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Introduzione
Il ricercatore Joseph Sheehan ha descritto la balbuzie utilizzando l’immagine
dell’iceberg: solo la piccola parte che è in superficie rappresenta i sintomi visibili
della balbuzie, ossia i blocchi, le ripetizioni, la tensione muscolare del collo, del viso
mentre gli aspetti sociali ed emozionali nascosti del disturbo sono sommersi e
costituiscono un fattore maggiormente invalidante per chi ne è affetto di quanto
non lo siano le manifestazioni evidenti sul linguaggio.
Anche se la maggior parte delle persone non se ne rende conto, perché lo da per
scontato, la parola e il linguaggio sono uno dei doni più importanti che la vita ci ha
dato. Rappresentano il mezzo, il canale per comunicare con il mondo, per
affermarci, per conoscerci, per amarci, per difenderci, per mostrarci. Quindi,
immaginate la sofferenza che può provare una persona che ha questo problema.
Il mio interesse per questo argomento nasce circa un anno fa quando ad
attraversare la porta del mio studio è un giovane di 22 anni affetto da balbuzie.
Dalla storia raccontata dal mio paziente e dai diversi casi clinici di adulti balbuzienti
che ho avuto modo di leggere, è emerso nel passato di questi soggetti un
accanimento sugli aspetti verbali con tecniche rieducative focalizzate
esclusivamente sulla correzione del sintomo fonetico ed interventi di tipo cognitivo-
comportamentale. Questi interventi nella maggior parte dei casi non hanno portato
a risultati duraturi nel tempo. Ciò mi conferma che molto spesso ci si sofferma più
sull’aspetto manifesto e meno sul dinamismo interno. Un ex balbuziente scrive: “gli
interventi rieducativi e comportamentali hanno messo più controllo sul controllo
mentale e fisico che io già esercitavo su di me”.
Quando ho scelto questo argomento ero ben consapevole di andare incontro ad
una scelta ardua in quanto c’è scarsità di letteratura in ambito gestaltico ed
analitico transazionale. Tuttavia tale difficoltà ha suscitato in me l’opportunità di
sistematizzare l’argomento, quanto più possibile, con le competenze acquisite nel
mio percorso formativo globale, affrontando il tema sotto l’ottica gestaltica,
analitico transazionale e corporea.
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Inoltre, ho approfondito le teorie foniatriche, le teorie organicistiche e le teorie
psicogenetiche (tra queste ultime la psicoanalisi e l’approccio cognitivo-
comportamentale) proprio per avere una visione globale delle modalità di
interpretazione del problema e ove possibile del relativo trattamento; ho
sottolineato l’importanza del lavoro sul sentire e sulla soggettività.
Prima di imbattervi in questo viaggio alla scoperta della balbuzie vi lascio con una
metafora che racchiude i punti salienti del mio lavoro.
La balbuzie è come giocare tre partite a scacchi contemporaneamente. Il primo
gioco è con la parola, che lotta per uscire dalla gola sforzando il corpo; il secondo
gioco è con l’interlocutore, di cui si osserva la reazione (l’incredulità, lo scherno, il
disagio, la paura, la vergogna); il terzo gioco è con se stesso e con la sua
spontaneità.
Buon viaggio!
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CAPITOLO I
Aspetti clinici della balbuzie
1.1. Definizione ed inquadramento nosografico
La balbuzie viene definita come un’alterazione complessa del flusso verbale
caratterizzata da inibizioni e interruzioni dell’eloquio che rappresentano il sintomo
principale di un disturbo complesso, multifattoriale e multidimensionale
determinato da fattori fisiologici, genetici, ambientali, cognitivi, emotivi e linguistici
(Rustin 1986, Manning 2001, Haley, De Nil & Conture 2005). Tutte le variabili sopra
elencate giocano un ruolo importante nell’insorgenza e nel mantenimento del
disturbo (Gregory, 1999). Spesso è una situazione scatenante a rompere l’equilibrio
psicoemotivo dando alla balbuzie come sintomo la possibilità di rappresentare uno
scompenso interno e latente della personalità e della relazione (balbuzie come
sindrome).
L'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità, 1977) definisce la balbuzie come
“Disordine del ritmo della parola nel quale il soggetto sa con precisione quello che
vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di arresti,
ripetizioni e/o prolungamenti di un suono che hanno carattere di involontarietà”.
