5
INTRODUZIONE
… Alla poetica cinematografica
La poetica è la carta d’identità di un opera d’arte, precisamente è tutto quanto viene scritto
nel campo “segni particolari”. La sua utilità è declamata:
La subitanea possibilità di farci largo e muoverci con agilità tra migliaia e migliaia
di contenuti differenti e versatili.
L’aiuto fondamentale che ci consegna nello svolgere l’arduo compito del
“riconoscimento”, dell’identikit di un testo (il termine è qui usato nella tradizionale
accezione di “genericità” che ne dà la semiotica), di un autore, di uno stilema.
La sedimentazione, il fissaggio, come vero e proprio atto di memorizzazione solida,
perspicace e ben schiarita, delle differenti monadi in cui vengono incastonati i vari
“uomini dell’arte”.
L’inebriante convinzione di una sapientizzazione, ossia l’orgoglio e l’abilità di
essere sempre pronti e preparati, in un modo che si prova a rendere più esteso e
completo possibile, ad ogni chiamata in causa, ad ogni richiesta di chiarimento.
Sembra trattarsi prima di tutto di un esercizio, di una facoltà mentale, e, di fatto, lo è. La
sua primaria responsabilità consta nel permettere a chi la adopera di avere, in maniera lucida,
ordinata, selezionata ed organizzata spazialmente, l’intera conformità ed enclosure di un
sapere e di una cultura (cinematografica, nel nostro caso). In tutto ciò è però necessario non
cadere e, soprattutto, non ricondurre le scoperte assimilate, ad una statica ed in-artistica
fruizione di etichettature, un’attività categorizzante, un lavoro di stile, di cassetti e di pura
mnemonica, ad una o più dottrine.
La maggior parte dei critici
1
sostiene che le poetiche cinematografiche possano sorgere in
qualunque periodo della storia di quest’arte; come tale potremmo assistere ad alcune poetiche
cinematografiche che affiorano negli anni cinquanta, ad altre poetiche nuove e diverse che
nascono nei novanta, ed altre ancora, mai viste e di rottura, destarsi negli anni duemila (le
1
I pochi nomi di poetica cinematografica “ufficialmente” diffusi e valorizzati (il montaggio delle attrazioni, il
metodo dialettico di Ejzenštejn, l’empirismo eretico di Pasolini) provengono: o da una definizione diretta
dell’autore (come negli esempi qui citati) o dalle riflessioni relative e personali di qualche critico o di un testo
specifico, che per questo non vengono condivise unanimemente dal mondo degli addetti ai lavori, e dunque
risultano prive di una seria e apprezzata scientificità.
6
annate sono a titolo esemplificativo). E’ mio modesto parere, invece, pensare che basterebbe
prendere solamente i film più rappresentativi dei primi anni della storia del cinema per
ritrovare condensati in essi già tutte le poetiche cinematografiche di cui la settima arte (per
qualcuno in maniera distributiva e distintiva nel corso degli anni) ci ha finora fatto dono
2
. Si
tenga ben presente che quando si parla di poetica cinematografica si parla di contenuti
3
. Ora,
se prendiamo questi stessi film “aurorali” e proviamo a replicare il discorso a livello di
tecnica e linguaggio, ciò appare impossibile; è infatti evidente, per ovvi motivi filmologici,
che la copertura di mezzi e innovazioni pratico-industriali che tali opere possono concedere, è
del tutto irrilevante ed inferiore a quella offerta, ora sì in modo graduale e segmentario, da
tutti i film susseguitisi negli anni avvenire. Vale dunque stavolta la degna lettura di
un’invenzione tecnico-linguistica, rinnovata anno dopo anno, che permette di creare, ex-novo
ed ex-nihilo, escamotage di ripresa sempre più rinomati e avvincenti, di un cinema che
cambia in ogni decennio il suo modo o, meglio, i modi, di fare “immagine”. Ciò è impossibile
a livello di poetica: questo in quanto la poetica ha a che fare con l’arte (nel suo senso più
deciso e puro) e con la vita, ossia con enti dal valore assolutizzante e totalizzante
4
(e, con
termine dal fascino debordiano, dall’origine “incondizionata”), cioè universali
5
, ma non in
senso trasversale (in tutti i fatti, in tutta la materia, in ogni luogo), bensì verticale, come “ciò
che da sempre è già presente” (condizione di immanenza). Linguaggio e tecnica, invece,
appartengono alla “creazione”, che per la sua stessa definizione di produzione (atto) realizzata
2
Luciano Anceschi, Progetto di una sistematica dell’arte, Milano, Mursia, 1997, p.70-71: “I generi appaiono tali
da essere indicazioni di problemi e soluzioni possibili a situazioni poste da una determinata cultura poetica, segni
simbolici di poetiche; e, pertanto, i loro connotati sono: nascita contemporanea a quella dell’arte. (…) Il genere
è un simbolo di poetica storica”.
