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“Le migrazioni sono la più antica azione di contrasto alla povertà,
selezionano coloro i quali desiderano maggiormente riscattarsi,
sono utili per il paese che li riceve,
aiutano a rompere l’equilibrio di povertà nel Paese di origine:
quale perversione dell’animo umano
ci impedisce di riconoscere
un beneficio tanto ovvio?”
John Kenneth Galbraith
Introduzione
L’intento di questo lavoro è quello di approfondire alcune tematiche legate ad un
argomento certamente molto discusso e di grande attualità, quale quello
dell’integrazione delle persone che immigrano nel territorio italiano. Stanti i più
recenti (e purtroppo dolorosi) fatti di cronaca, è ovvio come si tratti di un tema
profondamente discusso e non scevro da implicazioni ideologiche.
L’obiettivo è quello di rispondere alla domanda: cosa accade ad uno straniero che
sceglie di soggiornare regolarmente sul territorio italiano? Quali sono le politiche
messe in campo per favorire la convivenza nella nostra società fra persone
straniere e autoctoni? Quali sono le dinamiche a cui prestare attenzione per
valutare l’efficacia di queste politiche?
Il tasso di civiltà di un popolo si misura dal livello di comprensione nei confronti
di chi non è nostro concittadino o nostro connazionale. L’integrazione è quel
processo che consente a chi non condivide i nostri stessi elementi sociali (cultura,
lingua…) e giuridici (Costituzione, leggi..) di poter entrare nel nostro sistema e
sentirsi parte di una comunità. Tanti immigrati sono oggi parte della comunità
italiana e ne condividono, attraverso l’esperienza del lavoro o, per i più giovani,
dello studio, gli interessi e le speranze. Si tratta di una scelta: quella degli italiani
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di accogliere gli stranieri e quella degli stranieri di accettare leggi e costumi della
loro nuova casa.
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In Italia sono attualmente presenti in maniera più o meno stabile sul territorio
circa 5.000.000 di persone straniere a fronte di solamente 181.436 persone che
sono arrivate nel 2016 nel nostro paese (dati UNHCR) con i cosiddetti “viaggi
della speranza”, richiedenti asilo e rifugiati, a cui si prospetta un iter complesso
fatto di commissioni, di valutazioni sul proprio destino e due strade: il rimpatrio
o la permanenza sul nostro territorio in qualità appunto di rifugiato.
Se l’eco suscitata da queste 180.000 presenze è così forte, dall’altro lato ci si
domanda: cosa accade a questi 5.000.000? Come vivono le persone straniere che
hanno deciso di stabilirsi sul nostro territorio nell’ambito del loro progetto di
vita? Da dove provengono? Come sono inseriti nella nostra società?
Purtroppo affrontare questo quesito nel particolare momento che stiamo vivendo
significa farsi carico di tutte quelle implicazioni ideologiche che l’argomento
trascina con sé, supportate dai fatti di cronaca (o meglio da come questi fatti
arrivano al pubblico, veicolati dai principali media).
Riprendo le parole di Ettore Fusaro, responsabile Caritas del settore migrazioni
della Diocesi di Fano, quando afferma che “il dibattito sulla migrazione è basato
in maniera pregnante sulla percezione” piuttosto che sull’analisi dei dati. Vige
infatti una discreta confusione su chi sia il migrante regolare, sulla differenza fra
questo e la persona richiedente asilo o protezione umanitaria. Recentemente
inoltre si è acuita la diffidenza latente nei confronti dello straniero, soprattutto se
proveniente da territori in cui si è avuta una recrudescenza di episodi di
terrorismo di matrice religiosa e fondamentalismi, (e ancora più se di chiave
islamica…ciò porta alla folle equazione fra straniero proveniente da paesi di
cultura islamica e “terrorista”).
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Angela Pria, Stare insieme, per essere un insieme, in Libertà Civili, pp. 5-7, Anno IV, Secondo
Bimestre (2013), Roma
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L’Europa sta affrontando una sfida umanitaria, che sta diventando una crisi
politica e di governance.
Nel 2015, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni,
sono giunti in Europa 1.103.496 migranti, principalmente siriani, afgani, eritrei e
iracheni, tra cui i rifugiati e richiedenti asilo.
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Di questi, 1.067.008 è giunto via
mare; 150,317 in Italia, il 13,6% di tutti gli arrivi, lo 0,25% rispetto alla popolazione
totale. Il maggior numero di richieste è stato registrato in Germania e Ungheria,
seguono la Svezia, l’Italia (che accoglie principalmente eritrei, somali e nigeriani)
e l’Austria.
