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INTRODUZIONE
Lo scopo di questa tesi è quello di indagare e studiare come il capitale umano venga valorizzato in
Italia e nel mondo ed in che modo contribuisca alla crescita di un Paese, non solo da un punto di
vista puramente economico ma anche sotto il profilo della qualità della vita. Tramite l’utilizzo di
numerosi database verranno creati i dataset necessari per compiere il presente studio. Affinchè lo
studio possa risultare il più completo possibile, verranno inizialmente esaminati e descritti i
principali e più importanti modelli di crescita economica endogena prodotti sino ad oggi e
successivamente verranno svolte le indagini statistiche necessarie per poter compiere un’analisi
approfondita ed accurata, sia a livello teorico che empirico. La presente tesi si articola in tre macro
sezioni: nella prima verrà svolta l’indagine a livello teorico; nella seconda si passerà al Ambito
della pratica, focalizzandosi su un contesto internazionale; infine nella terza ed ultima verrà
affrontato il caso italiano tramite il supporto del database di Almalaurea.
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1. MODELLI DI CRESCITA E CAPITALE
UMANO
1. LE TEORIE DELLA CRESCITA ENDOGENA
1.1 MODELLO NEO-CLASSICO
Tra la seconda metà degli anni’80 e i primi anni’90 si sono diffusi una grande varietà di modelli di
sviluppo endogeno in risposta ai modelli di sviluppo o crescita esogeni. Nei modelli neoclassici di
sviluppo, come quello di Solow, il tasso di crescita del reddito dipende essenzialmente dal tasso di
crescita della popolazione (o della forza – lavoro) e dal progresso tecnico, entrambi supposti
esogeni. Studiando i modelli neo – classici in materia, sappiamo che:
. gY = n + λ dove:
- gY = tasso di crescita del reddito (non pro capite) = crescita della produzione
- n = tasso di crescita dell’offerta di lavoro = tasso di crescita della popolazione
- λ = progresso tecnico
Supponendo che n e λ siano costanti tra loro, ci ritroviamo nel cosiddetto steady state e, nei casi in
cui ci si ritrovi in un sentiero diverso da quello di equilibrio, ci sarà una convergenza verso di esso.
Lo steady state è un percorso di crescita a tasso costante del prodotto pari alla crescita dell’offerta
di lavoro che, mantenendosi nel tempo, permette la costante piena occupazione o almeno un tasso
di disoccupazione costante.
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Per semplicità, prendiamo come punto di partenza la funzione di produzione di Cobb – Douglas,
tenendo in considerazione il progresso tecnico (A) che, per ipotesi, sarà positivo e costante:
. Y = A t (1− )
t
Da questa equazione ricaviamo la componente di reddito pro – capite:
. y =
= A
t (1− )
t
= A t (− )
t = A
= A (
)
α
= Ak
α
Poiché in tale equazione si suppone di trovarsi in una situazione di equilibrio e, sapendo che un
assunto fondamentale dei modelli neo – classici prevede che una situazione di piena occupazione
sia possibile se e solo se domanda ed offerta di lavoro coincidano, il tasso di crescita di L è dato da
n, il tasso di crescita del capitale (gkt) per addetto sarà così uguale alla differenza tra la crescita del
capitale (
Kt
) e la crescita del lavoro. Sapendo che I = sY, la funzione così delineata sarà:
. gkt =
k
- n =
- n =
Akα
- n = sAk
α – 1
– n
Graficamente:
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Q = Steady State
In k1 abbiamo un livello del capitale più basso rispetto a quello d’equilibrio ed un elevato tasso di
crescita del capitale (sAk
α – 1
). A questi livelli la produttività del capitale è elevata poiché K è scarso
e quindi la sua accumulazione sarà accelerata, facendo crescere rapidamente il capitale per addetto
k1 sino al punto Q. Gradualmente mentre il livello dell’accumulazione avanza, la rapidità dello
spostamento diminuisce poiché diminuisce la produttività del capitale, il quale diventa sempre più
abbondante. È dunque dimostrato che lo steady state è stabile e si converge sempre verso di esso.
Confrontando graficamente due economie in crescita con tutte le variabili uguali ma con una
propensione al risparmio diversa (s1 > s2), notiamo che:
1) Entrambe le economie hanno raggiunto lo stesso tasso di crescita del capitale per addetto (gkt).
