parte
che scompare totalmente lo stile del poeta latino, per cui non si può parlare di vera equivalenza (se
questo si vuole intendere traducendo): l’effetto finale è che leggere direttamente il Catullo originale
appare più agevole del “lutulento”
42
poema zukofskiano.
Insomma, nel difficile percorso di questa disciplina, il dibattito sul metodo migliore da
seguire è ancora in atto. Come afferma Venuti, “la traduzione, dunque, coinvolge sempre […] uno
scambio di intelligibilità fra la lingua di partenza e le lingue d’arrivo”
43
. Bisogna latinamente agire
con moderazione, stipulare una sorta di “patto” e accettare le inevitabili perdite che ci sono
ogniqualvolta si passi da una lingua all’altra, cercando eventualmente delle compensazioni senza
però, naturalmente, sfociare nella libera parafrasi. Di caso in caso sarà necessario trovare una
strategia valida, e purtroppo una strategia ritenuta valida per un autore può non esserlo per un altro:
alla fine del suo volume, Lawrence Venuti insinua una certa idea d’impossibilità nel lavorare con
testi che sono cronologicamente, socialmente e anche, perché no, geograficamente lontani dal
traduttore, proprio perché quanto più autore e traduttore condividono in quanto a mentalità e
circostanze, tanto migliore può riuscire una versione da LP a LA nel processo di fondamentale
“mediazione delle differenze”
44
.
1.3 Spinta alla traduzione di Roger Casement
Per quanto riguarda l’opera da me tradotta, le condizioni che Venuti preconizza
45
per una
“buona traduzione” mancano tutte, in quanto l’autore, Roger Casement, non solo è morto (e quindi
anche impossibile da consultare in caso di eventuali dubbi) ma è vissuto proprio in un altro periodo,
a cavallo tra Otto e Novecento, e non c’è bisogno di ricordare quanto quell’epoca appaia ormai
lontana anni luce dalla nostra, per quanto riguarda cultura, abitudini, sviluppo tecnologico e, come
si sa, molto altro. In aggiunta, l’autore è un uomo mentre chi traduce è una donna, differenza che,
per quanto pari vogliamo considerare i sessi, esiste e, sempre secondo lo studioso Venuti, può
influire sul lavoro.
41Ibid.
42Termine che utilizza Orazio nel descrivere Lucilio (II sec. a.C.), la cui pesantezza lo rende “lento e
fangoso”. Benché non si riferisca a niente di assimilabile col lavoro degli Zukofsky, l’aggettivo si presta in
ogni caso in quanto, effettivamente, la lettura del loro Catullo non è affatto “scorrevole” (principio che, si
evince da Orazio, era caro ai latini).
43L. Venuti, op. cit., p. 263.
44L. Venuti, op. cit. p. 385.
45Ibid., in cap. “Simpatico”, pp.347-394.
12
Detto ciò, come ho anche scritto nell’introduzione, la scoperta di questo personaggio storico
così incisivo eppure dimenticato è stata per me la motivazione principale nella traduzione del suo
diario o reportage, sia per la realtà di cui è stato testimone e cioè il genocidio degli indios in
America Latina (di cui abbiamo un’idea vaga e ormai indolente – si è capito fin dove può spingersi
la crudeltà dell’uomo e non ci si stupisce più molto delle atrocità, anzi l’epoca attuale sembra di
quelle in cui la violenza anche inconsapevole è all’ordine del giorno, ma qui si entra in un altro
lungo discorso e non è questo il luogo) ma soprattutto spinta dall’inspiegabile necessità di voler
ridare in qualche modo una seppur debole e soprattutto ai limiti dell’anonimato dignità a questo
personaggio così del suo tempo e tuttavia così avanti rispetto ai suoi contemporanei, per quanto
riguarda l’uomo (come specie animale) e l’idea dei diritti fondamentali a esso connessi. Non solo,
leggendo direttamente i suoi scritti, non ho potuto non trovarmi d’accordo con quanto di lui scrisse
un’altra autorevole personalità, e cioè Joseph Conrad, quando di lui scrisse che era una “creatura
fatta di sole emozioni”
46
: è innegabile infatti non scorgere l’impeto del sentimento che anima le
parole vergate così alacremente nel suo diario.
Quindi, il lavoro che ho voluto fare è quello di mera trasmissione di significato in un certo
senso, volevo cioè condividere la mia scoperta dell’uomo e dell’opera, ed è con questo obiettivo che
ho deciso di affrontare l’argomento.
1.4 Roger Casement
– Be’, dice J.J., se fanno peggio dei Belgi nello Stato Libero del Congo,
dev’essere un bello stare. Avete letto il rapporto di quel tale, come diavolo si chiamava?