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Sono numeri importanti, certo, ma che non reggono il confronto con quelli
registrati in Medio Oriente a causa degli stessi eventi: 2.2 milioni i siriani rifugiati
in Turchia, 1.1 quelli in Libano e 633.000 in Giordania. Sono persone che fuggono
da guerre, conflitti socio-politici, ma anche da catastrofi ambientali e per motivi
economici. Di fronte a tale scenario l’ultima possibilità di una vita più dignitosa
è tentare di arrivare in Europa ed ottenere la protezione di tali diritti garantita
dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati e richiedenti asilo del 1951. Ci sono
poi altri numeri ancora più drammatici e tragici. Solo nel 2015 sono stati oltre
3.200 i morti registrati al largo delle coste greche, turche e italiane. 700 di questi
sono bambini. Solo di uno, ricordiamo il nome: Aylan, 3 anni, il cui corpo apparso
il 2 settembre sulla spiaggia di Bodrum in Turchia ha commosso il mondo. Degli
altri rimane solo il ricordo dei loro cari sopravvissuti. Nel 2016, sono decedute
5.022 persone. Sono numeri che fanno del Mediterraneo una delle frontiere più
mortali al mondo. Sappiamo non essere la sola.
Questi arrivi hanno suscitato un’eco clamorosa, hanno fatto parlare di
emergenza, di invasione. Però non possiamo parlare di emergenza in Europa se
confrontiamo i dati con ciò che accade nel resto del mondo. Come afferma
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OIM http://migration.iom.int/europe/
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http://newsletter2.ismu.org/?p=4383 Nel 2016, il numero degli arrivi via mare in Europa è calato
vertiginosamente: 361.678 persone
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Cristina Molfetta, responsabile Fondazione Migrantes e Caritas Torino, «Nel
complesso, la maggior parte della responsabilità globale di ospitare i rifugiati
continua ad essere sostenuta da Paesi confinanti con le zone di conflitto, molti
dei quali sono in via di sviluppo. L’Europa, su 100 persone che fuggono dal
proprio paese d’origine, ne accoglie 10». E’ evidente, quindi, come dietro ai
numeri ci sia l’interpretazione degli stessi, la percezione, appunto.
E in Italia? Secondo Eurostat, al 1º gennaio 2014 l'Italia era il quinto Paese
dell’Unione europea per popolazione immigrata, dopo Germania, Regno Unito,
Francia e Spagna. Era invece il terzo Paese dell’Unione Europea per popolazione
straniera, con 4,9 milioni di cittadini stranieri, dopo Germania (7 milioni) e Regno
Unito (5 milioni). Per numero di immigrati in percentuale rispetto al totale della
popolazione residente, l’Italia si classificava al diciottesimo posto nell’Unione
Europea (con il 9,4% di immigrati sul totale della popolazione), mentre per
numero di stranieri al decimo posto (con l’8,1% di stranieri). Vedremo nel corso
dell’opera di aggiornare questi dati e contestualizzarli.
Le società occidentali si sentono messe alla prova, l’Italia non fa eccezione. Anzi,
per quanto riguarda il nostro paese, il dibattito tra accogliere o chiudersi si radica
in un terreno fertile alle derive intolleranti: poiché, come sappiamo, in Italia
l’immigrazione straniera è un fenomeno relativamente recente, che data attorno
agli anni ’70, è probabile, come sostengono gli addetti ai lavori, che ci troviamo
ancora indietro, che scopriamo solo ora di essere un paese d’arrivo e lo facciamo
in maniera “brutale”.
Come afferma CILD - Coalizione italiana Libertà e Diritti Civili, nel lanciare
l’iniziativa #OpenMigration a dicembre 2015, “al di là delle posizioni sul tema,
c’è una generale e diffusa mancanza di conoscenza sui dati reali, le dinamiche
globali e le motivazioni dei flussi migratori legati alla povertà e alle guerre. Tale
fenomeno è aggravato dai media che spesso manipolano la rappresentazione dei
fatti, perpetuando una disinformazione cronica che alimenta paura, intolleranza
e la negazione dei diritti fondamentali delle persone.” Le continue tragedie in
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mare di cui sono vittime le persone che cercano di raggiungere l’Europa generano
reazioni di indignazione e di solidarietà, ma anche allarme, indifferenza e
razzismo, sia da parte della società che della politica.