3
Storicamente, per poetica, si intende uno studio inerente alle forme e all’estetica dell’oggetto artistico: “La
poetica tratta di problemi di struttura verbale, esattamente come l’analisi della pittura si occupa della struttura
pittorica; quindi dato che la linguistica è la scienza che investe globalmente le strutture linguistiche, la poetica
può essere considerata una parte integrante della linguistica” (L. Anceschi, “Della poetica e del metodo”, in Studi
di Estetica, n.1, 1973, p.14, frase di Roman Jakobson). Ma, sempre Anceschi, nello stesso testo, ci ricorda che
(pp.37, 39): “Nessuna definizione preliminare può porsi qui per orientare la ricerca; i criteri conviene che
nascano dall’interno della ricerca stessa” e ancora: “L’idea di poetica non si esaurisce nella definizione (…); essa
vive in un’aperta multilinearità di definizioni possibili collegate tra loro da una trama di relazioni attive”. Questo
implica, in assenza di una definizione precisa che in quanto tale varia in base al carattere interno della ricerca, di
poter adattare i criteri di impostazione generale della poetica, di volta in volta, alle finalità che vengono
prestabilite. In dotazione a questa libertà, premettiamo, per logiche che verranno affrontate nel corso
dell’esposizione, la metodologia contenutistica come parametro strutturale di ogni poetica cinematografica.
4
Georg W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, a cura di Vincenzo Cicero, Milano, Rusconi, 1995, p.963:
“Questi uomini sono artisti che non esprimono in modo inconsapevole, naturale e ingenuo, l’esteriorità delle loro
decisioni e delle loro imprese, come avviene nel linguaggio che nella vita reale accompagna l’attività ordinaria;
essi, al contrario, esteriorizzano l’essenza interna …”.
5
Aristotele, Poetica, Milano, Bompiani, 2010, p.77: “[la tecnica e la poetica, NdC] ma differiscono in questo,
che l’uno dice le cose accadute [pratiche-materiali, ciò che è chiaro, NdC] e l’altro quelle che potrebbero
accadere [tematiche virtuali, ipotesi, che nascondono qualcosa dietro: da sempre esistente, che come tale lo si sa
riconoscere, e quindi si prevede che avverrà anche in un indomani, NdC]. E perciò la poesia [la poetica, NdC] è
cosa più nobile e filosofica della storia [la tecnica, NdC], perché la poesia tratta piuttosto l’universale, mentre la
storia del particolare”.
7
tramite la produzione medesima, e di oggetto, e non di compimento, di un’azione (del creare),
è temporalmente e continuamente ripetibile e riproponibile, ri-creabile (almeno fin quando
esisterà qualcuno in grado di adempiere ad essa, ossia l’uomo). Si ricordi, inoltre, che la
creazione è parente dell’artificio. Il cinema è manifestazione finita di sostanza ed infinita di
forma. Queste due procedure possono essere raggruppate nei seguenti modelli archetipici di
pensiero:
Irrazionalità: poetica cinematografica, arte, vita.
Razionalità: tecnica, linguaggio, uomo, creazione, artificio
6
.