2) È invece differente la loro propensione al risparmio che ha influito strutturalmente nel percorso
di steady state, facendo raggiungere ad s1 un livello di capitale pro capite maggiore. Avremo
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allora una convergenza solo tra livello di PIL pro – capite. Possiamo così distinguere tra due
tipi di convergenza:
- Convergenza condizionata: convergenza tra livelli di PIL pro – capite. Essa è raggiungibile
solo e soltanto tra due Paesi con economie con un’uguale propensione al risparmio. Tra gli
economisti del filone basato sulle teorie della crescita endogena, Pigliaru et Al. nella loro
analisi cercano di tener conto sia dei fattori produttivi che caratterizzano ogni Paese, sia della
teoria della convergenza condizionata neo – classica. Usando vari indicatori, hanno dimostrato
che anche per bassi livelli di istruzione e per sistemi economici non ancora da considerarsi
industrializzati esiste una convergenza di tipo condizionata. È così possibile ipotizzare una
convergenza tra fasce di Paesi basate su uno stesso livello di istruzione che ne caratterizzano la
crescita economica.
- Convergenza assoluta: convergenza tra i tassi di crescita del PIL pro – capite. È sempre
raggiungibile tramite un modello di crescita neo – classico.
1.2 TEORIA ENDOGENA
Dando per vere le teorie neoclassiche relative alla convergenza e considerando che il progresso
tecnico in questi modelli dovrebbe tendere a diffondersi uniformemente tra i vari paesi, vi
dovrebbero essere minori difformità nei tassi di crescita dei vari paesi rispetto a quanto in realtà si è
verificato. Nascono così le teorie di crescita e sviluppo endogeno.
La teoria della crescita endogena affronta il problema della non convergenza seguendo
fondamentalmente due strade:
1. Ridefinendo il progresso tecnico: il concetto di progresso tecnico inteso come free good
viene sostituito dal progresso tecnico endogeno. Ne deriva che se esso non è più reperibile in
ugual misura da ogni Paese, nel lungo periodo sosterrà la produttività dei fattori in misura
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differente da Paese a Paese. Inoltre diventa ammissibile l’idea che un paese industrializzato
abbia una crescita più rapida rispetto ad un Paese arretrato anche nel lungo periodo.
2. Allargando il concetto di capitale, in modo da eliminare ogni fattore ad esso complementare
e quindi anche la causa della sua produttività marginale decrescente. La teoria neo classica
ha sempre affermato che il capitale da solo non potesse essere sufficiente a spiegare lo
sviluppo di un’economia ma che necessitasse del supporto di altri fattori non riproducibili.
Essendo il capitale riproducibile - a differenza degli altri fattori di supporto di cui esso
necessita -, tale teoria ha sempre sostenuto che la produttività marginale del capitale fosse
decrescente. La produttività sarà così decrescente sino a che lo stesso meccanismo che
riproduce il capitale non sarà in grado di riprodurre anche i fattori complementari.
Ampliando il concetto di capitale ed assumendo per ipotesi che ogni fattore sia
riproducibile, possiamo accettare che la produttività marginale sia positiva. Considerando
come fattore principale per la formazione del capitale sia il capitale fisico (i lavoratori) che
il capitale umano (i lavoratori con alto livello di istruzione), otteniamo una funzione del
capitale basata su due fattori riproducibili.
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2. COS’È IL CAPITALE SOCIALE?
Il concetto di capitale sociale è diventato di uso comune solo di recente ma in passato il termine è
stato impiegato per quasi un secolo. La comparsa del termine “capitale sociale” si deve ad una
pubblicazione del 1916 negli Stati Unit, intitolata il Capitale Sociale appunto, ad opera di Lyda
Hanifan. Nel testo l’autrice definisce il capitale sociale come “quegli asset tangibili che hanno un
valore per la maggior parte delle persone durante la loro vita quotidiana: la buona volontà,
l’amicizia, la simpatia, i rapporti sociali tra le persone e le famiglie che compongono un’unità
sociale”. Tale definizione fornisce un’idea di cosa possa essere il capitale sociale ma non è da tutti
condivisa. Per sintetizzare, possiamo considerare il capitale sociale come un insieme di valori
condivisi e rapporti sociali che consentono agli individui di avere fiducia reciproca e lavorare
insieme. Negli ultimi anni il termine è entrato a far parte dell’immaginario collettivo grazie al best
seller di Robert Putnam (2000), “Bowling Alone: The Collapse and Revival of American
Community”. Secondo l’autore, all’aumentare della ricchezza del popolo americano è corrisposto
una graduale perdita del senso di comunità. Le città e le periferie tradizionali hanno lasciato il posto
alle cosiddette edge city, vasti luoghi in cui la gente va principalmente per lavorare e dormire.
