Introduzione
«Vihāya kāmānyaḥ sarvānpumāṁścarati niḥspṛhaḥ | nirmamo nirahaṁkāraḥ sa
śāṁtimadhigacchati ||» “canta” il Divino Kṛṣṇa (uno dei dieci avatāra di Viṣṇu)
nel suo “quinto Veda”, Bhagavad-Gītā II.71 e cioè: «L'uomo che, abbandonato
ogni desiderio (kāma), vaga libero da legami | non [dice più] “è mio”, né “Io”; costui
raggiunge la pace ||». Come ben sappiamo, però, per avere mens sana in corpore
sano è al divino che bisogna rifarsi, giacché non è opera a misura d’uomo
(ricorderemo che Arjuna, interlocutore di Kṛṣṇa nella Gītā, è figlio di Indra).
Spesso tralasciato (stravolgente dimenticanza a dire il vero…) dalla ‘vulgata’,
Giovenale nella sua decima satira, al verso 356, premette un «orandum est»
alla gnome scelta a mostrare la vanità dei valori e dei beni che gli uomini
cercano a tutti i costi di ottenere– havèl havalìm, per dirla con l’arcinoto Qohèlet
ebraico I.2 e XII.8 ma, attenzione: la conclusione ultima del Predicatore
Ecclesiaste è che la vanitas vanitatum non deve impedire all’uomo di
riconoscere in Dio il proprio valore salvifico, lui che è il “tutto per l’uomo”
(XII.9,15). E se la divinità parossistica che dovrebbe volere il nostro “amore”
vuole invece il nostro “eros”, facendo durare «un istante l’orgasmo e tutta la
vita la disperazione» (E. Cioran, Confessioni e anatemi) poiché «noi amiamo
sempre... malgrado tutto; e questo “malgrado tutto” copre un infinito»?
(E. Cioran, Sillogismi dell’amarezza)
Lo studio sarà così tripartito: nel primo capitolo verrà analizzato lo schema
trittico di poeta-committenza-pubblico nella visione dei kavayaḥ indiani e dei
4
‘poeti laureati’ greci, seguendo uno studio comparativo del milieu in cui
operano tanto i poeti del kāvya (e l’origine del genere) quanto i grandi lirici
corali greci (le opere a fondamento della mia analisi sono il celebre saggio di
Gentili 1984
1
e quello di Smith 1985
2
); un secondo capitolo verterà sulla
poetica e sull’estetica letteraria che il kāvya “magicamente” si prefigge (si
vedrà, non totalmente altro dai precetti dell’Anonimo del Sublime) così da
meglio predisporre ai testi analizzati nel terzo capitolo; infine perciò, e più
cospicuamente, un raffronto tematico, ma difficilmente sociologico, sul kāvya
d’amore (śṛṅgāra-rasa), icastico nella Centuria di Amaruka
3
, in parallelo con
alcuni epigrammi erotici tratti dai libri V e XII dell’Antologia Palatina
4
.
Qualora non diversamente specificato, ogni traduzione (sanscrito, greco,
latino, lingue moderne) sarà da considerarsi di chi scrive, per quanto più
possibile attenendomi al precetto che M. Kundera espone nel saggio sul
romanzo I testamenti traditi (Adelphi 2000, pg.112-113): «Ammettiamolo senza
ombra di ironia: la situazione del traduttore è estremamente delicata. Deve
essere fedele all’autore e contemporaneamente rimanere se stesso: come
riuscirci? Vuole (che ne sia consapevole o no) infondere nel testo la propria
creatività e quindi, come per farsi coraggio, sceglie una parola
(sinonimizzazione) che apparentemente non tradisce l’autore, ma che
nonostante ciò è frutto di sua iniziativa personale…
Di grazia, signori traduttori, non sodonimizzateci!».
1 B. Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica. Da Omero al V secolo, Laterza Roma-Bari 1984
2 D. Smith, Ratnākara’ s Haravijaya. An introduction to the Sanskrit Court Epic, Oxford University
Press Delhi 1985
3 Amaruka, Centuria d’amore, a cura di D. Rossella, introduzione di G. Boccali, Marsilio Venezia
1989
4 Antologia Palatina, Epigrammi erotici: libri 5 e 12, introduzione traduzione e note di G. Paduano,
Rizzoli Milano 1989
5
Di tanto in tanto non mancheranno note e riferimenti linguistici comparativi,
che tanta (meravigliosa e folgorante) parte hanno avuto nel certosino ancorché
agile εὐαγγέλιον didattico del mio relatore, Albio Cesare Cassio;
né del mio bahuśruta ordinario romano di Sanscrito, Raffaele Torella, ho
trascurato l’esperto consiglio, di terenziana memoria: conoscere tanto
l’indologia quanto “il meraviglioso francese cinquecentesco di Montaigne” o
quanto “contemplare gli splendidi quadri fiamminghi del Seicento”…
Infine, un ringraziamento particolare al professor Giuliano Boccali, ordinario
milanese di Sanscrito ormai in pensione, per la fiducia riposta in me, per i
preziosissimi consigli che ha voluto darmi e per “lo scatto” che la sua
fascinosa lezione su Kālidāsa mi ha permesso di fare, incentivandomi.