Uno dei primi punti fissi da segnalare a proposito della poetica cinematografica è la sua
capacità di racchiudere entrambi tali collimazioni figurali di riferimento, di essere razionale
ed irrazionale allo stesso tempo. Un’utile chiarimento della linea sostenuta si può ricavare
dall’osservazione di un mio espediente personale, che nient’altro è se non il racconto del
primo incontro con la poetica cinematografica, dunque con l’immancabile svelamento a
partire dal quale si sarebbe mosso l’interesse per l’argomento. Durante la visione del film Il
Divo (Il Divo, Paolo Sorrentino, 2008), ebbi l’impressione, e nulla di più, a pelle, di colpo,
che, ad un livello più retrospettivo e trascendentale, tra lo schermo e l’immagine che su di
esso viene proiettata, si celasse, come deformazione unificante, nonché iconica di tutto il film,
la forma trasfigurata di una Gabbia: nel film le uniche gabbie erano quelle delle celle in cui
rinchiudevano i vari delinquenti; un po’ poco per pensare che il film parlasse di gabbie (o,
preferendo, di prigioni/e). Infatti, i temi dell’opera erano altri: politica, potere, (in-)giustizia,
Andreotti. Ma quel lapsus riempiva, sprezzante di ogni smentita, la policromia di tutti i
pensieri che in quel momento mi sorgevano. Decisi, quindi, di fidarmi di questo mio istinto
(l’irrazionalità), così generoso nel mostrarmi una diversa via al significato, e di imboccare
quella strada con fiducia, cercando di dare razionalità e comprovata scientificità a tale
“schiusura”, tramite la requisizione oggettiva e definita di palesi elementi, interni al film, che
assicurassero una quanto minima validità della mia folgorazione. In un apparato base che
assurge a rese euristiche, la poetica cinematografica si conforma come “ispirazione
razionalizzata”.
Qualcuno potrebbe chiedersi dove sia la novità; Sembra normale e comune, quando si
affronta l’investigazione di un’oggetto culturale (anche se forse non per tutti, ma sicuramente
6
Dalla consultazione dell’opera di Luciano Anceschi, possiamo ricavare delle utili riformulazioni alle due
nomenclature qui esposte: Eteronomia-Razionalità (attorniato e pressato dalle leggi, dedito all’agire pragmatico,
attento all’esteriorità, all’istituzionale, decoroso) e Autonomia-Irrazionalità (privo di leggi, sciolto, libero,
audace, scandalo), che rendono già più semplice l’interazione con la concettualità che si sta visionando: si pensi
al mito di Antigone, dal contesto eteronomo ma con protagonista un’eroina autonoma.
8
per una grandissima quantità di ricercatori), appropriarsi di una simile modalità per
addentrarsi nei risvolti artisticamente dissociati che ogni autore dispiega nel suo agire, da
temperare tramite ragione. Certamente qui non si mette in dubbio, per una semplice questione
di atemporalità dei processi mentali, l’esistenza nei secoli di un’operazione di tale tipo, ma ciò
che si imputa e richiama all’attenzione è la perizia e la disciplina con cui viene svolta. Se di
una trasformazione si tratta, ossia della solidificazione di un soluto informe e astratto (il flash)
in materia compatta e corroborata (la teoria), occorre che il punto di arrivo sia diverso dal
punto d’inizio, cioè, che quanto si vuole far avvenire non continui a portarsi dietro quanto,
invece, si cercava di far sparire, che nel momento in cui subentra la matematica e l’ordine,
terminino l’irrazionalità e l’incertezza
7
. Sta qui il grande demerito della poetica
cinematografica finora conseguita nel Novecento
8
, in cui quasi sempre la teoria trasporta e
conserva ancora i residui della fase originaria, l’incapacità dello studioso di liberare
completamente la sua mente, durante la fase di crociera, del transito strutturale, dalle
affabulanti visioni dell’input discoprente
9
, che così finiscono naturalmente per reinserirsi,
sotto forma di sentimenti irrazionali, quando si va ad assegnare una cornice stabile a tale, fino
ad allora, sconquassato disegno. La teoria risente troppo di un complesso di
soggettivizzazione (e quando parlo di complesso intendo un’intima difficolta a svincolarsi
dalle resistenze del primo momento, del primo stadio) da parte del critico, danneggiando tutte
le sue manovre epistemologiche-deduttive. Avviene, sia per una fortissima componente
autoreferenziale dell’esaminatore, ma anche per il trasporto, la con-partecipazione, l’impulso
e l’indole, che troppo si sentono e fanno sentire nei testi di poetica da parte di chi procede al
commento. Potremmo dire, semplicemente, che ciò che manca, e che spesso tali autori hanno
dimenticato, è la tecnica e il linguaggio.
