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INTRODUZIONE
Giunta al termine del mio percorso di studi universitari, mi sono domandata in che ambito
disciplinare sarebbe stato opportuno svolgere il mio elaborato finale.
La scelta è ricaduta su Storia della fotografia, uno dei corsi che ho sentito più vicino ai miei
interessi, con un programma avvincente e sempre attuale, anche se di storia si sta parlando.
Ho deciso di circoscrivere l’argomento a un determinato momento storico, ovvero il secondo
dopoguerra italiano e, in particolar modo, a un personaggio che con la propria passione,
maestria e versatilità ha contribuito alla scrittura di parte della storia della fotografia italiana:
Ugo Mulas.
Mulas incontra la fotografia all’inizio degli anni cinquanta. È un giovane curioso e
intraprendente, appassionato di letteratura e pittura. La sua vita è una continua ricerca di
verità, ma soprattutto di arte. È un giovane ambizioso, vuole diventare un fotoreporter, ma
senza scendere a compromessi, senza essere escluso o considerato non all’altezza, come
spesso succedeva ai fotoreporter che venivano visti come inferiori ai giornalisti, tagliati fuori
dalla vita redazionale.
Per questa ragione, Ugo Mulas decide di intraprendere la sua carriera da solo, lontano da
quelle persone che potevano tappargli le ali.
La sua formazione non passa per nessuna scuola, è un autodidatta a tutti gli effetti.
Questo elaborato si propone di ripercorrere la sua attività fotografica, dagli esordi, agli
sviluppi e alle sperimentazioni continue.
Il primo capitolo è una presentazione del periodo culturale all’interno del quale Mulas si
colloca, ovvero il fotogiornalismo italiano, con spazio anche per quelle che sono state le
figure più influenti e significative del fotogiornalismo italiano del secondo dopoguerra.
Segue il secondo capitolo, interamente concentrato su Ugo Mulas e la sua attività: la famiglia,
le speranze dei suoi genitori, la facoltà di giurisprudenza, il bar Jamaica, l’incontro con Mario
Dondero e con la fotografia, i primi lavori, l’esperienza americana, la vicinanza agli artisti che
si fanno immortalare da lui, le Verifiche.
Il terzo e ultimo capitolo si propone di analizzare Ugo Mulas alla Biennale di Venezia, una
mostra che il fotografo segue per dieci edizioni di fila. L’attività di Mulas alla Biennale
veneziana è stata da me circoscritta a tre momenti salienti: l’inizio nel 1954, l’apice nel 1964
con l’arrivo della Pop Art, e l’inizio del declino nel 1968, con le manifestazioni operaie e
studentesche.
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La Biennale di Venezia rappresenta per Mulas una sorta di trampolino di lancio. Proprio a
Venezia entra a contatto con artisti di fama internazionale, che a loro volta fanno si che il
nome di Mulas cresca d’importanza. È grazie all’incontro con Alan Solomon e Leo Castelli,
alla Biennale del 1964, che inizia l’esperienza americana di Mulas, conclusasi con la
pubblicazione del libro New York: Arte e Persone, nel 1967.
L’anno seguente, il 1968, Ugo Mulas è di nuovo alla Biennale per realizzare il suo reportage,
ma questa sarà una Biennale diversa dalle altre, a causa dei movimenti studenteschi e operai
che ostacolano una serena preparazione della mostra. Mulas riesce a documentare i fatti di
cronaca di quei giorni e, allo stesso tempo, non perde di vista il mondo artistico all’interno dei
padiglioni della Biennale, il vero motivo per il quale si trova a Venezia.
Quello che vorrei mettere in risalto nella stesura del mio elaborato, oltre alla capacità artistica
che Mulas possedeva, è il suo modo di lavorare, di rapportarsi alla fotografia, il fatto di non
vedere il suo mestiere come un atto di documentazione fine a sé stesso. Ugo Mulas ha messo
del suo in ogni singolo lavoro realizzato, con una discrezione e serietà che tutti coloro con i
quali è entrato a contatto, ricordano e apprezzano.
