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Nel 2019 il Canale di Suez festeggerà i suoi primi centocinquant’anni d’attività. Una data
tonda e un traguardo importante per questa sottile via d’acqua che unisce il Mediterraneo
al Mar Rosso, avvicina l’Europa all’Oriente, all’Oceania, al Pacifico.
Suez è un’arteria centrale del sistema-mondo, un fulcro di un fascio di rotte commerciali e
di flussi di traffico imponenti, un passaggio strategico per le economie del Mediterraneo e
dell’Europa, un punto geopolitico fondamentale per l’Italia e i suoi porti. Il Canale è
importante per tutti. Terribilmente importante per l’Egitto.
L’attuale presidente Abd al-Fattah al Sissi ne è assolutamente consapevole e ha deciso di
investire sul Canale — come già fece Gamal Abdel Nasser nel 1956 — il destino della
Nazione. Il generale — in accordo con i vertici delle Forze armate, il principale centro di
potere della Repubblica, e considerate le ridotte risorse statali disponibili — ha lanciato nel
2014 un’imponente campagna mediatica e una sottoscrizione popolare per finanziare la
ristrutturazione e l’allargamento della via d’acqua. Il governo cairota ha affidato a quattro
banche la vendita pubblica di titoli cartolarizzati a cinque anni, con un tasso d’interesse
del 12 per cento, riservati però solo a cittadini egiziani. Una scommessa rischiosa, tutta
improntata sui temi della dignità e dell’orgoglio nazionale, che sembra, nonostante
l’attuale crisi del trasporto marittimo, parzialmente riuscita (1).
Il 6 agosto 2015 il leader egiziano ha inaugurato solennemente la nuova autostrada del
mare. L’opera è colossale. Accanto al percorso storico — immaginato nell’Ottocento dai
sansimoniani, progettato da Luigi Negrelli, con il prezioso appoggio di Pietro Paleocapa, e
realizzato da Ferdinand de Lesseps —, è stato scavato un nuovo canale parallelo, lungo 35
chilometri, e allargato ed approfondito di 37 chilometri quello già esistente. Il raddoppio
“parziale” permette di duplicare il traffico (da 49 a 97 navi al giorno), ridurre
drasticamente i tempi d’attesa (da 11 ore a solo 3) e consente il passaggio dei giganteschi
bastimenti ro-ro di nuova generazione e delle superpetroliere. Costo immediato 4 miliardi
di dollari, a cui si aggiungeranno altri 4,5 miliardi per la realizzazione di sei tunnel (tre a
Ismailia e tre a Port Said), l’apertura di una zona industriale free tax, un cantiere navale e
cinque porti.
Secondo le previsioni del governo, una volta completato l’intero progetto, le entrate
passeranno dagli attuali cinque miliardi di dollari (dati del 2014) a 13,5 miliardi e produrrà
un milione di posti di lavoro in dieci anni: una boccata d’ossigeno importante per la
traballante economia egiziana non ancora ripresasi dagli spasmi della cosiddetta
“primavera araba” e dalle conseguenti turbolenze. Per Al Sissi — attualmente alle prese
con una dura crisi economica interna, il crollo dell’industria turistica, il caos libico e il
terrorismo nel Sinai — un’occasione unica per stabilizzare il potere e restituire all’Egitto
un ruolo centrale nel sempre più intricato quadro regionale.
Lo sforzo davvero imponente della tribolata repubblica nordafricana anticipa il futuro ma,
al tempo stesso, ci riporta al passato, alla lunga e intricata storia di questo sottile filo
liquido che divide e separa l’Africa dall’Asia, una storia che s’innerva lungo i secoli e, sin
dall’antichità ai tempi odierni, si riflette puntualmente sulle vicende italiche.
Port Suez e Port Said ci ricordano una volta di più la centralità del Mediterraneo — il
“continente liquido”, riprendendo la bella definizione forgiata da Ferdinand Braudel — e
la complessità delle sue complicate ma affascinanti e costanti connessioni con la grande
politica mondiale.