Fattori organici
Fattori psicologici
Influenze
ambientali
Fattori
comportamentali
BALBUZIE
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Tale definizione ben sottolinea l’intreccio della componente psicologica con una
difficoltà dell’articolazione del sistema linguistico.
È bene sottolineare che disfluenza e balbuzie non sono sinonimi. Nel concetto di
disfluenza è centrale la definizione della sintomatologia primaria (blocchi e
ripetizioni), nella balbuzie diventa importante non solo la sintomatologia ma anche
il disagio soggettivo e la sintomatologia secondaria (tensione muscolare eccessiva,
lo sforzo di nascondere i sintomi primari e l’evitamento).
Secondo la definizione fornita da Wingate (1984), la disfluenza è una qualsiasi
interruzione o modificazione della fluenza, cioè della scorrevolezza con cui si legano
insieme le unità della produzione verbale.
Secondo i criteri del DSM-5 (APA, 2013), per giungere a una vera e propria diagnosi
si deve riscontare una condizione che interferisca in qualche modo con i livelli di
adattamento del soggetto alla vita sociale. In quest’ultima edizione del manuale
dell’American Psychiatric Association, viene finalmente riconosciuta con maggiore
chiarezza la componente neuropsicologica della disfluenza, tanto da farla rientrare
tra i “Disturbi del neurosviluppo”, ed inoltre vi è una precisa distinzione tra quello
che è un “Disturbo della fluenza con esordio nell’infanzia (balbuzie)” e il “Disturbo
della fluenza con esordio nell’età adulta”.
Disturbo della fluenza con esordio nell’infanzia (balbuzie)
Alterazioni della normale fluenza e della cadenza dell’eloquio, che sono
inappropriate per età dell’individuo e per le abilità linguistiche, persistono
nel tempo e sono caratterizzate dal frequente verificarsi di uno (o più) dei
seguenti elementi: ripetizioni di suoni e sillabe; prolungamenti di suoni;
interruzioni di parole (pause all’interno di una parola); blocchi udibili o silenti
(pause del discorso colmate o non colmate); circonlocuzioni (sostituzione di
parole per evitare parole problematiche); parole pronunciate con eccessiva
tensione fisica); ripetizione di intere parole monosillabiche (per esempio,
“lo-lo-lo-lo vedo”).
L’alterazione causa ansia nel parlare o limitazioni dell’efficacia della
comunicazione, della partecipazione sociale, o del rendimento scolastico o
lavorativo, individualmente o in qualsiasi combinazione.
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L’esordio del sintomo avviene nel periodo precoce dello sviluppo.
L’alterazione non è attribuibile a deficit motorio dell’eloquio o a deficit
sensoriali, a disfluenza associata a danno neurologico (per esempio, ictus
cerebrale, tumore, trauma) o ad altra condizione medica, e non è meglio
spiegato da altro disturbo mentale.
Nel sistema di classificazione ICD-10 invece per porre la diagnosi di balbuzie, non
occorre necessariamente un riconoscimento esplicito dell’influenza del disturbo
sulla vita sociale della persona, mentre si pone maggiore attenzione alla durata del
disturbo che deve essere di minimo tre mesi.
La balbuzie può essere accompagnata da sincinesie, ossia movimenti incontrollati
dei muscoli facciali e, nelle forme più gravi, di altre parti del corpo. È importante
saper riconoscere questi sintomi in tempo, poiché la ricerca ha stabilito che la
prognosi è tanto migliore quanto è minore l’intervallo temporale che separa
l’insorgenza della balbuzie dal primo intervento terapeutico (che con particolari
modalità può essere eseguito anche in età molto precoce). Anche perché ad
aspettare troppo si rischia che il disturbo si consolidi a tal punto da diventare
refrattario a qualsiasi intervento.
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1.2. Epidemiologia
La balbuzie colpisce circa il 2% della popolazione mondiale, secondo studi italiani e
europei circa 1-1,3% della popolazione italiana adulta ne è affetta e circa l’85% dei
casi presenta i primi sintomi in età prescolare.
