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Il contesto penitenziario
In prigione provi sollievo perché hai toccato il fondo
(“American Gods”, Neil Gaiman)
L’intervento psicologico in carcere riveste un ruolo primario, sia al fine di un più
generale mantenimento dello stato di salute e nel contenimento del disagio psichico sia
nella prevenzione del rischio autolesivo e suicidario (dalle statistiche del sito Ristretti
Orizzonti risulta circa 20 volte maggiore).
L’ingresso in un istituto di pena per tutte le persone è un evento traumatizzante e
destabilizzante. Lo è ancora di più per soggetti alla prima esperienza detentiva, per i
giovani adulti e per tutti i soggetti portatori di fragilità e disagi (aliquota in forte
aumento nella popolazione detenuta). Da qui la necessità della tutela della salute
psichica dei detenuti, se non altro per evitare esplosioni emotive con acting out auto e/o
eterolesivi e le possibili conseguenze sulla loro salute fisica.
Si deve poi rilevare che, in questo momento di sovraffollamento degli istituti di pena, il
“normale” disagio psichico e il trauma dell’impatto con l’istituzione risulta alquanto
amplificato. Di solito, per carenze di organico che negli ultimi anni sono sempre
maggiori, i colloqui si limitano a pochi minuti. Patrizi e Lepri (1999) sostengono che sia
necessario fare uno sforzo di contestualizzazione. Le attività che possono essere svolte
si concretizzano nell’osservazione, sostegno e trattamento. I primi due per gli imputati,
il trattamento per di detenuti che hanno una pena definitiva. A rigor di logica è corretto,
il contesto lo impone. Ma talvolta un solo colloquio può essere sufficiente a portare un
cambiamento. Chiunque sia la persona che abbiamo di fronte. Le categorizzazioni sono
necessarie ma imbrigliano. Spesso la figura dello psicologo in carcere viene
strumentalizzata per ottenere vantaggi in termine di misure alternative, affidamento ai
servizi sociali, o altre situazioni favorevoli. Ecco perché per poter lavorare con le
persone è importante che il contratto sia chiaro. Cosa che fortunatamente per il mio
ruolo di tirocinante è stato molto facile da mettere in atto: “io sono qui per vedere te
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come persona e trovare insieme un modo per farti stare meglio”. Specificando che non
posso fare nulla altro, né chiamare parenti, né scrivere relazioni per giudici, né parlare
con gli ispettori per far avere loro qualche beneficio. Su questo è fondamentale essere
molto diretti. In questo modo si può aggirare l’ostacolo della manipolazione e lavorare
con persone che sono realmente interessate. Un altro aspetto da sottolineare è che si
lavora spesso in emergenza (Imbruglia 2001), i tempi sono stretti, la direzione sanitaria
ha richieste pressanti, spesso viene equiparata la devianza con la malattia. E qui sta un
nodo che la teoria sistemica aiuta a sciogliere. L’individuo è un sistema che entra in
relazione con altri sistemi, ne viene influenzato e lo influenza in un circuito di feedback
reciproco, come ci suggerisce la seconda cibernetica. Si presta attenzione all’individuo
con le sue attitudini, potenzialità, i suoi valori, le sue aspettative, le sue relazioni dentro
e fuori dal carcere, la sua propensione al cambiamento, la sua consapevolezza di sé, la
sua storia individuale.
Le attività da fare concretamente, suggerisce sempre Imbruglia, sono in effetti molto
simili a quello che è il processo teorizzato dal modello sistemico relazionale:
• accoglienza
• analisi della domanda
• orientamento, cioè la definizione dell’obiettivo
La differenza è che in ambito penitenziario la domanda spesso (ma non sempre) non
viene direttamente dalla persona. Si è parlato di inquinamento del rapporto. La mia
esperienza, però, essendo avulsa dal contesto coatto, non intervenendo su richiesta del
Magistrato di sorveglianza ma su segnalazione e richiesta dei medici, spesso in risposta
ad un bisogno espresso direttamente dal detenuto, mi ha portato a muovermi con
maggiore libertà.
In ambito penitenziario si oscilla tra la percezione del detenuto come un perverso
manipolatore di psicologi e il detenuto come vittima ignara di un sistema che lo
racchiude senza includerlo. La realtà è che il detenuto è una persona, un soggetto
partecipe e consapevole delle ricadute che un processo terapeutico o di sostegno può
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avere sulla vita, riflettendo sul passato, vivendo il presente e costruendosi un futuro.
Così si dà dignità alla persona.
L’appartenenza (negata)
Qualche anno fa ho seguito un interessante seminario sul tema dell’Appartenenza. In
particolare il gruppo cui ho partecipato era dedicato all’appartenenza negata di chi sta
dentro il carcere (Ferreri, La Gioia 2013). La metafora del carcere è quella che viene
esplicitata nel film di Ferrario “Tutta colpa di Giuda” (2009). Il regista fa dire al
direttore del penitenziario che le persone in carcere sono come la spazzatura, le si mette
sotto il tappeto. In effetti il passaggio dal carcere nel centro della città, come monito per
gli altri ma anche come essere ancora inclusi (si pensi alle vecchie Nuove di Torino, a
San Vittore, a Poggio Reale, nel centro della città) alla periferia, lontana dagli occhi, dà
l’idea di appartenenza “altra”. Il carcere è un luogo estremo, l’ultima zona, il segmento
finale di una costruzione ideologica e materiale della complessiva amministrazione.
Non si parla di solidarietà, legata alla sfera intima di ognuno di noi, non si parla di
compassione. Si parla di diritti, si parla di garanzie, si parla di appartenenze plurime.