Nel nostro lavoro cercheremo di rintracciare — attraverso la vicenda del Canale — questi
intrecci, focalizzando in particolare la ricerca sugli aspetti (e i protagonisti maggiori e
minori) che influenzarono — condizionando non incidentalmente e, a tratti, in modo
sostanziale — il processo unitario italiano e quello immediatamente post unitario,
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determinando così gran parte degli indirizzi della politica mediterranea e le prospettive
geopolitiche italiane tra l’Ottocento e il Novecento.
Per comprendere cosa e quanto significò — nei suoi aspetti gloriosi, ma anche nelle tante
pagine tragiche e negli innumerevoli riflessi opachi e, ancora, non del tutto chiariti — il
“sogno di Suez”, la più grande opera infrastrutturale del XIX secolo, e capire i suoi
significati e le tante conseguenze è necessario fare un passo all’indietro e cercare
d’inquadrare lo scenario della “prima globalizzazione”, uno spartiacque epocale.
Fu il tempo delle scintillanti Esposizioni universali di Londra (1851) e Parigi (1867),
dell’epopea delle ferrovie, dei piroscafi, dei tunnel alpini, dell’avvento del telegrafo e del
carbone. I ceti imprenditoriali, il mondo scientifico, l’opinione pubblica furono pervasi da
ottimismo positivista, fiducia illimitata nel progresso e fede assoluta nella primazia
dell’Occidente, allora in piena crescita produttiva.
Tra gli effetti principali della grande trasformazione ottocentesca vi fu una vera e propria
“rivoluzione spaziale” che determinò una contrazione delle distanze e della geografia e la
creazione dei primi network di comunicazioni. In breve tempo prese forma un sistema di
interconnessioni e trasporti di massa e tutto (o quasi) sembrò raggiungibile. Una svolta
epocale che non a caso colpì la sensibilità di Jules Verne e consentì al suo Phineas Fogg il
celebre Giro del mondo in ottanta giorni: un viaggio avventuroso, ma nel 1872, non più
inverosimile.
Su queste coordinate, per i segmenti modernisti di tutta Europa, profondamente intrisi di
suggestioni sainsimoniane, letture di Comte e passioni universaliste, il taglio dell’Itsmo
rappresentò il grande laboratorio transnazionale in cui l’”utopia del progresso” diventava
infine realtà. Fiduciosi nelle loro idee, scienziati, tecnocrati, visionari e capitalisti
“illuminati” intravidero nel Canale l’annuncio di un “mondo nuovo”, aperto ai commerci
e all’innovazione, e l’opportunità di un pacifico quanto fruttuoso incontro tra popoli ed
economie. L’idea del collegamento tra i due mari entusiasmò anche il khedivè egiziano Said
e il suo successore Ismail. Ambedue videro nella ciclopica opera l’occasione per riavviare
la modernizzazione del Paese inaugurata da Mohammed Alì, lo scaltro capostipite della
dinastia cairota, e costruire la piena indipendenza da Costantinopoli con l’inserimento del
Paese nel “concerto delle Nazioni”.
Illusioni, come vedremo. Al di là delle teorie dei savants e dei miraggi politici dei pascià,
ben altro in Occidente si muoveva e, in modo impetuoso, cresceva. A metà dell’Ottocento
la prepotente potenza della tecnica e lo spirito che la pervadeva offrirono alle grandi e
medie nazioni europee una nuova ed inedita spinta dinamica e una rinnovata volontà di
conquista. Fu l’età dell’imperialismo: nell’arco di pochi decenni, accanto ai vetusti domini
spagnoli e portoghesi, sorsero in Asia, in Africa e sull’Oceano Pacifico i grandi
possedimenti coloniali britannici, francesi, olandesi, tedeschi, belgi. Come è noto, l’Italia,
latecomer nel “grande gioco” degli imperi, dovette accontentarsi di una presenza nel Corno
d’Africa.
Inevitabilmente, sin dai suoi albori negli anni Trenta dell’Ottocento, la questione del
Canale divenne un capitolo centrale della politica internazionale e l’obiettivo primario del
serrato duello tra Londra e Parigi per il controllo del Mediterraneo. Nonostante il
coinvolgimento di scienziati e tecnocrati europei e l’interesse iniziale dell’Austria, già dalla
sua fase progettuale l’idrovia ebbe un marcato carattere francese. Non a caso. A credere
(ed investire) nella ciclopica impresa furono soprattutto i circoli sansimoniani prima e poi,
con il sostegno ufficioso e intermittente di Napoleone III, Ferdinand de Lesseps, gli
azionisti e le banche francesi.