Tutto questo sarebbe stato, ad ogni modo, di molta più difficile realizzazione
senza gli insegnamenti e i suggerimenti della
dott.ssa in Sanscrito, Carmela Mastrangelo.
Virtute duce comite fortuna
(E.S.)
6
I. Re, corti, poeti
«Ach, es gibt so viel Dinge zwischen Himmel und Erde,
von denen sich nur die Dichter etwas haben träumen lassen.
Und zumal ü b e r dem Himmel:
denn alle Götter sind Dichter-Gleichnis, Dichter-Erschleichnis!»
(Friedrich W. Nietzsche, Also sprach Zarathustra)
La letteratura dell’India è quasi esclusivamente religiosa, dalle mitiche origini
5
fino alla fine del primo millennio a.C. L’inizio coincide con i testi vedici,
considerati fino alle Upaniṣad rivelazione sacra e perciò fondamento
dell’ortodossia hindu; susseguono, a partire dalla metà del millennio (segnato
dalla fine della letteratura vedica), i canoni del buddhismo e del jainismo, le
due grandi religioni indiane eterodosse e ‘popolari’. Il millennio si conclude
con i due immensi poemi epici (itihāsa “così in realtà fu”), autorità religiose
6
,
etiche, giuridiche e narrative: Mahābhārata
7
e Rāmāyana. La posizione del
5 Invasori provenienti dalle zone circostanti il Mar Caspio, gli Indo-Arii che, forti dei propri carri da
guerra con cui hanno ragione dei popoli autoctoni probabilmente dravidici – la cosiddetta “Civiltà
della valle dell’Indo – verso il 1500 a.C. penetrano nel Nord-Ovest dell’India, occupandone la
pianura indo-gangetica. Cfr. M. Torri, Storia dell’India, 3ed. Laterza Roma 2007 pg.34 ss.
6 En passant, due le fonti indiane di ogni autorità: la śruti e la smṛti, “audizione e memoria”, l’una
appannaggio divino (Veda-Brāhmaṇa-Āraṇyaka-Upaniṣad), l’altra umano (Vedāṅga-Upāṅga-
Itihāsa).
7 Tale è l’autorità che viene ivi professata da pretendere di essere assolutamente esaustivo riguardo ai
quattro fini dell’uomo (Dharma, Artha, Kāma e Mokṣa: religiosità, successo, desiderio e
liberazione), così in Mbh I.56.33
a
«yad ihāsti tad anyatra yan nehāsti na tat kvacit» ovvero “ciò
ch’è qui, anche altrove; ciò che qui non è, in nessun luogo”. Cfr. S. Salustio sul valore fondante del
mito, Περὶ θεῶν καὶ κόσμου IV 8-9: «Ταῦτα δὲ ἐγένετο μὲν οὐδέποτε, ἔστι δὲ ἀεί· (queste
cose non accaddero mai ma sono sempre) […] Οὕτω δὲ πρὸς τὸν Κόσμον οἰκείως ἔχοντος
τοῦ μύθου, ἡμεῖς τὸν Κόσμον μιμούμενοι - πῶς γὰρ ἄν μᾶλλον κοσμηθείημεν; - ἑορτὴν
ἄγομεν διὰ ταῦτα» Salustio, Sugli dei e il mondo, a cura di R. Di Giuseppe, 2ed. Adelphi 2000
7
Rāmāyana, più moderno nella concezione e nello stile tra i due poemi epici,
vira verso il periodo nuovo, al punto da essere definito dalla critica indiana
come ādikāvya ovvero “primo kāvya, prima opera ‘classica’”; in realtà non è
però considerabile una vera opera classica per più motivi che lo distanziano
da quell’apparato ben distinto di «śabdārthau» (suono e senso [congiunti] , come
scrisse il teorico del IV d.C. Bhāmana) che sarà il movimento kāvya,
denominato anche “letteratura classica indiana” (I a.C. - XIII d.C. ca.).
«Kāvya» viene fatto derivare dalla radice √ku "emettere suoni", che dal
significato base di “verbalizzato”, passando per quello tecnico di
“verbalizzato per ispirazione poetica > poetico”, ha dato luce al significato di
“composizione poetica”
8
o “letteratura in stile ornato, letteratura d’arte” in
quanto i significati del termine alludono alla presenza rilevante di
“ornamenti” (alaṁkāra, letteralmente “rendere sufficiente”, satis-facere), cioè di
figure retoriche. A distinguere inequivocabilmente il kāvya (e il suo poeta, il
kavi) nel suo complesso è la finalità: «non trasmettere un messaggio religioso,
come i testi (āgama o tantra) delle diverse religioni e correnti religiose, non
raccontare i miti antichi, cioè a occhi indiani la storia, come i poemi epici
tradizionali (sscr. itihāsa), non fornire gli strumenti teorici e pratici di una
disciplina, come i numerosissimi trattati (sscr. śāstra) che la produzione
indiana mette a disposizione in ogni campo; finalità del kāvya è invece
suscitare nel fruitore l’apprezzamento del bello o, meglio, l’esperienza estetica,
lo stato della contemplazione distaccata»
9
(rasa).
