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Questa tesi nasce dal forte interesse personale per i nuovi strumenti di analisi
propri del neuromarketing, ma soprattutto per la possibilità di adattarne l’uso e
l’utilità a tutti i tipi di azienda, sia questa una piccola impresa o un grande gruppo
internazionale. I casi di studio di successo di applicazioni di neuromarketing, tra
cui possiamo citare quelli di Procter & Gamble, Google e Microsoft, mi hanno
trasmesso anche un interesse di tipo professionale, e gli studi universitari che ho
intrapreso mi hanno permesso di approfondire l’argomento.
Le ricerche di marketing tradizionale trovano il loro fondamento sul principio
della razionalità degli individui e sui processi consapevoli che essi sono in grado
di comprendere, analizzare ed esporre verbalmente. Questionari, interviste e focus
group risultano troppo spesso insufficienti per comprendere a fondo le dinamiche
che definiscono l’efficacia di una comunicazione. Anche le risposte verbali dei
soggetti intervistati in merito alla gradevolezza di una determinata esperienza
risultano inadeguate a fornire un quadro completo della loro reale percezione.
Infatti, gli strumenti di marketing tradizionale non permettono una descrizione
attendibile e puntuale delle emozioni dei consumatori, soprattutto perché spesso
sono essi stessi a non averne piena consapevolezza. Ecco perché le analisi di
neuromarketing si sono dimostrate complementari dal punto di vista strategico.
La scelta di trattare questo argomento deriva dall’interesse per le applicazioni
pratiche della materia: è conoscenza comune che le aziende, per emergere dalla
massa di competitor, provino a creare situazioni che spingano i consumatori
all’acquisto. Ma quali tecniche sono utilizzate oggi per ottenere i risultati
desiderati? Molte di queste restano ancora oggi sconosciute ai più e percepite
come situazioni non studiate. Quindi, per avere una panoramica più vasta nasce
spontaneo l’interesse verso queste metodologie ed il tentativo di comprenderle.
Va precisato che non si deve intendere il neuromarketing in un’ottica “stand
alone” come una disciplina che sia in grado di sostituirsi al marketing tradizionale,
bensì bisogna considerarlo come uno strumento complementare che consente agli
operatori di marketing di avere ulteriori vie d’indagine: grazie alle neuroscienze
applicate al marketing si possono infatti studiare aspetti che per le metodiche
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tradizionali (quantitative campionarie e qualitative per i focus group) risultano di
difficile comprensione.
Il bombardamento mediatico cui siamo sottoposti quotidianamente da differenti
canali media, anche nello stesso momento, e la variegata offerta di cui possiamo
disporre con facilità, pregiudicano la memorizzazione o l’attaccamento – e la
conseguente fedeltà - ad un determinato brand. Le imprese devono ogni giorno di
più impegnarsi per prospettare un valore aggiunto rispetto ai propri concorrenti. Di
qui l’esigenza di avvicinarsi a questa recente branca dell’economia, che fonde il
marketing con le neuroscienze, per arrivare a comprendere cosa davvero il
consumatore desidera e per offrirglielo.
Per entrare in contatto con i consumatori e proporre i propri prodotti, le aziende
devono integrare ai contenuti razionali quelli che appartengono alla sfera delle
emozioni: “il profitto sarà generato dai contenuti emotivi degli stessi prodotti. Le
aziende diventeranno proprietarie di storie sui prodotti e sulle marche piuttosto che
proprietarie di prodotti e saranno capaci di inserire i nuovi prodotti all'interno delle
storie esistenti” (Jensen, 1999).
Tramite la redazione di questo progetto, vorrei seguire la mia passione per la
psicologia e collegarla al mio interesse per il marketing. Durante il percorso di
laurea triennale ho potuto frequentare il corso "Psicologia ed Economia", ed ho
quindi compreso meglio come vengono influenzati i comportamenti d'acquisto e i
processi decisionali dei consumatori dalle reazioni psicologiche ed inconsce agli
stimoli ambientali, spesso anche all’insaputa dei diretti interessati.
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1.1 Marketing 2.0: il marketing emozionale
DOCERE. MOVERE. DELECTARE.
Antica Roma, 46 a.C.: nell’opera “Orator”, Marco Tullio Cicerone definisce i tre
obiettivi essenziali di una buona retorica. Anzitutto, il docere, ovvero l’insegnare e
il trasmettere informazioni, il movere, ossia il suscitare una reazione emotiva nello
spettatore, ed infine il delectare, cioè il divertire ed il riuscire a tener vivo
l’interesse dell’uditorio.
Nonostante la differente epoca ed il mutato contesto sociale, è facile notare come
queste tre funzioni attualmente coincidano con quelli che sono i presupposti di una
pubblicità efficace: fornire informazioni sul prodotto/servizio da promuovere,
evocare un’emozione nello spettatore, catalizzandone il più possibile l’attenzione.