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Da subito, per la Gran Bretagna, al tempo prima potenza mondiale, la prospettiva di
un’installazione della Francia (dal 1850 neo bonapartista) in Egitto e l’eventualità di suo
controllo — diretto o indiretto, poco importava — sul Canale era semplicemente
inaccettabile. Si spiega così la perdurante ostilità inglese e la conseguente freddezza
dell’impero Ottomano, nominalmente tutore dell’Egitto, al progetto e verso i suoi
promotori. Da qui le innumerevoli discussioni tra governi, le esitazioni e i dialoghi
malcerti tra ambasciatori e banchieri, gli spietati giochi di affari e finanza, le continue
pressioni e le ripetute tensioni internazionali.
L’idea del Canale, il mito dell’ingegneria europea, si trasformò così in una lunga partita a
scacchi che si protrasse per oltre tre decenni per concludersi nel 1882. Con la vittoria piena
dell’Inghilterra, “informale” potenza protettrice dell’Egitto e azionista di maggioranza del
Canale.
Napoleone sosteneva che «La politique d’Etat est dans sa gèografie». Non si sbagliava. Lo
confermano, una volta di più, i diversi ruoli dell’Italia nel great game mediterraneo del
tempo. Già nella fase pre-unitaria il sogno di Suez accese dibattiti e interessi nei diversi
Stati della Penisola e alimentò le speranze di grandi e minori protagonisti risorgimentali in
una rinnovata vocazione marittima nazionale. Fu però il Piemonte, nonostante la sua
tradizione continentale, il laboratorio dei “canalisti” italiani. A Torino, con l’appoggio
discreto di Cavour, si formò un gruppo d’entusiasti sostenitori dell’impresa — guidati dal
ministro del Lavori Pubblici Pietro Paleocapa e dal conte Luigi Torelli — che inserirono
l’idea del Canale in una prospettiva patriottica e nazionale tentando di coinvolgere i
settori imprenditoriali italiani più dinamici. A sua volta il governo subalpino promosse
l’ampliamento del porto di Genova assieme alle prime ricognizioni ufficiose nel Mar Rosso
e sostenne apertamente la presenza di Paleocapa a Parigi nella prestigiosa commissione
internazionale incaricata di scegliere il progetto definitivo.
In quella sede il rappresentante sardo-piemontese, ma bergamasco di nascita ed esule
politico dal 1849, lavorò in piena e felice sintonia con il trentino Luigi Negrelli, alto
funzionario asburgico e vero “padre” del Canale. Purtroppo nel tempo il fondamentale
apporto all’opera dei due scienziati — italiani, seppur divisi da contrastanti fedeltà
politiche e istituzionali — è stato quasi dimenticato. Le responsabilità sono plurime: da
subito i loro nomi vennero oscurati dallo stesso Lesseps e dai suoi agiografi, poi, nel primo
Novecento, il ricordo venne invece enfatizzato oltre misura dalla propaganda nazionalista
e fascista (che sorvolò bellamente sulla lealtà di Negrelli all’Austria). Iperboli che
probabilmente determinarono il successivo disinteresse degli storici italiani.
La questione di Suez ebbe a sua volta riflessi importanti sul processo risorgimentale
italiano. Tra i motivi che spinsero, tra il 1859 e 1861, la Gran Bretagna ad appoggiare il non
molto amato governo cavouriano vi fu il timore di una satellizzazione francese del fragile
regno sabaudo e di una conseguente alterazione dei rapporti di forza mediterranei.
Da qui gli incoraggiamenti di Londra, sempre in una logica anti francese, alla spedizione
garibaldina nelle Due Sicilie, l’immediato riconoscimento del regno d’Italia e il parziale
sostegno economico — significativo solo nei campi delle industrie ferroviarie e
cantieristiche — al giovane Stato. Un legame forte e ineguale che però non si ridusse in un
supino allineamento italiano ai dettami britannici, men che meno su Suez. Malgrado gli
enormi problemi conseguenti all’unificazione, i governi post-cavouriani confermarono
l’interesse dell’Italia per la realizzazione dell’impresa, rivendicando con orgoglio la
presenza di ingegneri italiani (il torinese Edoardo Gioja, tra tutti) nei ruoli apicali e
facilitando il reclutamento di mano d’opera qualificata — per lo più proveniente da
Piemonte, Toscana e Calabria — per i cantieri del Canale.
