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Capitolo 1
L’Italia ed il colonialismo
La seconda metà del XIX secolo rappresentò per l’Italia un’epoca di profondi
cambiamenti: fu infatti solo dal 1861 che si poté parlare di “Italia” come nazione in senso
stretto, poiché fino a poco tempo prima la penisola italiana era costellata di diversi Stati,
più o meno grandi, controllati per lo più dalle autorevoli potenze straniere.
La formazione dell’Italia alla vigilia dell’unità non poteva essere più frammentaria: se la
parte occidentale del settentrione (con l’aggiunta della Sardegna) era sotto il comando dei
Savoia, la parte più orientale era riunita nel “Regno Lombardo-Veneto”, di fatto un
protettorato austriaco; al centro la composizione si presentava ancor più divisa, con i due
territori indipendenti del Ducato di Parma e del Ducato di Modena, attorniati dal più
grande Granducato di Toscana e dall’intoccabile Stato Pontificio, all’epoca sottoposto alla
guida di Papa Pio IX; al Sud la situazione invece sembrava essere meno complicata,
essendo tutta l’area sottoposta al controllo del “Regno delle Due Sicilie” della famiglia
Borbone.
Una volta terminata l’impresa di unificazione del territorio, all’appena instaurato Governo
della Destra Storica furono assegnati numerosissimi compiti ed i problemi da risolvere non
erano del tutto indifferenti. L’eredità ricevuta dal passato problematico del Paese non era
delle più rosee: si è a lungo dibattuto sul fatto che le grandi città del Nord e le vecchie
capitali si mostrassero al passo dell’epoca moderna, mentre il Meridione restava una zona
estremamente rurale ed arretrata dal punto di vista tecnologico, anche se le ricerche più
recenti tendono a smentire questa ipotesi. Mentre l’industrializzazione prendeva sempre
più piede in città come Milano, Torino e Genova, le campagne del Sud non accennavano
ad una crescita, dilaniate anche del fenomeno conosciuto come “brigantaggio”, col quale la
popolazione si mobilitò per protestare contro le mancate riforme attese dal Governo, che
aveva promesso di riportare equilibrio tra le situazioni economiche delle diverse aree del
Belpaese.
L’analfabetismo era un’altra delle questioni più urgenti che il Governo fu chiamato ad
affrontare, ma l’enorme buco di bilancio non permise una rapida ed efficace applicazione
delle leggi che stabilirono una seppur minima istruzione obbligatoria. Proprio per far fronte
ai debiti in cui lo Stato versava già al momento della sua nascita, furono aggiunte imposte
sul macinato, che colpirono soprattutto i ceti meno abbienti, fomentando il malcontento tra
la popolazione.
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Oltre a tutti questi problemi riguardanti la politica interna, lo Stato italiano dovette presto
confrontarsi con le già consolidate potenze europee e la pressione affinché anche il nostro
Paese avvicinasse il proprio nome a quello di altri come Inghilterra, Francia e Spagna
cominciò a farsi presto sentire.
Nello stesso momento in cui l’Italia cominciava ad affacciarsi ad una vetrina
internazionale, le altre nazioni si erano già lanciate da tempo nell’impresa che finì col
caratterizzare la fine dell’Ottocento e una parte del secolo successivo: il colonialismo, che
ben presto prese la forma più violenta di un vero e proprio imperialismo. Da quello che
viene definito come “impero informale”, cioè finalizzato ad una soggiogazione quasi
esclusivamente commerciale nei confronti di Paesi economicamente arretrati, si passò
infatti al più aggressivo “impero formale”, che comportò una vera e propria sottomissione
militare delle colonie. La causa della mal riuscita esperienza coloniale dell’Italia potrebbe
risiedere proprio in questo ritardo del governo a prender parte all’avventura coloniale che
da tempo ormai aveva preso piede nella vita politica di altri Paesi.
Per non perdere l’occasione di restare al passo, una parte del Governo cominciò ad
accarezzare l’idea di istituire una colonia italiana, sostenendo il bisogno dell’Italia di
affermarsi sul piano internazionale, oltre che per pure questioni di prestigio, anche per
necessità economiche e sociali, poiché all’epoca era pensiero assai diffuso il “fardello
dell’uomo bianco”, che teorizzava il dovere e l’onere di civilizzare le popolazioni inferiori
secondo i costumi europei, anche attraverso l’uso della forza. Si assistette quindi a un
radicale mutamento degli obiettivi della politica italiana di fine Ottocento: se negli anni
Sessanta del XIX secolo tutta l’attenzione fu diretta al completamento dell’unità territoriale
e alla creazione di un governo centrale, a partire dal 1880 il fulcro dell’interesse politico
era rivolto al bisogno di riconoscimento a livello internazionale. Fu proprio questa
necessità di sentirsi al passo con i tempi che portò successivamente alla compulsiva ricerca
di una possibile futura colonia da sviluppare con i soli mezzi italiani.
