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INTRODUZIONE
Il Fascismo è un fenomeno complesso, ma sicuramente totalizzante della vita
sociopolitica italiana. Per cui analizzare il cinema del Ventennio fascista
significa addentrarsi in una materia intricata, in cui il cinematografo mostra tutta
la sua ambivalenza: da un lato potenziale arma di propaganda, e dall’altro media
di intrattenimento ed evasione “apolitica”.
Quel che voglio descrivere in questo mio lavoro è il rapporto tra il regime
fascista e l’industria del cinema italiano. Ovvero quanto il cinema di quegli anni
fosse legato al regime, specialmente per la produzione propagandistica, ma
anche per la produzione popolare (la quale aderisce al clima fascista, riflettendo
i suoi valori sociali).
Una trattazione storiografica del Fascismo non può esimersi dall’analizzare i
media, i quali a partire dal Novecento rappresentano una fonte ineliminabile
dell’indagine storica. I prodotti culturali di massa (in primis il cinema) per loro
intrinseca natura, dovendo rispondere ad esigenze precise del pubblico,
finiscono per interpretarne e rappresentarne le ansie e le speranze. Come dice
anche Pietro Cavallo, tramite il cinema possiamo avere qualcosa che le fonti
scritte non possono trasmetterci: il “clima” dell’epoca, i film, attraverso il
montaggio, ricostruiscono la società com’era (o come i contemporanei volevano
che fosse).
La mia è una trattazione organica sul rapporto tra regime e settima arte, che
analizza in un primo momento le scelte politiche adottate dal regime e poi si
sofferma più propriamente sui prodotti cinematografici del ventennio.
Nel primo capitolo mi dilungo in un’analisi storica che abbraccia il periodo che
va dalla nascita dell’Istituto Luce nel 1924, sino agli ultimi rantoli del regime
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con la Repubblica Sociale Italiana. Qui tratto degli interventi statali fascisti che
hanno come fine ultimo la costruzione di un cinema italiano capace di
rapportarsi con le grandi produzioni europee ed americane. Questi si
manifestano sia sotto forma di incentivi alle produzioni italiane che sotto forma
di leggi protezionistiche (che puntano all’autarchia dell’industria
cinematografica, evitando che il mercato sia invaso da film prodotti all’estero).
Il Fascismo interviene non solo con leggi, ma anche con la creazione di
istituzioni nuove per la preparazione di nuove figure professionali (Centro
Sperimentale di Cinematografia) e per la produzione (Cinecittà) e la
promozione (Mostra del Cinema di Venezia) del nuovo cinema italiano.
Nel secondo capitolo tratto dei prodotti della cinematografia del Ventennio. Qui
ricostruisco il progressivo adattarsi del cinema alle esigenze di propaganda del
regime, organizzando i film secondo un’organicità di temi. Il cinema di
propaganda attraversa tante e diverse fasi, ognuna segnata da un tema specifico
(che veicola agli spettatori ogni volta una diversa faccia del Fascismo). Si passa
dall’esaltazione dell’ideologia ruralista e squadrista delle origini, all’esaltazione
del Fascismo come forza tradizionale (alla ricerca della continuità storica del
fascismo con altri avvenimenti della storia patria: il cosiddetto “Fascismo
perenne”), al film coloniale (ideato per celebrare la forza civilizzatrice italiana
in terra africana), fino alla fenomenologia della guerra nelle opere della seconda
guerra mondiale (nelle quali però già incomincia ad apparire una spinta più
intimista ed un’attenzione al realismo più che all’esaltazione bellica). Infine
analizzo anche il cinema popolare, evasivo e “non allineato”: la commedia
cameriniana, il cinema dei telefoni bianchi e il gruppo dei calligrafici.
Il mio scopo è, inoltre, verificare la natura del rapporto tra Fascismo e settima
arte: se il fascismo intervenga direttamente nella produzione artistica, con la
creazione di film nazionali di propaganda del regime e dei suoi valori, oppure
in maniera indiretta, sollecitando l’adesione delle pellicole ai valori tradizionali.
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CAPITOLO I
INTERVENTI STATALI E POLITICA DELLE
ISTITUZIONI FASCISTE IN MATERIA DI CINEMA
(1924-1944)
Tra le due guerre notevoli cambiamenti attraversano e influenzano il cinema
mondiale.
In primis abbiamo il passaggio dal muto al sonoro. Avvenimento che apre una
nuova era nella narrazione filmica, imponendo alle industrie dello spettacolo
una necessaria sostituzione di macchinari sia per la registrazione che per la
proiezione e la sostituzione di vecchie figure professionali (attori e registi
specialisti del muto si ritroveranno senza lavoro nel nuovo cinema sonoro)
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,
nonché la creazione di ruoli tecnici prima inesistenti (ad esempio i tecnici del
suono).