Sostanzialmente si presentano 3 gruppi: i poveri e poverissimi, i tossicodipendenti, gli
stranieri. Spesso una persona appartiene a questi tre gruppi contemporaneamente. La
situazione delle carceri italiane è al collasso. Sono in aumento i suicidi (si vedano i dati
dal sito di “ristretti orizzonti”), la densità di popolazione carceraria aumenta mentre
diminuiscono le opportunità per costruire percorsi di reinserimento. Essere operatori in
questo contesto che cosa significa? A chi si appartiene? Chi entra in carcere come
agente, psicologo, educatore, medico vive su una linea di confine tra dentro e fuori,
l’appartenenza è confusa. I confini sono permeabili, gli elementi interconnessi, si
diventa co-costruttori di significati e cambiamento.
L’appartenenza, che ha in sé un senso di inclusione, è negata, che ha in sé l’esclusione.
Un paradosso che rende bene l’idea di che cosa significhi essere reclusi e operare in un
ambito penitenziario. Talvolta l’appartenenza al mondo carcerario è l’unica rimasta: si
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tratta degli ergastolani, di chi ha pene detentive lunghe, di chi fuori non ha più niente e
nessuno. Allora appartenere ha un nuovo senso. Una volta ho incontrato Giulio, entra
ed esce dal carcere da quando ha 16 anni. Ora di anni ne ha 44. Il mondo fuori esiste in
funzione di quello dentro “qui mi sento a casa”. Contro questa appartenenza ho visto
lottare per quasi 2 anni Massimo: ad ogni incontro sgorgano lacrime, si rifiuta di andare
all’aria, dove si parla solo e sempre di delinquenza. Cerca in qualche modo di
mantenere la sua identità di “fuori”. Ma nel frattempo la sua identità di persona
“rispettabile” viene meno: il nome sui giornali, la vergogna che vieta di far sapere al
figlio dove si trova. Ecco il dolore, la lacerazione. L’identità (Busso, 2004) passa
attraverso la costruzione di valori, ruoli, proprietà. In carcere tutto questo viene meno, i
valori cambiano, le proprietà sono congelate, il ruolo viene mutato. Ecco perché tanto
valore si dà al possesso degli oggetti e come questo sia usato in maniera “punitiva” da
parte delle istituzioni. Non tutti gli oggetti possono entrare in carcere (dalle cose più
ovvie, come armi, droga, telefonini a quelle più impensate, come sughi, salumi). Un
modo per ricordare che l’identità sta cambiando.
Chiunque entra in una casa di reclusione si accorgerà in tempi brevissimi che il mondo
in cui entra è fatto di riti, miti, regole esplicitate o meno. I cancelli che si chiudono, gli
odori, i rumori, i codici comportamentali, le “classifiche” dei reati (alla top ten le rapine
alle banche, gli spacciatori hanno la sufficienza, i reati a sfondo sessuale sono non in
fondo alla gerarchia, ma anche posti in sezioni separate per evitare linciaggi, che
comunque avvengono con la connivenza degli agenti di custodia). I termini
svalorizzanti infantili come “domandina”, il modulo che il detenuto deve compilare per
qualsiasi incontro voglio fare, lo “scopino” per indicare chi si occupa della pulizia, al
contrario di quello che capita nella vita fuori, dove lo spazzino è stato valorizzato in
operatore ecologico. E’ importante che chi opera in questo contesto complesso conosca
le regole esplicite e quelle impliciti.
Il carcere può e deve diventare un luogo di inclusione sociale e di vera riabilitazione
sociale, dove il processo di costruzione di appartenenza diventa un processo di
costruzione di senso e di cambiamento.
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“Guardie e ladri”: l’esperimento di Zimbardo
In carcere lo psicologo non si interfaccia solo con il detenuto, ma entra a far parte di una
rete complessa e variegata. Gatti (1984) descrive gli interlocutori principali. Dopo 30
anni non sono cambiati, è forse il modo di rapportarsi con loro che cambia.
• Il direttore sanitario
• Gli educatori
• Gli assistenti sociali
• I medici
• Il cappellano
• Gli agenti di custodia
• L’equipe
Sapia (2007) sottolinea l’importanza dell’intervento psicologico a supporto del
personale di sorveglianza, oltre che con la popolazione detenuta. Il carcere è come lo
definiva Goffmann (2003) una delle “istituzioni totali”, istituzioni chiuse al mondo
esterno da un vincolo coatto. « Nella nostra società occidentale-afferma Goffman- ci
sono tipi diversi di istituzioni, alcune delle quali agiscono con un potere inglobante -
seppur discontinuo - più penetrante di altre. Questo carattere inglobante o totale è
simbolizzato nell'impedimento allo scambio sociale e all'uscita verso il mondo esterno,
spesso concretamente fondato nelle stesse strutture fisiche dell'istituzione: porte chiuse,
alte mura, filo spinato, rocce, corsi d'acqua, foreste e brughiere. Questo tipo di
istituzioni io lo chiamo "istituzioni totali" ». Si tratta quindi di offrire la possibilità di
avere un supporto nella gestione di un ruolo delicato e fonte di stress a chi lavora in una
situazione lavorativa che alterna momenti di ozio a momenti di emergenza, spesso in
condizioni di carenza di organico. In fondo mentre i detenuti sanno che la loro pena
avrà un termine, gli operatori rimangono “imprigionati” a vita (lavorativa). La cronaca
recente di un omicidio-suicidio tra due agenti è esemplificativa dello stato di
alienazione in cui si vengono a trovare gli operatori in ambito penitenziario.