Quando si parla di poetica nel cinema, lo si fa in almeno due versioni:
7
Aristotele, op. cit, pp.131, 135 e 139: “Le cose irrazionali vanno ricondotte a quel che dicono e così si possono
giustificare adducendo che a volte non è irrazionale giacché è verosimile. (…) Si debbono preferire cose
impossibili ma verosimili a cose possibili ma incredibili, e non si debbono comporre gli argomenti di parti
irrazionali, e anzi di irrazionale non dovrebbe esserci niente, o, se questo non è possibile, che almeno sia fuori
del racconto [stilisticamente, NdC]. (…) Ha rappresentato le cose né come sono né come debbono essere, si può
rispondere che così si dice che siano, come ad esempio le cose concernenti gli dei; giacché forse parlarne così ne
corrisponde alla realtà né la migliora, ma pur tuttavia è così che se ne parla”.
8
Si vedano quelli che sono considerati “capisaldi” della poetica (cinematografica) novecentesca: il Charlie
Chaplin (1937) di Ejzenstejn, Sei film (1964) di Antonioni, Il cinema secondo Hitchcock (1967) di Truffaut,
Scolpire il tempo (1986) di Tarkovskij, Lanterna magica (1987) di Bergman.
9
Luciano Anceschi, Autonomia ed Eteronomia dell’opera d’arte: saggio di fenomenologia delle poetiche,
Milano, Garzanti, 1976, p.57: “Essa è sintetica, immediata, una presa diretta e concreta dell’oggetto, riguarda le
forma che son comuni alla natura universa e considerata isolamente e, nello stesso tempo, come componente un
tutto; «la fantasia è il potere di rendere plastiche le cose» ha detto Novalis: «l’immaginazione è il potere
esemplastico» ha detto Coleridge: e tutt’è due hanno colto la qualità unificatrice e sintetica dello spirito poetico
(…)”.
9
La poetica che risponde alle conoscenze e agli studi del critico e dell’artista, quindi
una poetica specializzata.
La poetica dello spettatore, che nel suo non poter fare a meno, una volta uscito dalla
sala, di disquisire ed intrattenersi su quanto appena visto, finisce, indirettamente, per
parlare di stili, regia ed immagini, quindi per fare poetica a tutti gli effetti
10
.
Soffermiamoci su questa seconda, in quanto risulta più facile da chiarire. Non si tratta di
prendere una posizione mandarinesca, dall’alto in basso, o di muoversi alla stregua di un
atteggiamento elitario di impertinenza e diffida verso il pubblico, paragonato a “popolino”,
ma è una semplice valutazione di autorità: le dichiarazioni non professionistiche, né accurate
con zelanteria di un appassionato come un altro, non potranno mai avere le stesse rispondenze
dell’oculata diagnosi di un mestierante nel settore. Non c’è alcuna discriminazione, solo
oggettività e realismo: è sempre indispensabile che si faccia una serena e pulita distinzione tra
competenza e divulgazione, specializzazione e massificazione, dettaglio e quantificazione.