Questo cambiamento, di certo non indolore e non facile, avviene in
contemporanea con il consolidamento dell’egemonia statunitense nell’industria
cinematografica mondiale, a dimostrazione di ciò quegli anni sono chiamati
“Era d’oro di Hollywood”. Sono anni nei quali si assiste alla “trasformazione
del cinema in industria”
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che porterà alla nascita del cosiddetto Studio-System
(1927-1948)
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. Questo comporterà una concentrazione oligopolistica nelle mani
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Numerose le pellicole che hanno raccontato questo nodo fondamentale nella storia del cinema
mondiale, per citarne alcune: Viale del tramonto (Sunset Boulevard) di Billy Wilder, 1950; The Artist
di Michel Hazanavicius, 2011; Hugo Cabret (Hugo) di Martin Scorsese, 2011.
2
C. Taricano, Il cinema italiano sotto il fascismo (1922-1945) in DVD La Repubblica, collana Lezioni
di cinema
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Per la fine dell’oligopolio dello Studio-System vedasi la causa dell’anti-trust nota come “Caso
Paramount” o “United States v. Paramount Pictures, Inc.” del 1948.
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di poche Major (Metro-Goldwyn-Mayer, 20th Century Fox, Paramount
Pictures, Warner Bros e RKO Pictures) e alcune Minor (Columbia, Universal e
United Artists) di tutti gli aspetti dell’industria: dalla produzione alla
distribuzione e all’esercizio del prodotto-film.
Il cinema negli anni Venti soppianta il teatro come forma di spettacolo nelle
preferenze degli spettatori, dunque diventa uno straordinario strumento per
raggiungere le masse. I regimi totalitari colgono questo aspetto usandolo come
“l’arma più forte” per il consenso.
In Italia, parallelamente alla crisi dello Stato liberale, ebbe luogo anche la crisi
del cinema. Quando Mussolini prese il potere, si ritrovò con un’industria
cinematografica dal passato stellare (precedentemente alla prima guerra
mondiale il cinema italiano era tra i più originali d’Europa, basti vedere solo il
kolossal del muto Cabiria
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), ma da un presente decadente: era ormai arretrata,
senza mezzi e senza capitali. Il mercato italiano del film, inoltre, era del tutto
dipendente dalle importazioni di pellicole statunitensi: essi superavano
abbondantemente la metà dei film proiettati, e fino al 1938 (entrata in vigore
della Legge Alfieri) gli incassi delle produzioni americane erano ben sette volte
superiori a quelli delle produzioni italiane. Queste crollarono letteralmente di
fronte alla terribile concorrenza degli efficienti Studios statunitensi. Alla fine
del 1922 la produzione cinematografica italiana era in un pantano, comportando
una fuga di attori e registi verso l’estero.
Queste dunque le basi con le quali il regime dovrà fare i conti nell’istaurazione
di una propria politica cinematografica: scarsità di mezzi finanziari, arretratezza
delle attrezzature, disorganizzazione e spietata concorrenza di produzioni
estere. Parlare di “politica culturale cinematografica fascista”, specie negli anni
Venti, è perciò azzardato: il regime sembrava quasi non curarsi del problema,
forse non volendo investire in un’industria totalmente allo sbando, trovando più
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Peplum del 1914 per la regia di Giovanni Pastrone, sceneggiatura di Gabriele D’Annunzio.
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semplice importare il cinema che produrlo
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, forse nemmeno pienamente
consapevole delle potenzialità e dell’importanza del mezzo-cinema quale
strumento per raggiungere le masse. Mussolini, negli anni successivi alla marcia
su Roma, aveva dato priorità al consolidamento del proprio potere sullo Stato,
per dirlo con le parole di Cannistraro: “Il primo e fondamentale obiettivo del
capo del fascismo era di assicurare la propria sopravvivenza politica. Non può
dunque sorprendere che in questo primo periodo [Nota: si riferisce al 1922-
1925] Mussolini trovasse ben poco tempo per preoccuparsi dei problemi della
cultura.”
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E ancora: “I fascisti cominciarono a pensare ai problemi culturali in
termini concreti soltanto in seguito ad una crisi politica che scosse
improvvisamente il paese […] l’assassinio da parte di agenti fascisti del
deputato socialista Giacomo Matteotti […] svolta cruciale nella storia del
fascismo”
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. Per cui non deve sorprendere se gli interventi del regime nei
confronti del cinema furono messi in atto solo dopo la costruzione politica della
dittatura fascista a partire dal 3 gennaio 1925
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.
Bisogna inoltre dire che in un primo momento il Fascismo mantenne una
divisione tra l’industria privata e la propria attività cinematografica, incentrata
soprattutto su film documentari e su cinegiornali di propaganda (prodotti dal
Luce). Soltanto dopo il 1931 i fascisti adottarono una politica cinematografica
di intervento statale, integrando privato e pubblico.
5
R. Redi, Lo stato riluttante: potere pubblico e cinema negli anni venti, in E. Magrelli (a cura di),
Sull’industria cinematografica italiana, Marsilio Editori, Venezia, 1986
6
P. V. Cannistraro, La fabbrica del consenso, Laterza, Roma-Bari, 1975 p.12
7
Ivi, p. 16
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Discorso di Mussolini al parlamento a seguito del Delitto Matteotti, che portò alle cosiddette “Leggi
fascistissime”. Vedi AA. VV. La Storia d’Italia, La Repubblica, vol. 20, pp. 354-355