Come supporto al mio lavoro ho utilizzato monografie, articoli di giornale risalenti a
quell’epoca, cataloghi di mostre, riviste d’arte, che mi hanno aiutato a ripercorrere ed
evidenziare il percorso di Mulas nella storia della fotografia e nella storia dell’arte, e
soprattutto a rendere omaggio all’artista che è stato, un artista poliedrico.
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CAPITOLO PRIMO: IL FOTOGIORNALISMO IN ITALIA
Sono gli inizi degli anni cinquanta del ventesimo secolo quando comincia a diffondersi la
figura del fotoreporter: l’uomo moderno, dinamico, calato al centro di ogni avvenimento,
onnipresente e protagonista. Questo nuovo giornalista scatena forte entusiasmo all’interno
della comunità artistica e intellettuale.
Nel 1926 Otto Umbehr, fotografo-artista meglio noto come Umbo, realizza un fotomontaggio
intitolato Il reporter frenetico [fig. 1], dove questa figura è realizzata come semirobotizzata,
impegnata simultaneamente a fotografare, scrivere, stampare, diffondere notizie. Il reporter di
Umbo è dunque anche un fotoreporter, ingloba cioè una serie di attività e mestieri che lo
rendono onnipresente e dinamico, un operatore-autore.
Figura 1. Umbo, Il reporter volante, fotomontaggio, 1926.
Prima di arrivare in Italia, il fotogiornalismo inizia a diffondersi in Germania con le riviste
«Berliner Illustrirte Zeitung», «Arbeiter Illustrierte Zeitung» e «Münchner Illustrierte Presse»;
successivamente raggiunge la Francia con «Vu», diretto da Lucien Vogel, in Inghilterra con
«Weekly Illustrated», «Picture Post» e negli Stati Uniti con «Life», che era stata fondata alla
fine dell’Ottocento ma che a partire dal 1936, con la gestione di Henry Luce, diventa
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interamente votata al fotogiornalismo. «Life» ha lo scopo di essere una sorta di “vetrina sul
mondo” e ben presto diventa leggendaria nella storia del fotogiornalismo.
Importanti collaboratori di «Life» sono Stackpole, Bourke-White, McAvoy, Robert Capa e
David Seymour.
La rivista diventa un punto di riferimento per il fotogiornalismo internazionale e, in
particolare, per quello italiano: ad esse infatti si ispira Alberto Mondadori nel dirigere
«Tempo».
La professione del fotoreporter esiste in Italia già durante gli anni del fascismo, soprattutto
grazie agli operatori dell’istituto Luce e, nei primi anni quaranta, si affermano figure di
fotografi notevoli, come Patellani e Farabola. Di Federico Patellani si ricorda la fotoinchiesta
sul magismo intitolata Italia magica, pubblicata su «Tempo» in dieci puntate. L’oggetto del
lavoro è il Meridione, che nel dopoguerra viene visto come una sorta di mondo “esotico”
ricco di personaggi appetibili per i rotocalchi illustrati. «Tempo» assume il nome di «Tempo
nuovo» nel dopoguerra e inaugura una nuova rubrica, «Foto al Direttore», che spinge molti
lettori a inviare fotografie. La rivista pubblica anche diverse immagini provenienti da agenzie
fotografiche italiane e non, come Farabola, di Tullio Farabola. Queste immagini non
contengono i grandi temi e drammi della società italiana del dopoguerra, bensì riguardano
argomenti quali i trasporti irregolari, baraccopoli, mense popolari, borsa nera, ecc.
Da una parte c’è il Neorealismo pre-industriale di Patellani, caratterizzato da un impegno
sociale; dall’altra parte c’è invece il Neorealismo di puro consumo di Farabola. Le immagini
di quest’ultimo rappresentano un Neorealismo “scatta e fuggi”, appaiono cioè “rubate”
1
.
Negli anni cinquanta, terminate le chiusure del fascismo, l’Italia viene a conoscenza
dell’opera di Henri Cartier-Bresson, che era già attivo come fotografo dagli anni trenta:
l’opera del fotografo francese avrà un impatto e un’influenza enorme sui fotografi italiani.