– Casement, dice il cittadino. È un irlandese.
47
1.4.1 Cenni biografici
Roger Casement nacque a Dublino il 1 settembre 1864, padre protestante e madre cattolica,
una famiglia mediamente povera. All’età di 13 anni rimase completamente orfano (aveva perso la
madre prima e successivamente il padre), e fu così affidato, con i suoi tre fratelli, allo zio, che
viveva nel nord dell’Irlanda (Contea di Antrim)
48
. La sua educazione fu come quella della maggior
parte dei ragazzi protestanti di ceto medio-basso: frequentò la scuola Diocesana Ballymena e, all’età
di sedici anni, andò a lavorare a Liverpool come impiegato nell’amministrazione dell’Impero
Britannico, fino al 1883, anno in cui fece il suo primo, cruciale viaggio in Africa.
46 http://www.drb.ie/essays/casement-s-war (articolo di J. Dudgeon, dicembre 2017).
47 J. Joyce, Ulisse, pp. 457-458, ed. Oscar Mondadori, 1978.
48https://www.youtube.com/watch?v=PjioEolLgOM&t=1031s (titolo: Roger Casement: A Character of
Contrast, 2014). Data consultazione: 25/08/2017.
13
Helen O’Carroll
49
definisce Roger Casement un “vagabondo”
50
, un “senza casa” dal
momento che sin da piccolo non aveva effettivamente mai avuto una dimora stabile e perché per il
resto della sua vita adulta non ha fatto che viaggiare per il mondo, impegnandosi in numerose
battaglie definite poi “umanitarie”.
Nel 1903 viene inviato su richiesta del Foreign Office (il Ministero degli Esteri inglese) e
per conto della African International Association ad investigare nel Congo, che all’epoca era sotto il
dominio belga (Leopoldo II). Roger Casement fu tra coloro che sinceramente (e ingenuamente)
sostenevano la teoria del “fardello dell’uomo bianco” e della bontà della sua presenza in quei
territori, ma dovette presto rendersi conto del reale stato delle cose. Partito con il solo scopo di
“alleviare eventuali conflitti”
51
, si ritrovò faccia a faccia con una condizione di sfruttamento
smisurato. In Congo incontrò anche Joseph Conrad, con il quale condivise la percezione delle
storture in atto in quei luoghi, e redasse alla fine dello stesso anno un rapporto molto dettagliato
sulle condizioni dei nativi, includendone le testimonianze. Alla pubblicazione del “Rapporto
Casement”, ovviamente, ci fu anche chi lo accusò di aver esagerato (accusa che gli fu mossa anche
in seguito all’indagine del Putumayo). Inutile dire che la maggior parte dei suoi oppositori erano
coloro che avevano forti interessi economici nella zona.
Fu proprio durante il suo viaggio in Congo che in Casement comincia a delinearsi un
sentimento nazionalista irlandese. Nella sua lucida analisi, iniziava a notare simiglianze tra il Congo
e l’Irlanda
52
, che, certo, non versava nella stessa condizione di abuso e sfruttamento delle colonie
oltremare, ma si accorse che anch’essa non era che, di fatto, un altro dei possedimenti britannici, e
non uno stato “alla pari” con la sua dignità d’essere.
Dopo l’avventura congolese, viene di nuovo inviato, nel 1906, sempre su richiesta del
governo, in America Latina, precisamente ad indagare sull’operato della britannica Compagnia
dell’Amazzonia Peruviana, giacché precedentemente erano giunte notizie al Foreign Office su delle
strane “cose” che accadevano in quei luoghi. Il resoconto che ne venne fuori svelava atrocità e abusi
perpetrati nella sostanziale assenza di qualsivoglia regolamentazione, cosa che, sostiene Casement,
non era in Congo, in cui comunque una sorta di sistema di regole vigeva.
L’impegno di Casement nella denuncia di tali situazioni gli valse, nel 1911, il titolo di
cavaliere, di cui fu insignito dal re Giorgio V e molto significativo che lo stesso governo, lo stesso
Giorgio V , lo abbia poi impiccato per alto tradimento nel 1916.
49Studiosa e curatrice del Kerry County Museum.
50https://www.youtube.com/watch?v=PjioEolLgOM (titolo: A Character of Contrast). Data consultazione:
25/08/2017.
51https://www.youtube.com/watch?v=HE0Q_Hif63s (titolo: Who is Roger Casement?, 2015). Data
consultazione: 25/08/2017.
52Sèamas O’Siochàin (autore e antropologo) in https://www.youtube.com/watch?
v=PjioEolLgOM&t=1031s.
14