In particolar modo, il ruolo delle emozioni diventa sempre più cruciale: sono
proprio queste a creare il contesto di fruizione, tanto da poter parlare di
“seduzione” della merce. Grazie alle emozioni l’individuo mette in relazione gli
eventi esterni con i suoi desideri, bisogni ed interessi.
La capacità di evocare una risposta emozionale, mediante uno pubblicità televisiva
o altri strumenti di comunicazione, è dunque uno degli obiettivi più bramati dagli
operatori di marketing, a prescindere dal settore di appartenenza.
Tuttavia misurare le emozioni, quantificarle, monitorarne l’intensità in modo
sufficientemente accurato risulta estremamente difficile, e quasi impossibile senza
l’appropriata strumentazione. Tutto ciò ha impedito lo studio di tali fenomeni da
parte dell'economia e del marketing, che hanno trascurato la componente
emozionale per lungo tempo elaborando modelli basati solamente sulla razionalità
dell'individuo.
Nell'ultimo decennio il mondo del marketing, e non solo, è stato attraversato da
una delle rivoluzioni culturali più importanti della storia: la nascita di Internet.
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La rete ha comportato cambiamenti strutturali nelle strategie e negli strumenti di
comunicazione per l'adozione su scala mondiale di nuove tecnologie digitali
sviluppate per lo svolgimento di attività di tipo economico e sociale. Stiamo
parlando quindi di una vera e propria rivoluzione, in scala mondiale.
Durante tutto il Novecento le imprese hanno seguito logiche organizzative
verticali e gerarchiche, controllando tutte le fasi del processo dall’alto. Era
l'impresa che ideava i prodotti, li rivestiva di contenuti simbolici e li presentava ai
consumatori. Questo eccesso di potere ha determinato una progressiva presa di
distanza da parte dei consumatori, irretiti da un'offerta sempre più abbondante e da
una pressione pubblicitaria ogni giorno più invasiva. Giampaolo Fabris (2003), nel
volume “Il nuovo consumatore: verso il postmoderno”, descrive così il nuovo
consumatore:
Nella transizione alla postmodernità protagonista è un nuovo consumatore che ha
ben poco in comune con la tradizionale figura che conosciamo. Non solo ha ormai
terminato il suo noviziato come consumatore ma è divenuto più esigente, scaltro,
selettivo, proattivo, infedele alla marca. Sta riscrivendo radicalmente il nostro
sapere sul consumo. Un nuovo linguaggio, quello del consumo, con una sua
grammatica e sintassi che è indispensabile conoscere. Un nuovo consumatore che
ha cambiato pelle in cerca di esperienze più che prodotti, di emozioni e sensazioni
più che valori d'uso.
Si è venuta, così, a creare una vera e propria crisi del marketing che ha
determinato il passaggio ad una nuova fase denominata marketing relazionale, in
un’ottica consumatore-centrica delle decisioni di marketing. Inizialmente tale
cambiamento è stato, però, più di facciata che di sostanza: molte imprese ancora
faticano a recepire le opportunità di un reale orientamento al consumatore e a
lasciarsi alle spalle la ormai superata visione dei consumatori come destinatari
passivi dei propri messaggi. Essi vengono ancora ritenuti un insieme di individui
privati della loro soggettività e catalogati attraverso i relativi comportamenti
d'acquisto.
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Le stesse ricerche di mercato, di stampo tradizionale, che pur svolgono un ruolo
decisivo nello sviluppo e nell'ottimizzazione di prodotti e servizi, finiscono per
restituire rappresentazioni statistiche probabilistiche di ciò che i consumatori, e
non gli individui, pensano.
Come possiamo definire il marketing in questa nuova epoca in continua
trasformazione? Una delle definizioni accademicamente adottate per definire il
marketing tradizionale è quella di Philip Kotler, autore e professore americano
considerato come il quarto "guru del management" di tutti i tempi dal Financial
Times (dopo Jack Welch, Bill Gates e Peter Drucker), che afferma:
Il marketing è quel processo sociale e manageriale diretto a soddisfare bisogni ed
esigenze attraverso processi di creazione e scambio di prodotti e valori. È l’arte e
la scienza di individuare, creare e fornire valore per soddisfare le esigenze di un
mercato di riferimento, realizzando un profitto. (Kotler, 2006)
Tale definizione può essere in qualche modo superata citando quella di Gallucci del
marketing emozionale, definito come l'insieme delle molteplici declinazioni del
marketing non convenzionale fiorite negli ultimi anni (guerrilla, tribale, green o
web) unite alle nuove tecnologie di misurazione fornite dal neuromarketing
(Gallucci, 2011).