È opinione comune che la balbuzie sia un fenomeno riscontrabile presso tutti i
popoli di ogni parte del mondo. La frequenza sembra essere rapportata al livello di
civiltà dei popoli stessi, nel senso che, mentre il disturbo è assente o quasi nei
popoli più primitivi, assume invece un andamento abbastanza rilevante nei paesi a
elevato sviluppo sociale.
A tal proposito, citiamo due interessanti lavori di Johnson (1955) e Lemert; il primo
autore avrebbe riscontrato che, presso alcune tribù Indios dell’America
Meridionale, non soltanto il fenomeno della balbuzie non sarebbe rintracciabile, ma
non esisterebbe neppure nel linguaggio comune un vocabolo atto a definirlo, sia
pure in modo approssimativo.
Il Lemert sostiene invece che, presso la tribù Indios della Columbia Britannica, il
fenomeno sarebbe apparso in data relativamente recente, in coincidenza della
civilizzazione missionaria.
Si è notata anche una maggiore incidenza del disturbo tra gli studenti che non tra
soggetti della stessa età che esercitino lavori manuali o meno impegnati sul piano
intellettuale. E del resto un fatto incontestabile che il disturbo si riscontra più
facilmente nei soggetti appartenenti alle famiglie più agiate, dove cioè l'ambiente
familiare e sociale gioca un ruolo di primaria importanza quale causa diretta o
indiretta della sindrome.
L’insorgenza è precoce e la maggior parte degli esordi è tra i 3 e i 5 anni (60% e
oltre), con andamento decrescente all’avvicinarsi della pubertà. In una percentuale
di casi, il periodo puberale coincide con la scomparsa del fenomeno. Più tardi
l’insorgenza del disturbo è del tutto eccezionale.
Per quanto riguarda la proporzione dei due sessi tra le persone colpite dal disturbo,
pur non essendovi perfetta concordanza statistica, è comunque dimostrata la sua
assoluta prevalenza nel sesso maschile, che diventa più evidente dall’infanzia all’età
più avanzata. Il rapporto è di 3:1 rispetto al sesso femminile. Manca tuttora una
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spiegazione valida di tale accentuata predilezione del fenomeno per il sesso
maschile.
Alcuni autori richiamano l’attenzione sullo sviluppo più precoce e più facile del
linguaggio nella bambina che nel maschio; altri (Sheehan, 1958) lo attribuiscono alla
maggiore competizione e produttività richiesta ai maschi che ora è richiesta anche
alle femmine. Da qui l’incremento di frequenza del disturbo, negli ultimi anni, anche
nel sesso femminile.
1.3. Fattori predisponenti di rischio
Numerosi studi non sono riusciti a dare una risposta univoca all’origine della
balbuzie. È chiaro, invece, quali possono essere i fattori di rischio che concorrono
all'instaurarsi di questo disturbo: in particolare, è possibile affermare che esiste una
predisposizione genetica e che alcune condizioni ambientali giocano un ruolo
fondamentale nel suo manifestarsi. Ci sono quindi dei fattori che provocano la
balbuzie e fattori che la mantengono o la aggravano; mentre dei primi non si
conosce molto, dei secondi invece si è a conoscenza ed è proprio su di essi che si
interviene per modificare l'andamento della balbuzie.
Molti studiosi (Sheehan, 1958) riconoscono, in base agli studi effettuati,
all'ereditarietà un ruolo di notevole importanza nelle eziopatogenesi della balbuzie.
Shames e Egolf (1976) ipotizzano che più che di eredità si possa parlare di
apprendimento per imitazione quando in famiglia un componente soffre di
balbuzie. Pare infatti che in un nucleo familiare in cui il padre balbetta, il figlio
maschio abbia il 24-25% di possibilità di presentare il disturbo, mentre la figlia
presente il 12-14% di possibilità. Se invece è la madre a balbettare, le percentuali
cambiano e diventano rispettivamente del 37% e 15%. Se entrambi i genitori sono
affetti da balbuzie, la probabilità che lo sia anche il figlio sale statisticamente fino al
70-80 %. Accanto a questo fattore imitativo dobbiamo tenere presente da una parte
l’importanza del ruolo affettivo che il genitore balbuziente esercita sul bambino, e
quindi il valore dell’identificazione che porta il bimbo a voler diventare simile a lui.