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giustificano almeno in parte lo Stato di degradazione
dell’organizzazione e delle strutture scolastiche del tempo, che
in un certo senso accomunò tristemente tutti gli Stati Italiani
settentrionali o meridionali, senza grandi differenze.
L’occupazione napoleonica, per quanto fosse stata breve ed
interrotta, fu molto importante per il destino della scuola
piemontese, infatti, oltre ad avere scandito l’intero cursus
scolastico in scuola primaria e secondaria (ciascuna di tre anni),
introdusse nella scuola piemontese, nuove materie
d’insegnamento e metodologie. In più poterono penetrare e
diffondersi le opere di alcuni autori illuministi come: Voltaire e
Rousseau.
Negli anni successivi al 1840 sorsero parecchie scuole di
metodo per istruttori elementari sul modello di quella sorta
presso l’università di Torino per merito di Ferrante Aporti,
sacerdote emigrato dalla Lombardia come elemento sospetto e
già benemerito nella sua regione per essere stato l’animatore ed
il promulgatore più acceso degli asili infantili.
Si giunse così alla legge Boncompagni presentata al Parlamento
il 26 agosto 1848 e che poteva essere considerata come
l’espressione degli studi pedagogici dell’università di Torino.
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La riforma Boncompagni ha dato una struttura scolastica
abbastanza moderna, suddividendola in tre rami: primaria,
secondaria classica e speciale (cioè tecnica), universitaria; ha
assegnato una funzione decisiva al Ministero della Pubblica
Istruzione (dal quale doveva dipendere tutta l’istruzione Regia,
pubblica o privata che fosse); ed ha previsto anche il Consiglio
Superiore della Pubblica Istruzione.
Si trattò di riforme e d’indirizzi politici ribaditi
successivamente dalla Legge Casati e spesso tuttora esistenti.
Con la legge Casati (13-11-1859) si giunse ad un unico
ordinamento, valido per tutte le regioni che progressivamente
entrarono a far parte del Regno. In essa confluirono i tre filoni
principali; quello piemontese, quello longobardo e quello
napoletano. La legge Casati si divulgava moltissimo sulla
scuola secondaria superiore, giudicata come il fulcro dell’intero
iter scolastico.
L’art. 188 della stessa Legge dice: “ l’istruzione secondaria ha
per fine di ammaestrare i giovani in quegli studi, mediante i
quali s’acquista una cultura letteraria e filosofica, che apre
l’adito agli studi speciali che menano al conseguimento dei
gradi accademici nelle Università”. Si trattò di una legge
promulgata senza un adeguata riflessione politico – pedagogica,
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in ogni caso, bisogna dare atto ad essa di aver per prima
imposto la scuola come obbligo di ogni persona civile,
iniziando così la lotta contro l’analfabetismo; e di aver saputo
dare agli insegnanti una figura giuridica precisa, trasformandoli
da salariati di certe famiglie in dipendenti statali. Essa del resto
fissò i requisiti per la nomina ad insegnante, inquadrò
gerarchicamente la carriera dell’insegnante, delineò uno statuto
in cui erano previsti i diritti e i doveri di questa categoria (quali
ad esempio il diritto di scegliere liberamente i testi scolastici o
il dovere di non impartire lezioni private). La legge Casati
aveva ammesso l’esistenza di scuole private.
Tra le riforme programmatiche della scuola elementare
successive alla legge Casati vi fu nel 1877 quella Coppino.
Dopo un primo periodo della scuola italiana ne seguì un
secondo caratterizzato grosso modo dal prevalere delle dottrine
e degli orientamenti positivisti. Volendo precisare il suo arco
temporale, potremmo affermare che esso ebbe inizio nel 1888,
anno in cui furono approvati i nuovi programmi didattici per le
scuola elementare, seguiti dalle istruzioni redatte dal
pedagogista Aristide Gabelli.
Rifacendosi a certe posizioni umanistiche dell’illuminismo, il
positivismo richiama l’attenzione agli aspetti psico –sociologici
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e morali dell’educazione e di saldare concretamente i problemi
educativi con la realtà sociale e politica.
Ne è una dimostrazione chiara il pensiero di Aristide Gabelli,
per lui la scuola e specialmente quella elementare, ha da essere
sensibile non soltanto alle esigenze di carattere didattico, ma
anche a quelle di un’educazione più completa di carattere
morale, civile e sociale. Così il metodo dell’insegnamento sul
quale Gabelli insiste in modo particolare doveva servire come
mezzo adatto a facilitare si l’insegnamento e l’apprendimento,
ma soprattutto a far “ bene le teste” più che a riempirle.
La sostanziale tendenza all’enciclopedismo che troppo spesso
diventava, nella concretezza della nostra scuola di allora e
malgrado tutti gli avvertimenti dei più illustri pedagogisti
positivisti, un rinnovato nozionismo fu uno degli aspetti più
negativi della fase positivista della scuola italiana.