Passiamo al primo punto; una sintassi che fa capo alla poetica, come il suo significato
travagliato, nella settima arte, è stata sicuramente abusata. Questo rientra nell’intensificazione
ermeneutica di cui tutto il pianeta cinema è vittima a causa della sua giovane età. Avere così
pochi anni di vita
11
e, quindi così poche cose da dire, teoricamente, rispetto alle altri arti, già
munite di meccaniche di stratificazione, distensione, vaglio, di cui il cinema è normalmente
privo, fa in modo che ogni argomento di tale marasma, piccolo o nevralgico, sia divenuto
luogo di innumerevoli trattazioni e di sconfinate attenzioni, alcune con giusto merito, ma
molte con inqualificabile prepotenza e senza le opportune stime. In attesa che il tempo
suddivida, con appropriati livelli di selezione, ciò che è importante da ciò che lo è meno,
scremando l’eccesso di scritture inerenti a divulgazioni eufemisticamente minori (biografie su
cineasti di tutti i tipi e dalla precaria attestabilità o l’indispensabile famelicità nel corrodere i
miti con centinaia, e spesso tutte uguali, pubblicazioni ataviche), il fenomeno può sintetizzarsi
come una pochezza quantitativa di esposizioni che moltiplica il fare quantitativo, ossia
superficiale e non compiuto, di approcciarsi a queste esposizioni. Detto ciò, paradossalmente,
a questo scompenso nozionistico e critico non corrisponde, editorialmente, un così grande
10
Rosalba Pajano, La nozione di Poetica, Bologna, Patron, 1970, p. 102: “Questa interpretazione estensiva della
nozione di poetica si può riferire, oltre che alle poetiche interne, di artisti cioè, o di gruppi, movimenti, correnti,
anche alle poetiche esterne, a quelle professate, se pure non trovino formulazione esplicita, dal pubblico che in
una certa situazione storico-culturale accetta o respinge l’opera di certi artisti o la produzione di certi gruppi o
movimenti”.
11
Glauber Rocha, Saggi e invettive sul nuovo cinema. Antologia da “Revolucao do Cinema Novo”, a cura di
Lino Miccichè, Torino, Eri, 1986, p.32: “Un’arte con appena sessant’anni [oggi, quasi il doppio, NdC] non è
ancora maggiorenne. Un giorno rideremo molto di tutti questi classici” (frase di Miguel Torres).
10
numero di volumi sulla poetica cinematografica, anzi, volendo dirla tutta, non esiste nessun
testo che si sia mai occupato primariamente di tale discussione, almeno non con le sembianze
e le dinamiche qui elaborate. Infatti, i pochissimi testi che mostrano, in modo consistente e
non limitativo, un interesse per questa realtà, scritturano la poetica come “poetica del
cinema”, ossia una direttiva che non richiama l’evasione del pensiero di un autore, ma la
sollecitazione delle componenti peculiari che contraddistinguono l’arte cinematografica:
poetica come filosofia del cinema, teoria del cinema, teorica; un esempio, incentrato sul
sonoro, di questo modo di pensare la poetica, nonché uno dei rarissimi testi che dà un
notevole minutaggio al tema, è il saggio di Chion, Un’arte sonora. Il Cinema
12
, che, a ribadire
quanto finora detto, è l’unico libro che tratta di poetica cinematografica inserito nella
bibliografia di una tesi, anche, sulla poetica cinematografica.
E quando, invece, lo studio sembra gettare lo sguardo sul regista, paga quel prezzo di cui
prima si parlava; sembra che l’osservazione (scientifica) sia fatta di getto, con
approssimazione, con tanta e troppa emotività, sentimentalismi, come un abbozzo,
inconcludente, tutta puntellata della passione e dell’animosità che il critico associa alla
composizione (tra il film-guardato, prima, e il film-meditato, dopo) di quella visione, di quel
cinema. Manca, dunque, la dote nel condurre il travolgente sommovimento del “nuovo”
rinvenuto, verso il parsimonioso inseguimento di un tacito accordo, di un’aria condivisa, che
immetta nel frutto sconcertante della poesia (che è termine originario di poetica) una
macchinazione raziocinante. Contro uno studio da laboratorio, freddo ed esageratamente
morboso e inquadrato, asfittico, questa poetica cinematografica riscopre l’importanza
dell’indefinito e dell’infondato, ma solo a patto che divenga chiave di apertura, questo come
elemento fondante, e poi punto di partenza, di una trattazione metodologica e scientista
determinante nella computazione finale della teoria. Il sogno irrazionale come accensione, la
cura razionale come cura alla e della poetica. Con il primo si nasce, con la seconda si mettono
in fila un po’ di anni.