Alla fine del primo millennio, le prime opere “classiche” appaiono
all’improvviso
10
e già passate al setaccio di più secoli di labor limae in quanto
8 D. Rossella, Poetry and poetic devotionalism in the indian and western traditions, L’Oca del Cairo,
Parma 2004 pg.7
9 G. Boccali, S. Piano, S. Sani, Le letterature dell’India, UTET Torino 2000 pg. 387.
Riguardo ai motivi per cui il Rām. non può essere considerato un’opera kāvya cfr. pg. 386
10 D. Rossella, Poetry and poetic…, cit., 2004 pg.11: «...the first kāvya works were probably written in
the 3rd century B.C.E., in Magadha, during Ashoka Maurya’s reign (268-233 B.C.E.), and written in
8
già risplendono delle caratteristiche che sarebbero state standardizzate e rese
topiche a partire dalla prima metà dell’era volgare. Le opere d’esordio si
trovano precipuamente in tre figure, tutte in un arco di tempo che va dal I
secolo a.C. al II d.C.: il «Grande racconto» di Guṇāḍhya; i due poemi di
Aśvaghoṣa «Le gesta del Buddha» e «Il poema di Sundari e Nanda»; la più
antica antologia di strofe indipendenti (muktaka) rimastaci, «Settecenturia» di
Hāla. Quest’ultima opera offre un alveo completo dei temi e delle situazioni
impiegate dagli autori successivi, oltre ad essere caratterizzata da un uso delle
tecniche e dei pattern poetici cui molto guarderà la critica, e il suo autore, vero
e proprio poeta lirico, ci permette di parlare della società, del milieu del
movimento kāvya: è fenomeno laico di corte, come mostrano i requisiti stessi
delle opere. Contribuiscono il ricorso a un patrimonio comune di tópoi la cui
preconoscenza è conditio sine qua non per il godimento dell’opera;
un’elaborazione stilistica, un raffinamento ossessivo apprezzabile e fruibile,
tramite un background che includesse anche gli strumenti teorici e poetici dei
kavayah, da parte perciò solamente di una élite piuttosto che dal popolo
‘profano’
11
; il completo anonimato delle persone, caratteristica forse ereditata
the dialect, magadhi, used in that province in this period – nothing, unfortunately, remains»
11 C’è chi in parte devìa da questa ipotesi, come D. Rossella, Lo Śṛṅgārarasāṣṭaka attribuito a
Kālidāsa (e qualche riflessione sul kāvya), in Tīrthayātrā. Essays in Honour of Stefano Piano,
Edizioni dell'Orso, Alessandria 2010 pg.386 (380 e ss.): l’indologa e sanscritista milanese evidenzia
che certamente la fruizione dei componimenti kāvya era perlopiù pensata per i colti rasika
(“intenditori del rasa”, cioè del ‘sapore’ estetico della poesia kāvya), ma pare altresì impossibile che
il vulgus profanum, che pur aveva fornito un apporto piuttosto consistente con le sue composizioni
al kāvya delle origini, sia stato totalmente e sempre escluso dalla produzione del kāvya stesso e dal
suo godimento (questo punto stride all’orecchio della studiosa allorché, come lei crede, le modalità
del kāvya vennero adattate all’espressione della bhakti (“devozione”: movimento devozionale nato
nell’India del sud non prima del VI secolo d.C., caratterizzato, nelle parole di L. Renou ne
L’induismo Xenia 1993 pg.59-60, dalla «partecipazione affettiva dell'uomo al divino, fede amorosa,
devozione emotiva che si manifesta con un desiderio appassionato di unione con il Signore, con un
abbandono alla volontà divina, con una sottomissione al Signore e agli altri maestri che facilitano
l'accesso presso di Lui». Avvicinabile al tantrismo per la preminenza della figura femminile del
divino, Devī; in ogni caso la bhakti è una forma di misticismo personale assimilabile al
francescanesimo occidentale o al sufismo mediorientale, cfr. Gabriele Mandel Khan, San Francesco
e Jalâl âlDîn Rûmî, ossia: Francescanesimo e Sufismo una meravigliosa parentela spirituale.
http://www.puntosufi.it/temi49.htm ultima consultazione 10/07/2016).
È comunque interessante riepilogare il contributo che la Rossella apporta alla causa dell’origine del
kāvya, spodestando il primato che l’istanza amorosa aveva avuto nella sua genesi: si suppone
9