Per quanto riguarda ad esempio l’educazione fisica essa
divenne sempre più “ginnastica”, ovvero quella pratica
deteriore di alcuni esercizi fisici che è lontanissima delle
indicazioni pedagogiche che aveva tentato di darle il Gabelli
(doveva servire a dare sviluppo agli organi della respirazione,
vigore e sicurezza nei movimenti del corpo, doveva dare
sollievo all’occupazione mentale dei fanciulli ecc.).
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L’istruzione intellettuale, il principio dell’attenersi alle cose, si
mutò ben presto in mito dell’intangibilità del fatto, dando luogo
ad una nuova forma di dogmatismo culturale e didattico (essa
secondo il Gabelli, pur dovendo curare la trasmissione di talune
cognizioni indispensabili, aveva soprattutto il compito di
sviluppare un certo “modo di pensare” quindi, non “idee
generali”, che sono sintesi estranee al pensiero dei fanciulli e
dunque imposte dogmaticamente, ma “osservazioni” cioè
l’istruzione data dai sensi, curiosità ben desta e attenzione).
L’educazione morale (o formazione dell’animo, prevista nella
scuola positivista come esercizio dei doveri dell’uomo e del
cittadino, intesa quindi come educazione della volontà) si inserì
spesso in una concezione disciplinare assai rigida rivolta sia
agli insegnanti tramite la figura del preside, sia agli alunni
tramite il registro di classe diventato vero e proprio strumento
di potere.
E’ da riconoscere comunque che con il positivismo si
intensifica molto il costume della vita culturale ed associativa
degli insegnanti (congressi, associazioni, riviste ecc.). Ciò ebbe
una grande rilevanza storica, cominciò la tradizione delle grandi
lotte politiche per la scuola e da parte degli insegnanti vi fu
l’acquisto di una nuova fiducia in se stessi e nell’importanza del
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loro ruolo sociale. Seguì alla riforma Gabelli la riforma,
Boccelli (1895), Nasi (1903 ), Orlando (1923 ), Daneo-Credaro
(1911 ) per giungere alla riforma Gentile (1923).
Il Gentile, nel congresso degli insegnanti medi, tenuto a Napoli
il 24-27 settembre 1907, affermò che la scuola del positivismo
non aveva dato un contenuto morale, un ideale di vita. Essa si
sarebbe limitata all’analisi scientifica dei fatti, mentre
nell’educazione presuppone sempre una morale e una “ visione
del mondo “ che è data o dalla religioni o dalla filosofia. Il
dopoguerra scolastico si caratterizzò, oltre che per l’ulteriore
sfaldamento del fronte democratico – radical - socialista
attraverso la nascita e la sempre maggior diffusione di un
nazionalismo educativo (collaterale a quello che andava sempre
più precisandosi politicamente, con G. D’Annunzio e B.
Mussolini), ad opera di Gentile, ma soprattutto di Lombardo
Radice che nel 1920 iniziò la pubblicazione della rivista:
“Educazione nazionale” e fondò i “Gruppi d’azione per le
scuole”, poco dopo riuniti in “Fasci”. In un certo senso
dobbiamo riconoscere che la stessa crisi di disorientamento che
travagliava l’intera Nazione venne vissuta anche dalla scuola e
dalla cultura pedagogica; e che purtroppo gli stessi germi di una
soluzione della crisi, orientati in senso nazionalistico e fascista,
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cominciano a farsi sentire anche nella scuola. Con la riforma
Gentile (1923) ha dunque inizio quella che abbiamo indicato
come la fase idealistica della scuola italiana che durò fino alla
seconda guerra mondiale. Il presupposto idealistico
dell’educazione come auto-educazione può caratterizzare la
nuova scuola riformata come essenzialmente “formativa”; in
essa, infatti, il maestro non è più colui che espone ciò che sa
perché l’alunno impari, ma colui che, rifacendo il proprio
sapere insieme con i propri alunni, li aiuta ad elevarsi fino a lui
e li mette in grado di procedere verso sempre nuove conquiste,
ossia di auto svilupparsi ed auto formarsi.
Un altro aspetto importante della teoria Gentiliana è
l’interpretazione del ritmo dialettico della vita spirituale
dell’educando. Si tratta di una sorte di “psicologia dell’età
evolutiva” non scientifica ma filosofica che servì al Gentile
come motivo conduttore di tutti gli ordinamenti scolastici
previsti dalle sue riforme: essa prevedeva ed affermava che quel
ritmo avveniva secondo tre momenti fondamentali: della
soggettività “arte”, dell’oggettività “scienza e religione”, della
sintesi “filosofia”.