Inoltre la maggior parte delle persone trascorre buona parte del proprio tempo sul luogo di lavoro o
in casa a guardare la televisione: il tempo per socializzare con gli amici e con i vicini diminuisce
così progressivamente, come pure l’aggregazione sociale. Per mostrare questo declino, R. Putnam
ha esaminato il modo in cui gli americani giocano a bowling, uno degli sport più praticati negli Stati
Uniti: mentre un tempo si giocava per mettersi in competizione gli uni con gli altri, adesso gli
americani semplicemente preferiscono giocare da soli. Si tratta di un indice del declino delle
comunità e della conseguente perdita di capitale sociale.
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2.1 VARIE FORME DI CAPITALE SOCIALE
Esistono numerosi dibattiti su quante forme di capitale sociale esistano. È tuttavia possibile definire
tre categorie principali di capitale sociale:
1) Bond Capital: le persone si relazionano tra loro secondo un senso di comune identità. Per
esempio nel caso della famiglia, degli amici stretti, delle persone con cui condividiamo la
stessa etnia o cultura.
2) Bridges Capital: relazioni che vanno oltre la semplice condivisione di un senso di comune
identità. Per esempio le relazioni tra colleghi e amici.
3) Linkages Capital: relazioni tra persone o gruppi a diversi livelli della scala sociale.
I potenziali benefici del capitale sociale sono visibili osservando i vari legami sociali. Amici e
parenti ci possono aiutare in vari modi – emotivamente, socialmente, economicamente. Nel Regno
Unito, per esempio, un sondaggio del governo ha scoperto che le persone sentono il proprio posto di
lavoro maggiormente stabile attraverso i rapporti personali che attraverso promozioni. Tale scoperta
è ancor più rilevante per quei Paesi con uno Stato di Diritto considerato debole o che offre pochi
servizi sociali: le comunità possono finanziare l’istruzione dei propri parenti, l’attività di job
searching, sostenere socialmente ed economicamente orfani ed anziani. I legami possono però
anche ostacolare le persone. Sebbene alcune comunità, come per esempio quelle degli immigrati,
hanno una forte presenza di bond capital per supportare i propri parenti e le relazioni con cui
condividono l’etnia, al contempo hanno una mancanza di bridges capital, che può ostacolare il loro
relazionarsi col mondo esterno, rallentandone la crescita. Anche le relazioni ed i rapporti di fiducia
che si vengono a creare all’interno di una banda di spacciatori o d’una organizzazione criminale
rappresentano una forma di capitale sociale. E come tutte le forme di capitale, talune forme del
capitale sociale possono danneggiare le persone. Per esempio la scelta del capitale sociale
“sbagliato” può arrecare danno all’organizzazione, facendo perdere di vista le relazioni importanti
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per l’organizzazione stessa.
Allo stesso modo il capitale sociale può anche aiutare un’organizzazione. Nella sua opera, R.
Putnam attribuisce una gran parte del successo della Silicon Valley negli Stati Uniti alla
cooperazione formale ed informale tra le varie compagnie e start – up in quell’area. Il capitale
sociale fornisce così il collante che facilità la cooperazione, lo scambio e l’innovazione.
2.2 LE CRITICHE
Il concetto di capitale sociale ha ricevuto anche delle critiche. Quella rivolta a R. Putnam riguarda il
concetto di capitale sociale che si erode. Secondo alcuni studiosi, infatti, il capitale sociale può solo
evolversi. Invece di riunirsi in squadre di bowling, le varie comunità si stanno evolvendo
radunandosi in gruppi sempre più ampi, come Greenpeace o Amnesty International. Questi gruppi
possono svilupparsi anche sotto forma di comunità virtuali, condividendo valori ed interessi comuni
senza mai incontrarsi fisicamente. Non tutti, però, sono convinti che queste nuove forme di
comunità abbiano gli stessi valori delle comunità tradizionali. I critici sostengono che il termine
“capitale sociale” sia troppo vago, difficile da misurare e mal definito (secondo alcuni economisti,
la formazione di capitale sociale deve prevedere un sacrificio nel presente per ottenere un vantaggio
futuro come, per esempio, stare a casa a studiare invece che uscire per giocare a pallone con gli
amici). Nonostante le critiche, però, l’interesse attorno al capitale sociale si fa sempre più alto,
anche a causa della crescente frequenza dei fenomeni di emarginazione sociale. In un sistema
economico basato sulla conoscenza si premia il capitale umano, mentre peggiora la condizione
lavorativa delle persone con un basso livello di istruzione che, spesso, sono anche le persone meno
abbienti. Alcuni analisti parlano della nascita di una sottoclasse all’interno dei paesi industrializzati,
che rischia l’esclusione sociale a causa di una mancanza di capitale umano ed il capitale sociale non