In un sapere di tale tipo, per dirla alla Debord
13
, la visione del film comincia ad essere
inutile, passa in secondo piano. Difatti, a differenza di ogni altra prassi, che necessariamente
parte dalla fruizione dell’opera per formulare le sue concezioni, qui il film lo si può anche non
vedere, e il regista non aver mai sentito, poiché, trattandosi di “ispirazione”, occorrerà
12
Michel Chion, Un’arte sonora, il Cinema: Storia, estetica, poetica, Torino, Kaplan, 2007
13
“Il film non c’è. Non può esserci più nessun film. Se volete possiamo passare subito al dibattito”: è
l’espressione che Debord avrebbe dovuto usare per introdurre il suo film Hurlements en faveur de Sade (1952)
alla visione del pubblico in sala (si veda: Monica Dall’Asta, Marco Grosoli (a cura di), Consumato dal fuoco: il
cinema di Guy Debord, Pisa, edizioni ETS, 2011, p.55).
11
semplicemente che io oda il nome, del film o del regista, perché il mio cervello, in un
automaticità da surrealismo, mi stuzzichi, mi invii una qualche estrapolazione, una qualche
delucidazione (magari di una Gabbia). Dopo si passera al film, all’impressione sensibile della
proiezione, all’analitica. Lo schermo è superfluo, è opzionale, in quanto il processo è
innescato, a tutti gli effetti, dalla banalità di una scossa elettrica che attraversa un nervo,
davanti alla stimolazione di un orecchio che ha percepito un ignota parola nel mondo esterno:
“Non si tratta dell’oggetto dell’ascolto, ma dell’ascolto stesso. Non si vedono né la direzione né la
tensione dell’ascolto, non si vede l’ascolto, né il non-ascolto di conseguenza. (…) Una corrispondenza
“realistica” tra la distanza dal soggetto filmato [il film non visto, NdC] e la distanza dal suono emesso
da questo soggetto [il nome del film, il nome del regista, non conosciuti, NdC]. In questo modo si
intende fare un insieme solidale della coppia occhio-orecchio
14
”.
Uno dei cavilli più irsuti di ogni poetica è quello del dogma. Quanto si può toccare (ed
eventualmente ridire) e quanto è intoccabile? Quanto pesa sull’autore e sulla veritiera
formulazione di tutto ciò che ha detto o che avrebbe voluto dire (ma non è stato capito)?
Quanto nasconde questa specie di categoria dentro cui inglobiamo, per non dire paralizziamo,
un’artista? Quanto c’è, in una poetica, del poeticante (chi la realizza) e quanto del poetato (il
materiale con cui la si costruisce)? Pensate ad un Leopardi non più “pessimista” o
all’agghiacciante precisazione di un Astrattismo ridotto a sottomultiplo e derivazione del
Surrealismo. Cambiamenti epocali che mai avverranno, poiché non si ha veramente il
coraggio di stravolgere bruscamente le carte in tavola; ma se di coraggio si tratta, è pur vero
che nessuno ha mai osato spingersi più in là di un certo limite nel ripensare e riconcepire tali
monumenti culturali; se non è stato fatto, è per via della verità. Ognuno di questi corpi poggia
mani e piedi su un impianto di esiti, nomi, lineamenti, che, se non in toto, sono ormai, da
tempo, più che accertati e prescritti. E’ su tali verità inossidabili e protese ad accontentare
tutti, poeticante e poetato, proprio in quanto “illuminate”, che si costruisce il dogma. Nessuno
può cambiarle, ma ancora di più, a nessuno fa comodo cercare di cambiarle.