Per quanto la motivazione principale di una ricerca coloniale italiana si possa ricondurre a
ragioni di prestigio, numerosi furono i fattori con i quali si volle mascherare la pretesa di
ottenere il controllo di un territorio extraeuropeo, invocato a gran nome da politici senza
scrupoli animati dai propri interessi e dalle nascenti Società Geografiche, che fecero
propaganda a favore del colonialismo finanziando personalmente numerose spedizioni
soprattutto in territorio africano e creando testate giornalistiche dedicate al mondo delle
esplorazioni, atte a infervorare gli animi di un pubblico di lettori sempre più ampio. Perfino
Giuseppe Maria Giulietti, all’epoca in procinto di dare il via alla propria avventura
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africana, scese in campo a favore di un’azione italiana rivolta all’istituzione di una colonia,
sul quotidiano “Movimento” il 12 ottobre 1878.
L’idea di trovare uno sfogo al fenomeno di emigrazione di massa che interessò la nostra
penisola alla fine del XIX secolo, poi, convinse molti studiosi ad appoggiare un intervento
coloniale, in modo da poter direzionare tutti i flussi migratori verso nuovi Paesi pur sempre
sottoposti al comando italiano.
Il pretesto principale col quale si cercò di giustificare a lungo l’idea di un approccio
coloniale furono però gli interessi economici, che avrebbero tratto numerosi benefici dalla
creazione di una colonia, come il vantaggio di un’esportazione sicura della
sovrapproduzione prevista in seguito agli obiettivi di industrializzazione portati avanti sul
territorio italiano.
Le ragioni che spinsero l’Italia verso una colonia africana sono le più disparate: anzitutto,
l’apertura del Canale di Suez nel 1869 comportò il bisogno anche per l’Italia di un porto
sicuro nell’area del Mar Rosso, proprio per evitare di restare tagliata fuori dagli scambi
economici e commerciali che coinvolgevano ora la zona del Canale.
In realtà la scelta per la fondazione di un porto italiano ricadde in primis sulle coste
mediterranee, poiché rappresentava di fatto uno sbocco naturale della penisola, ma lo
smacco diplomatico subìto in Tunisia, avvicinatasi gradualmente alle attenzioni francesi
nonostante la forte presenza di italiani sul suolo tunisino, convinse Crispi, al tempo a capo
del governo, a rivolgere la direttrice coloniale al Mar Rosso, presso il quale erano ancora
vastissime le zone inesplorate o semisconosciute. Nonostante la concorrenza europea
avrebbe potuto rivelarsi un forte rischio anche in quell’area, il territorio del Mar Rosso
rappresentava di fatto l’ultima chance per l’Italia di lanciarsi nel mondo coloniale,
considerando lo svantaggio dovuto alla partenza ritardata, alle numerose incertezze del
Governo e alla supremazia francese in Tunisia e quella turca in Tripolitania, territorio del
quale lo Stato italiano aveva ancora ben poca familiarità.
A seguito di tutte queste ragioni, nel 1863 Giuseppe Sapeto, un missionario lazzarista,
venne incaricato dallo Stato di indagare l’effettiva utilità del Canale di Suez ai fini
commerciali del Paese e in seguito ai suoi rapporti venne decretata la decisione di
acquistare un terreno di approdo nel 1869. Si optò per Assab, situata sulla costa dancale
(oggi Eritrea), nonostante non fosse la prima scelta suggerita da Sapeto, perché gli inglesi
stavano prendendo lentamente il controllo dell’area grazie al porto di Aden, già sotto il
dominio della Corona inglese. Il 15 novembre del 1869 il missionario acquistò quindi un
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fazzoletto di terra di sei kilometri quadrati al prezzo di 30.000 lire, pagati a due sultani
locali. Per evitare di insospettire le altre nazioni europee coinvolte nella spartizione
dell’Africa, si decise di far apparire come acquirente Raffaele Rubattino e non lo Stato
italiano: Rubattino, un patriottico imprenditore di origine genovese, possedeva infatti una
società di navigazione che avrebbe potuto trarre numerosi vantaggi dalla compravendita di
una propria stazione di approdo nel Mar Rosso, ora che il Canale di Suez gli avrebbe
garantito un incremento degli affari.
La trattativa portata a termine da Sapeto, nel frattempo costretto quindi a passare al
servizio di Rubattino, venne ampliata l’11 marzo 1870 con l’ottenimento di due isole
vicine alla città, portando il conto finale a spese dello Stato ad un totale di 104.100 lire, una
somma piuttosto ingente considerando i mille problemi che l’Italia stava ancora
affrontando in quanto nazione di formazione assai recente: l’idea coloniale venne infatti
presto accantonata, poiché proprio nel 1870 alcuni avvenimenti interni distrassero il
Governo dalle proprie mire espansionistiche, basti pensare alla Breccia di Porta Pia che
permise finalmente l’annessione ufficiale di Roma e dello Stato Pontificio al resto del
Paese, o alla guerra franco-prussiana che prosciugava già a sufficienza le casse dello Stato
senza il bisogno di investire ulteriormente in un progetto ancora incerto. Oltre ai problemi
di politica interna, inglesi e egiziani non gradirono lo sbarco dell’Italia nella zona del Mar
Rosso e cercarono in qualche modo di ostacolare, o quanto meno di rallentare, il piano di
una colonia italiana, cosa alla quale Rubattino oppose una flebile resistenza dato che gli
egiziani avrebbero potuto allontanarlo da Alessandria d’Egitto, il suo punto d’approdo
principale sulla costa africana, minando così il suo fiorente commercio.