Il problema dei rifugiati e richiedenti asilo, da un lato, genera l’idea
dell’invasione. Dall’altro, i drammatici eventi legati al fondamentalismo
religioso, alla nascita del califfato e agli attentati terroristici compiuti in nome del
fanatismo generano l’idea che le persone che arrivano nel nostro paese siano
sovvertitori dell’ordine sociale, criminali propensi a delinquere più degli
autoctoni, terroristi in attesa di sferrare un attacco letale alle nostre democrazie
(a partire dagli attacchi di Parigi, di Ankara, di Brussels, di Nizza, di Berlino…).
Vengono create connessioni fra questi fenomeni distinti (da un lato persone che
fuggono a conflitti o povertà, dall’altro il dilagare di fondamentalismi religiosi in
chiave terroristica): connessioni che forse non sono così immediate o così evidenti
e che prestano il fianco a fraintendimenti e, soprattutto, a episodi di intolleranza
verso gli stranieri presenti sul nostro territorio.
L’intolleranza è alimentata dalla scarsa conoscenza di un fenomeno quale quello
migratorio, che contiene in sé diverse sfaccettature…la prima grande distinzione
da fare è appunto quella fra stranieri presenti sul nostro territorio in qualità di
richiedenti asilo o protezione umanitaria, e stranieri che permangono sul nostro
territorio perché ivi residenti, magari in attesa di vedersi conferita la cittadinanza,
persone che hanno intrapreso il proprio progetto migratorio da anni e che vivono
in Italia con i propri figli nati e cresciuti qui.
Casi di scontri e problematiche legate alla presenza degli stranieri in Italia sono
all’ordine del giorno: basta scorgere, come vedremo nel prosieguo del lavoro, i
quotidiani locali e nazionali e seguire la retorica dei principali leader politici.
Tali avvenimenti, pur circoscritti, ripropongono nell’opinione pubblica la
relazione fra immigrazione, integrazione e ricerca di sicurezza nelle società
d’arrivo.
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E’ attuabile una forma di integrazione? È giusta? Siamo soggetti ad un’invasione
straniera che pone a rischio la nostra cultura occidentale, o per meglio dire la
nostra idea di cultura, come qualcosa di unico e dai contorni definibili e
circoscrivibili?
Parole come scontro di civiltà e invasione, che appaiono sui principali media
nazionali ogni volta che un caso di cronaca vede coinvolto un immigrato,
proposte trasversalmente da parte dei vari schieramenti politici, mal celano l’idea
di fondo che l’accoglienza nei confronti degli stranieri sia, forse, non solo non
auspicabile ma, di base, impossibile da realizzare.
Ovviamente si levano da più parti anche voci a favore di un’idea di apertura
all’altro, di tolleranza e di rispetto dei diritti ma, a parere della scrivente, si tratta
di una posizione attualmente minoritaria e comunque legata ad una labile
situazione di precarietà: fin quando non ci sono problemi di convivenza,
possiamo valutare una qualche forma di integrazione, sempre, beninteso, alle
nostre condizioni. Quando malauguratamente avviene un episodio che turba
l’equilibrio precario degli assetti, la posizione diffusa sembra essere quella di una
retrocessione nella sfera dei diritti acquisiti da parte degli immigrati che vivono
in Italia.
Sicuramente negli ultimi anni qualcosa è cambiato e l’opinione pubblica è
maggiormente pronta ad accettare la sfida imposta dalla convivenza con il
diverso. Molto è stato fatto e si fa ancora, soprattutto grazie al lavoro di
moltissime associazioni di terzo settore disseminate sul territorio e grazie al
lavoro che si fa quotidianamente nelle scuole, forse il primo “campo di prova” in
cui la diversità viene vissuta quotidianamente con tutte le sue sfide e le sue
contraddizioni.
Stante l’ampiezza del tema, chi scrive non ha pretesa di esaustività, consapevole
che la parola stessa “integrazione” cela in sé una moltitudine di sfaccettature e
significati, non universalmente condivisi. Il termine stesso, integrazione, è messo
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in discussione ora più che mai; si preferisce usare altre espressioni, tra cui il
termine interazione.
Qui la parola integrazione viene usata per identificare le politiche, privato delle
sue connotazioni positive o negative. Definisco così quell’insieme di
provvedimenti che fanno parte della governance della migrazione a livello
Europeo, Nazionale, Regionale e di Enti Locali.