Volendo dare quindi una definizione di “dogma”, essa sarebbe: “La prima idea (risposta) è
sempre quella giusta
15
”. Siamo proprio sicuri che il concetto di dogma sia una “caverna” da
difendere, poiché io non vedo neanche tanti motivi per cui debba essere attaccato.
L’interpretazione prima proposta consta di due possibili chiarimenti: le idee successive
esistono, ma saranno sempre inesatte rispetto alle prime; le idee successive non esistono,
14
M. Chion, op. cit., pp.213, 216.
15
L. Anceschi, “Della poetica e del metodo”, cit., p.27: “[I dogmi, NdC] rispondono alle domande in modo
diretto e apodittico, e non problematico; e anche se si esprimono con diversi tipi di retorica dell’esitazione, in
realtà esigono per sé, ciascuno per sé, l’Autorità della Risposta Ultima e Conclusiva”.
12
poiché ti è concesso parlare solo una volta, per la prima ed unica risposta. A sua volta questa
affermazione va ripartita in altre due constatazioni: poco importa che le idee successive non
esistono, perché tanto sappiamo con certezza che sono errate; se le idee successive non
fossero tutte sbagliate, cosa significherebbe il loro non poter esistere? La procedura assume i
volti della catena, dell’algoritmo, il gioco del dirimpettaio: “A parte la pertinenza delle
considerazioni, la ferma articolazione dialettica, è quella confortante interpretazione della sintesi come
«negazione del molteplice», basterà qui sottolineare, e forse anche un poco forzare, quel che Adorno
dice circa una reale condizione di precarietà della nozione: e veramente essa non è mai identica a se
stessa, si viene come trasformando continuamente, e non si appaga di unilineari indicazioni di
significato; non rimane mai nello stesso stato; indica una possibilità, o, vogliamo dire, una virtualità
molto energica, ricca, e inquieta. Proprio di qui han preso impulso e movimento le diverse ricerche
sulla poetica, sulle istituzioni, sui generi, sulla critica, sulle categorie storico-critiche, sul gusto…
16
”.
Oltre che sinergia tra razionalità e irrazionalità, la poetica propone anche un altro
assemblaggio, quello tra una conformazione Dominante e delle interiora Cangianti; per
proprietà commutativa, si giunge anche a scomporre un altro legame ulteriore: la soggettività
disdicevole dell’ispirazione iniziale con l’attestazione dottrinaria del pacchetto al suo stato
culminante. Come già fatto dalle altre arti quando si sono imbattute in questa “irrimediabile
quaestio interiore”, che sembra non averle infastidite più di tanto, o forse è soltanto che se ne
sono occupate poco, e sulla loro falsa scia, il cinema, letto dalla prospettiva della poetica,
dovrà conservare quanto ha di “vero”, sapendo che ciò andrà a costituire la materia prima
della poetica, il nome di tale poetica, le sue radici e gli organi principali, nonché il modo di
darsi all’infuori di essa, la sua presentazione, ma allo stesso tempo, rimanere consapevole in
fatto di evoluzioni e di reinterpretazioni, che là dove ci saranno, non avranno mai a che fare
con l’esteriorità e con il tronco principale
17
della poetica, ma riguarderanno l’oliatura degli
ingranaggi, gli irrisori meandri concitati del mondo intimo, le concause, il parziale e il
particolare, i piccoli canali, i fiori di loto (fiore del cambiamento) tra i fiori di girasole (fiore
della staticità e della fermezza, perché devoto al sole). Il mutar delle cose c’è, ma non è in
grado, oltre ad essere invisibile dall’esterno, di minare la corazza che lo custodisce. E’
comunque, non sarà la poetica cinematografica, e l’arte in generale, a negare la strada delle
“seconde idee”.