1.2 Marketing virale
Il marketing virale utilizza le potenzialità comunicative di un numero limitato di
soggetti per inviare un messaggio ad una moltitudine di persone seguendo un
andamento di tipo esponenziale. Possiamo affermare che si tratta di un passaparola
che trova origine dalla volontà ed intenzione dei promotori della comunicazione.
Il fondamento del marketing virale si basa su idee che, per caratteristiche naturali,
hanno la capacità di divulgarsi con notevole velocità, ad esempio, tra gli utenti che
navigano in Internet, mezzo di comunicazione particolarmente diffuso, rapido,
semplice ed economico. Generalmente, il contenuto per diventare virale deve saper
suscitare un’emozione, deve divertire e, soprattutto, essere originale. La definizione
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di virale evoca il concetto di qualcosa di estremamente dinamico, che si muove, si
diffonde e contagia incontrastato chiunque ne venga a contatto, senza possibilità di
fermare la sua diffusione. Il marketing virale prevede l’utilizzazione di un
messaggio deciso, finalizzato, essenziale, semplice ed attraente (Arnesano, 2007).
Si tratta di una strategia che deve essere gestita sapientemente ed attuata, cosa non è
sempre agevole.
Pensiamo ai messaggi promozionali dei supermercati che promettono sconti di
alcuni prodotti in uno stabilito orario o in un preciso giorno della settimana.
Certamente il messaggio può avere un effetto virale, ed è dunque probabile che le
vendite del prodotto in offerta aumentino, ma dall’usufruire dell’offerta saranno
precluse categorie di consumatori che non possono recarsi a fare la spesa in giorni o
orari vincolati (oppure semplicemente che non si recheranno nel punto vendita
perché non desiderano rischiare di fare acquisti in condizioni di sovraffollamento).
La strategia, per essere efficace, deve saper collegare produzione e distribuzione e
gradualmente si giungerà all'obiettivo finale. I costi di realizzazione di campagne di
marketing virale sono piuttosto consistenti soprattutto a causa delle qualità richieste
agli esperti, spesso non comuni. Tuttavia, i benefici che esse possono
potenzialmente comportare rappresentano un grande vantaggio per le aziende, che
vedranno la propria immagine diffusa esponenzialmente e visibile da un vasto
pubblico di persone in tempi molto rapidi. I risultati di tali campagne non sono
comunque facilmente prevedibili: non è semplice anticipare la viralità di una
campagna.
Uno degli scopi di questo progetto è appunto comprendere ed analizzare come,
grazie a studi scientifici e tecniche di neuromarketing, si possa quantomeno
avvicinarsi ad una previsione sufficientemente attendibile. Il messaggio oggetto
della campagna deve essere in grado di impressionare, commuovere, emozionare
(Gallino, 2014).
La compartecipazione che si realizza deve essere espressione di una volontà libera
senza imposizioni ed il contenuto deve essere trasmesso spontaneamente. La
campagna che si diffonde tramite marketing virale viene dunque studiata, vengono
stabilite le risorse da impiegare, si analizzano i contenuti, si programma una
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crescita esponenziale e veloce, si giunge infine ad un punto massimo di crescita cui
seguirà una decrescita graduale, per poi assistere ad una stabilizzazione finale
(Boni, 2006).
Analizziamo un esempio recente di campagna di marketing virale. Always, marchio
statunitense di prodotti per l’igiene intima femminile e la cura della persona, parte
del gruppo aziendale Procter & Gamble, ha condotto una ricerca sugli stereotipi di
genere che ancora sono presenti nella società odierna, e in particolare si è
soffermato su quelli che sono diretti al genere femminile. Dai risultati è emerso che,
dopo il passaggio dall’età infantile a quella adolescenziale, tutte le ragazze
intervistate hanno subito un calo drastico della stima di sé stesse e del genere
femminile.
L’esperimento prevedeva che venisse chiesto a delle bambine e a delle giovani
ragazze cosa volesse dire “fare le cose come una ragazza”. Si chiedeva al campione
di “correre come una ragazza”, di “lottare come una ragazza” e così via e si è notato
come il “fare qualcosa” come una ragazza abbia acquisito, con la crescita, una
connotazione negativa. Le bambine, infatti, eseguivano le azioni richieste al meglio
delle loro capacità, impegnandosi al massimo per dimostrare il proprio valore,
senza mostrare alcun tipo di stereotipo. I ragazzi e le ragazze adolescenti, al
contrario, hanno interpretato uno classico stereotipo di ragazza frivola, con
mossette e voci squillanti.
Il video è stato realizzato dall’agenzia Leo Burnett e diretto dalla regista Lauren
Greenfield. In appena una settimana, ha oltrepassato le 18 milioni di visualizzazioni
su Youtube ed ha riscosso un notevole successo sia in Italia che nel resto del mondo
superando i 15 mila commenti.