Tuttavia, una considerazione va fatta: attualmente si sente spesso parlare del
tema immigrazione come se in qualche modo fosse arginabile, come se non fosse
un processo fisiologico. Mentre, nell’opinione di chi scrive e di molti studiosi e
uomini politici di calibro ben maggiore, sarebbe forse più corretto partire
dall’assunto evidente che il processo di mescolamento nella società è qualcosa di
inevitabile, di inarrestabile, e partire da questo dato di fatto per concentrare gli
sforzi politici, economici, culturali per comprendere come affrontarlo nella
maniera migliore o, se non altro, più indolore.
“Il futuro dell’Italia passa dall’integrazione dei migranti” afferma il Presidente
Mattarella in occasione dell’apertura dell’anno scolastico 2015/2016, rivolgendosi
in special modo ai giovani.
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Scopo della presente narrazione è quindi quello di delineare in generale il tema
e di approfondire in modo particolare le politiche migratorie attuate negli ultimi
anni nella Regione Marche, analizzando in modo particolare il caso della
provincia di Pesaro Urbino, partendo dal quadro statistico (nazionale e regionale)
al fine di delineare numericamente il fenomeno dei flussi migratori e ponendo in
rilievo il ruolo dei vari attori implicati nel processo, soprattutto il terzo settore
(associazioni, organismi religiosi, organizzazioni non governative, reti e
coordinamenti).
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http://www.ilgiornale.it/news/politica/mattarellail-futuro-dellitalia-passa dallintegrazione-dei-
mi-1176376.html
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Nel primo capitolo si prendono in esame alcuni assunti base della teoria delle
migrazioni e gli aspetti quantitativi legati ai flussi migratori sul territorio europeo
e nazionale.
Nel secondo, si analizzano gli aspetti di governance del fenomeno migratorio a
livello europeo, nazionale e regionale.
Nel terzo, vengono analizzate le sfide che la presenza straniera ci impone, ma
anche i vantaggi che derivano da tale presenza.
Nel quarto, infine, si analizza il caso della Regione Marche e della provincia di
Pesaro Urbino, con un focus particolare sul ruolo del terzo settore
nell’integrazione degli stranieri.
La metodologia che è stata usata ha previsto la consultazione di testi scritti, di
archivi on-line e di interviste e ricerche realizzate nel territorio provinciale di
Pesaro Urbino. Il lavoro è stato svolto soprattutto attraverso il coinvolgimento
degli organismi di terzo settore della provincia, a partire dall’Associazione
L’Africa Chiama Onlus, attiva nel territorio di riferimento da più di 16 anni, che
ha garantito alla scrivente, ivi impiegata da circa 6 anni, un punto di osservazione
privilegiato per tutto ciò che concerne il lavoro con i migranti presenti sul
territorio.
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“Il passato si mescola al presente, il presente al futuro;
i morti si mescolano ai vivi e a coloro che devono ancora nascere;
lui stesso, Kunta, si mescolava alla sua famiglia,
ai suoi compagni, al suo villaggio,
alla sua tribù, alla sua Africa;
il mondo dell’uomo si mescola al mondo degli animali e delle piante;
tutti vivono nel segno di Allah. Kunta si sentì molto piccolo
e nello stesso tempo molto grande.
Forse, pensò, diventare uomo è proprio questo.”
Alex Haley, Radici
Capitolo 1: analisi quali-quantitativa del fenomeno
migratorio
1.1 «L’uomo è un animale migratorio»
Le migrazioni sono forme di mobilità territoriale di natura soprattutto volontaria,
che hanno caratterizzato la vita dell’uomo sin dall’antichità. Anzi, secondo molte
teorie, proprio la nostra mobilità ci ha consentito di diffonderci e sopravvivere
sul pianeta, circa 1,5 milioni di anni fa, quando l’Homo Erectus, partendo
dall’Africa, ha colonizzato il 75% delle terre emerse. Secondo altre teorie, il
processo ha inizio in epoca molto più recente, circa 100.000 anni fa, ad opera
dell’Homo Sapiens.
In ogni caso, questi dati ci consentono di assentire almeno su un punto: il concetto
di mobilità territoriale è antichissimo, connaturato con la nostra evoluzione ed in
un certo qual modo necessario alla nostra sopravvivenza. Tale caratteristica della
nostra specie è connessa all’incredibile capacità dell’essere umano di adattarsi
socialmente e culturalmente a nuovi ambienti. Motivazioni economiche, sociali e
culturali sempre più articolate hanno contribuito a disegnare il quadro