16
L. Anceschi, Autonomia ed Eteronomia dell’arte, cit., pp.VIII-IX.
17
L. Anceschi, “Della poetica e del metodo”, cit., pp.45-46: “(…) Le poetiche sono appunto sistemi prammatici,
e non vi è nulla di occasionale in esse: che possono implicare o la radicale trasgressione a un codice dato o la
continuazione del codice dato e la sua maturazione, o delle variazioni al codice... Comunque, e in ogni caso, esse
implicano un ordine, un rigore (e il disordine, qui, è veramente un altro ordine)”.
13
Resta da spiegare il perché, dunque le finalità, di tutto questo. In primo luogo, si tratta di
tentare (vedete un po’ voi) o di avviare un nuovo corso per la storia del cinema o, di mutare
quello attualmente in gestione, andando ad aggiungere una nuova branca teoretica di
speculazione sul mondo della celluloide accanto alle quattro esistenti: Semantica del film,
Teoretica cinematografica, Filmologia, Storia del cinema. Tutto ciò, ovviamente, porterebbe a
delle ripercussioni: l’eventualità di una riforma della terminologia parziale del cinema come
concetto; la riscrizione della storia del cinema come storia del progresso e dell’alternarsi delle
poetiche cinematografiche, e non più solamente di avanguardie, stili e movimenti; l’originarsi
di un nuovo apprendimento per l’enunciazione “cultura cinematografica”. E’ chiaro che come
non si sta cercando di creare, in modo ontologico e costitutivo, la nozione di poetica
cinematografica, in quanto non ne possiedo né i mezzi e né le capacita per farlo, bensì si sta
cercando di verificare la reale effettività per la possibilità, magari in un futuro non troppo
lontano, di una conclamata esistenza di tale disciplina. Perché ciò avvenga, occorrono delle
dimostrazioni che garantiscano, in modo concreto e saldo, che questa prospettiva (di vita) sia
legittima; John Huston, passatemi il termine, “servirà” a questo. Qui, alla resa dei conti, la
vera “tesi” di questo lavoro: C’è vita per la poetica cinematografica?
Un contributo positivo a chiarire tale perplessità potrebbe arrivare dai cosiddetti “elementi
di linguaggio circolabili”: da Wikipedia alle brochure dei cinema, dalla televisione alla radio,
passando per il web, la cultura popolare (che è comunque “effetto”, in quanto supplice dei
bramosi vezzeggiamenti che l’intorno gli dispone) e tutte le varie connotazioni che è in grado
di assumere l’affollata e vischiosa concatenazione del massmediale. Dilagante è la
manipolazione che i mezzi di informazione adottano nei confronti delle dinamiche
drammaturgiche cinematografiche, non più solamente immiserite al ruolo di vendita
pubblicitaria, di iconografia da smerciare, ma ancora peggio, dilaniate e disturbate, nelle e con
le parole, da continui atteggiamenti di dissipazione, di goffaggine, di imbrutimento, in cui il
film è svilito, quasi sempre, ad accozzaglia di stati d’animo, niente più che corredo di valori
epico-romantici, spacciato come rigido contenitore da post-moderno, senza il minimo
pensiero a sottolineare che è qualcosa di più che un intrattenimento, collocato, a ritmo di
migliaia al giorno, con striminzite e serializzate frasi ad hoc, entusiasmanti
18
. Se il volto del
18
Riporto la presentazione del film Notorius-L’amante perduta (id., Alfred Hitchcock, 1946) in una brochure di
un celebre cinema Bolognese: “Un capolavoro di suspense e di sadismo che ancora lascia storditi. Una prova
d’attrice chiamata ad ogni sfumatura della finzione, più esperta proprio là dove deve incrinarsi per languore di
desiderio, o degrado di disfatta fisica (segue a completamento l’immancabile citazione)”. Niente più che
l’assoluzione al facile compitino, parole matematiche che come in una formula si meccanicizzano una dopo
l’altra; l’idea di un prodotto più provocante, non di un autore nella sua cruda chimica intestinale. Non si capisce
che questo è un film, al massimo si pensa di essere davanti al passaggio di un romanzetto d’appendice. Non si