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Sfortunatamente — malgrado lo sforzo di Luigi Torelli e Cesare Correnti, al tempo
ministri, e dei primi “africanisti” raccolti nelle Società geografiche — poco si fece (ma forse
poco in quel contesto si poteva fare...) per attrezzare adeguatamente il sistema-paese in
previsione dell’inaugurazione, il 17 novembre 1869, dell’idrovia. L’indomani, a fronte
delle forse eccessive speranze riposte dai “canalisti”, l’Italia si scoprì ancora arretrata e
disorganizzata, quasi del tutto priva di una marina mercantile moderna, con porti e
collegamenti ferroviari disconnessi, insufficienti o in via di realizzazione. Di questa
terribile debolezza approfittarono fruttuosamente i concorrenti stranieri, in primis le
compagnie francesi, inglesi e austro-ungariche e i porti di Marsiglia e Trieste, allora
asburgica.
Nei decenni successivi, i vari governi della Sinistra storica e poi quelli di Giolitti, tentarono
di colmare i tanti ritardi strutturali del “Patrio Stivale” con provvedimenti importanti, ma
non sempre efficaci e tanto meno risolutivi (soprattutto in campo navale), oppure con
contradditorie politiche mediterranee — incentrate su Tunisia ed Egitto — e proiezioni
espansionistiche in Mar Rosso.
Ma, al di là delle illusioni dei ceti dirigenti, l’Italia era e rimaneva una nazione debole, “la
minore delle potenze maggiori”. Anche nel Mediterraneo. La vicenda di Suez lo conferma
una volta di più. Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, nonostante una significativa crescita
economica, la stipulazione di alleanze (ufficiali o ufficiose) con Berlino, Vienna e Londra,
l’espansionismo nel Corno d’Africa e la presenza di una forte e qualificata comunità
italiana ad Alessandria e nella zona del Canale, Roma non riuscì mai ad esercitare un peso
politico significativo e ad ottenere una rappresentanza negli organi direttivi della
Compagnie .
Malvolentieri ma obbligatoriamente, l’Italia dovette rassegnarsi ad un ruolo secondario
nei ricchi traffici verso l’Oriente e a pagare, senza alcun sconto, ogni passaggio per l’Africa
Orientale Italiana. Il Canale, sino al secondo dopoguerra, rimase per lo più motivo di
rumorose rivendicazioni “antiplutocratiche” verso l’occhiuto controllo albionico ed
oggetto di costanti polemiche per gli alti costi di pedaggio imposti alle nostre navi dagli
esosi gestori anglo-francesi. Nulla di più.
In sintesi, malgrado l’impegno dei “canalisti”, il sacrificio delle migliaia di tecnici ed
operai italiani che lavorarono (e, talvolta, morirono) sull’Istmo e gli investimenti (tardivi)
sul sistema infrastrutturale, il tanto atteso collegamento tra i due mari si rivelò una
“grande occasione” perduta e sprecata. L’ennesima.
Se per l’Italia l’idrovia fu una forte delusione, per l’Egitto significò la rovina assoluta. Nel
1858, il pascialato era il primo azionista della grande impresa e il Canale appariva come il
vettore verso la modernità, il progresso, il benessere. Vent’anni dopo, le stratosferiche
spese per l’apertura della via navigabile avevano svuotato le casse pubbliche e stremato
l’intera nazione: nelle famigerate corvèe dei fellah, ovvero i lavori forzati dei contadini
egiziani sull’Itsmo, morirono — secondo le stime dei nazionalisti cairoti, poi riprese da
larga parte degli studiosi europei —100-120mila fellah. Una cifra enorme, forse esagerata,
ma considerate le inumane condizioni di lavoro, la durezza del clima e le puntuali
epidemie di colera, non inverosimile.