Il fotogiornalismo in Italia non si sviluppa solo in base alla legge della domanda e dell’offerta.
Nell’immediato dopoguerra il mercato editoriale è dominato dal rotocalco d’attualità
illustrato. L’editore Pasquale Prunas osserva che le riviste sono interessate a riportare non i
fatti, bensì i volti celebri e le loro vite, con lo scopo non di documentare, ma di scandalizzare
2
.
Proprio per questo l’epoca del rotocalco “rosa”, diventa in breve tempo l’epoca dei
fotoreporter d’assalto, i cosiddetti “paparazzi”.
1
Antonella Russo, Storia culturale della fotografia italiana. Dal Neorealismo al Postmoderno,
Einaudi, Torino, 2011, pp. 57-58.
2
Ibidem, cit., p. 278.
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Il termine “paparazzo” inizia a diffondersi parallelamente al successo de La dolce vita di
Federico Fellini, nel 1960. Il paparazzo è il fotoreporter attivo nella capitale, sempre alla
ricerca di situazioni insolite, che scatta e poi fugge e che lavora prettamente nelle ore
notturne. Quello che connota il nuovo fotoreporter è l’aggressività e l’ostinazione, oltre a una
buona dose di tenacia.
Italo Zannier è uno dei pochi che dedica attenzione a questa nuova figura del panorama
italiano, analizzando il “paparazzismo” come un fenomeno del giornalismo e storicizzando le
opere di Tazio Secchiaroli, Sergio Spinelli, Elio Sorci, Marcello Geppetti, ecc.
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Secondo Zannier il “paparazzismo” è fortemente collegato alla società, tanto da rappresentare
l’elemento specifico del fotogiornalismo italiano. Inoltre, sempre lo storico della fotografia,
indica come capostipite dei paparazzi Tazio Secchiaroli, dotato di estrema resistenza, che non
si scoraggia fino a quando non riesce a rubare qualche scatto prezioso.
Secchiaroli inizia la propria carriera come fotografo ambulante. Nella metà degli anni
cinquanta pubblica alcune note fotografie, come Manifestazione di giovani di destra
all’Altare della Patria, del 1956; realizza un importante servizio sul discorso di Palmiro
Togliatti al Consiglio nazionale del Partito comunista, sempre nel 1956; realizza ritratti di
mendicanti e soggetti del sottoproletariato urbano. Fonda poi in società con Sergio Spinelli
un’agenzia, la Roma Press Photo
4
.
Per i servizi fotografici notturni, i paparazzi utilizzano flash elettronici portatili andando di
pari passo con lo sviluppo e l’impiego di nuove apparecchiature. Si tratta di “sparare” un
lampo di flash sul volto della “vittima” in questione, senza però aspettare o chiedere il
consenso. Esiste una fotografia emblematica a questo proposito, ovvero Una manifestazione
di Franco Pinna (1952), che ritrae Tazio Secchiaroli a bordo di una Lambretta con il
fotoreporter Luciano Mellace seduto dietro, pronto a catturare l’immagine dell’arresto di un
manifestante durante una dimostrazione antiamericana.
Nella realizzazione de La dolce vita e nell’elaborazione del personaggio di Paparazzo,
Federico Fellini si ispira proprio a Tazio Secchiaroli, il quale diventa anche il fotografo di
scena di Fellini, realizzando alcune tra le immagini più celebri del film. Ma a differenza del
Paparazzo della pellicola, Secchiaroli non è solo un comune operatore fotografico al servizio
di una testata giornalistica, bensì un vero e proprio animatore notturno, che bracca e pedina le
celebrità in ogni luogo, soprattutto da quando attori di Hollywood si erano trasferiti a Roma.
3
Cfr. Italo Zannier, Un fotografo chiamato paparazzo, «Fotologia», maggio 1987, vol 7, pp. 39-43;
Paparazzi. Fotografie 1953/1964, Alinari, Firenze 1988, a cura di P. Costantini, S. Fuso, S. Mescola,
I. Zannier.
4
Antonella Russo, Storia culturale della fotografia italiana, cit., p. 279 a p. 281.