L’interesse del Parlamento si riaccese nel 1871 a seguito di un intervento di Nino Bixio a
favore della realizzazione del progetto coloniale, spingendo fortemente ad una richiesta
formale a Sapeto di stimare i costi per un’azione di ammodernamento di Assab e verso una
forte presa di posizione da parte dell’Italia nei confronti delle proteste inglesi ed egiziane
giunte a proposito dell’acquisto effettuato solo un paio di anni prima. A seguito di ulteriori
accertamenti di alcuni esperti incaricati dal Governo di indagare sulla reale utilità di
un’eventuale colonia italiana in quell’area, il progetto venne nuovamente abbandonato fino
al 1879.
Fu Menelik stesso, re dello Scioà, a riaprire le porte dell’Italia per un’espansione in Africa
Orientale: a seguito delle sue mire espansionistiche e per la ricerca di un alleato europeo
nella lotta contro l’imperatore etiope Johannes IV al cui trono aspirava da tempo, Menelik
era alla ricerca di un fornitore d’armi e vide nell’Italia una possibile fonte di materiali
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bellici. Ricevuta la prima amichevole ambasceria africana, Vittorio Emanuele II diede il
beneplacito all’organizzazione della prima grande spedizione italiana in Africa. Fu la
Società Geografica ad assumersi la responsabilità dell’allestimento della “grande
spedizione”, i cui obiettivi erano principalmente di carattere geografico-naturalistico,
anche se col passare del tempo furono le ragioni politiche e commerciali a prevalere.
A capo della spedizione fu eletto Orazio Antinori, un uomo di età già avanzata al momento
della partenza, e tra i compagni di viaggio figuravano Giovanni Chiarini, Antonio Cecchi e
Sebastiano Martini, personaggi che poi divennero veri e propri miti della borghesia italiana
col passare del tempo. Come i suoi compagni, Antinori non aveva mai visitato i luoghi
interessati dalla spedizione prima della partenza, avvenuta poi il 25 giugno 1876. La
missione fu da subito orientata all’insuccesso: trattenuti 56 giorni tra Zeila e Aden per
colpa di Abu Bakr, il pascià di Zeila che si sentiva minacciato dall’invadente interesse
europeo nelle terre africane, riuscirono soltanto qualche mese più tardi ad ottenere la
concessione di un terreno a Let-Marefià, una delle aree più fertili della zona, per costruirvi
la prima stazione scientifico-sanitaria europea in Etiopia, che divenne la base per le
successive spedizioni italiane. La meta finale della spedizione, l’area dei grandi laghi
equatoriali da raggiungersi attraversando i Paesi Galla ed il Caffa, era però poco realistico:
lasciati soli al comando della spedizione, Cecchi e Chiarini si rimisero in marcia nel 1879
nonostante Menelik stesso cercò di dissuaderli dal progetto per la pericolosità dei territori
da attraversare, ma furono catturati appena fuori i confini del regno del negus, nel Regno di
Ghera. Proprio qui Chiarini morì per le pessime condizioni in cui entrambi i prigionieri
vivevano, mentre Cecchi venne liberato un anno più tardi grazie all’intervento diplomatico
dell’imperatore Johannes IV, convinto dai fratelli Naretti , altri due esploratori italiani al
servizio presso la sua corte ad Alessandria d’Egitto, ad intercedere a favore della
liberazione di quest’ultimo.
Nel frattempo Sebastiano Martini, rientrato in Italia quasi immediatamente dopo il suo
arrivo in Africa con la spedizione di Antinori per reperire le armi richieste da Menelik per
incontrare il suo favore ad un incremento dell’attività coloniale del Belpaese, fece ritorno
sul suolo africano, accompagnato questa volta da Giuseppe Maria Giulietti e Piero
Antonelli. Giulietti, come vedremo meglio in seguito, aveva ricevuto l’ordine da Rubattino
di trovare nuove vie commerciali tra Assab e lo Scioà, mentre Antonelli s’imbarcò
costretto dalla famiglia, per rimediare alla vita spericolata che aveva condotto in
precedenza. Sapendo di rischiare di perdere l’appoggio di Menelik presentandosi con il
misero carico che era riuscito a racimolare in Italia, Martini temporeggiò a Zeila in attesa