Ma Lesseps gli altri implacabili creditori europei non s’impietosirono: gli azionisti e i
governi di Francia e Gran Bretagna, pur detestandosi, s’impegnarono ancor di più per
erodere i residui diritti del khedivè, sinchè, dal 1880 in poi, il Canale non fu più una
questione egiziana ma solo un lucroso affare straniero. Due anni più tardi, i britannici
cancellarono brutalmente le ultime parvenze di sovranità e il Paese intero divenne una
colonia “indiretta” della regina Vittoria. Un destino amaro, lucidamente previsto già nel
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1865 dal generoso visionario Barthélemy Prosper Enfantin. In una lettera a Napoleone III,
il capofila dei sansimoniani ammoniva:
«Le Canal se fera au prix d’immens sacrifices humain et financiers et ouvrira l’Ègypte à la
domination étrangère; les principes éthique du travail selon Saint–Simon sont broyés par
l’impitoyable gant de fer du capitalisme international et de “néo-devorants”» (3).
Espropriato, occupato e impoverito — dal 1880 sino alla prima guera mondiale il governo
cairota dovette accontentarsi dello 0,09 per cento dei benefici annui del Canale — per
l’Egitto Suez, zona internazionalizzata, divenne il simbolo dell’umiliazione nazionale. Da
qui l’enorme entusiasmo delle folle, il 26 luglio 1956, all’annuncio, 13 anni prima dello
scadere della concessione, della nazionalizzazione della via navigabile. Nel suo storico
discorso ad Alessandria, Nasser pronunciò più volte il nome di Lesseps. Non era un
tributo postumo al Grand Français ma la parola d’ordine per la liberazione di Port Said,
Ismailia, Port Suez. La rivincita di un intero popolo.
L’idea di questo lavoro nasce lontano nel tempo, dai racconti ascoltati e raccolti tanti,
troppi anni fa: uno scrigno di narrazioni su terre e mari lontani, frammiste a immagini di
popoli fascinosi e misteriosi, baluginii di eventi potenti, e poi, atlanti, mappamondi e
cartoline, fantasie e tanti, tanti sogni. Frammenti di memorie familiari, spezzoni in cui gli
orizzonti del Mar Rosso e le luci di Suez si confondevano con l’attualità del tempo. Piccole,
grandi storie che affascinavano un bimbo dagli occhi azzurri, intrigato da Salgari e Verne,
che mai s’annoiava nel risentire narrare il fortunoso passaggio, nel giugno del 1967,
dell’ultima nave dell’ultimo convoglio uscito da Port Said. Un attimo prima dello
scatenarsi della “guerra dei sei giorni”. Sulla plancia, al comando di quella nave c’era il
comandante Vincenzo Valle. Mio padre.
NOTE
1. Nel 2014 il Canale è stato attraversato da 17.148 navi con un incremento del 3,3 per
cento rispetto all’anno precedente; di queste 4053 sono state petroliere — con una
crescita del 12,8 rispetto al 2013 — e 13.095 altre navi, per un volume di traffici
commerciali di 416 milioni di tonnellate nella direzione nord-sud e di 406,3 milioni
in quella opposta. Fonte: Andrea Marcigliano, Le due porte di Suez, in Rivista
Marittima, n. 266 marzo 2015, Edizioni Ministero della Difesa, Roma. Nel 2016,
secondo i dati comunicati dalla Suez Canal Authority, i dati di traffico hanno invece
registrato una flessione generale del 3,7 per cento rispetto al 2014. Lungo il Canale
sono transitate 16.833 navi (-3,7%) con un aumento delle unità ro-ro (+19,1%) pari a
461; 70 le navi passeggeri (+2,9%) e 1,662 le multipurpose (+8,8%). In calo le
portacontainer (-8,9%), pari a 5.414; petroliere (-0,6%) a 4.292 unità; rinfusiere (-
2,7%) a 2.801 unità; 875 le car-carrier (-6,8%) e 575 quelle a gas (-14,2%). In flessione
anche il tonnellaggio di stazza complessivo, pari a 974,2 milioni, con un calo del 2,5
per cento.
2. Caroline Piquet Histoire du Canal de Suez, Perrin, Parigi, 2008, p. 129.