Di qui la sua pretesa di strutturare l’intero corso scolastico in tre
corrispondenti momenti successivi; nel primo, quello
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elementare l’alunno acquista i mezzi di formazione delle culture
attraverso un insegnamento che tiene conto in quell’età della
prevalenza dei momenti dell’arte e della religione. Nel secondo,
quello secondario, l’alunno deve acquistare la mentalità
necessaria alla cultura, attraverso un insegnamento ad indirizzo
classico che, soprattutto nelle classi superiori, comprende lo
studio della storia della filosofia. Nel terzo, quello universitario,
l’alunno, acquista la vera e propria cultura e con ciò realizza, il
suo autentico essere cittadino.
La riforma Gentile all’eteronomia del sapere contrappone il
momento soggettivo, autonomo, del processo di apprendimento,
la valorizzazione della spontaneità, dell’intuizione e della
creatività del fanciullo soggetto attivo e non oggetto
dell’insegnamento.
Di qui il primato dei linguaggi del corpo su quelli obiettivi
dell’istruzione, del canto disegno recitazione gioco
sull’osservazione, ricerca logico/matematica e scientifica. La
“carta” didattico Gentiliana, pur attestando l’indubbio merito di
riscuotere le motivazioni più genuine e l’autonoma tensione
creativa dell’infanzia, resterà lettera morta, una mera
“intenzione” pedagogica spezzata via dal consolidarsi di un
apparato scolastico centralistico gerarchico dogmatico (sorgono
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i direttori didattici del Circolo, gli ispettori di circoscrizione, i
Consigli di disciplina per i maestri).
L’ultimo atto di questo movimento di progressivo snaturamento
della riforma Gentile fu rappresentato dalla “Carta della scuola”
del Ministro Giuseppe Bottai (1942) che era giunto ad
affermare addirittura che la riforma Gentile non rispondeva
ormai più alle esigenze dello Stato fascista. Egli propugnava
l’ingresso delle masse nella scuola e quindi l’avvento di una
scuola popolare, con lo scopo di formare dei lavoratori “attivi e
disciplinati” ma al tempo stesso “contenti dei limiti imposti
dallo stato”. Con quest’ultima riforma si toccò comunque il
fondo della politicizzazione della nostra scuola, con l’obbligo
fatto a tutti gli insegnanti di giurare fedeltà al regime.
La rinascita della scuola italiana passò attraverso la riscossa
antifascista iniziata il 25 luglio 1943 e trasformatasi dopo l’8
settembre dello stesso anno in lotta partigiana e clandestina. Il
compito di defascistare la scuola italiana venne affidato ad una
commissione presieduta dal pedagogista americano Corleton
Washburn (propugnatore del sistema Winnetka).
Per quanto riguarda il primo punto, vennero tolti dai programmi
e dai testi tutti i riferimenti al Regime, alla razza, al
nazionalismo esasperato, sostituendo gli ideali di grandezza con
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quelli della convivenza pacifica tra i popoli. Per quanto riguarda
il secondo punto, si cercò di divulgare tra i maestri alcuni modi
pedagogici dell’attivismo: dalle necessità che la scuola soddisfi
i bisogni di base del fanciullo (salute fisica mentale, emotiva)
attitudini ed interessi, alla opportunità che il fanciullo impari ad
identificare il proprio benessere con quello della propria
famiglia, della comunità, dello Stato, del mondo e che pertanto
conduca un’esperienza autentica di vita sociale ecc.
Tuttavia vi fu una notevole prudenza da parte dei nuovi
responsabili della nostra politica scolastica (Ministro della
Pubblica Istruzione il filosofo De Ruggiero) che temevano di
pregiudicare con disposizioni affrettate una riforma che andava
invece meditata e discussa in Parlamento. Così le stesse
decisioni prese dalla commissione Washburne trovarono, in
molti casi, forti resistenze tanto che di fatto si ridussero a ben
poca cosa.
La riforma Omedio De Ruggerio (1945) ha come merito
principale quello di avere voltato le pagine del trentennio
fascista, sostituendo al dogmatismo e al campanilismo culturali
di marce gentiliana gli ideali della libertà dell’insegnamento,
del pacifismo e dell’intenzionalismo educativo.
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Nel quinquennio che congiunge idealmente la liberazione agli
anni cinquanta, l’unica linea di politica scolastica va rintracciata
tra le pagine della Costituzione: essa stabilisce non solo che la
scuola deve essere aperta a tutti i cittadini, ma anche che: “i
capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di
raggiungere i gradi più alti degli studi” (art. 34); inoltre
riafferma che l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto
anni (dunque fino al quattordicesimo anno d’età), è obbligatoria
e gratuita, mentre ammette ancora il diritto di Enti e di privati
d’istituire scuole e istituti di educazione “senza oneri per lo
Stato”.
Il decennio 50-60 è contrassegnato dalla stagione sociale del
cosiddetto boom economico. Un periodo attraversato da un
forte incremento e da un’eccezionale espansione nelle zone del
centro nord del nostro paese, degli investimenti produttivi
(industrie) e del mercato del lavoro (occupazione) e,
conseguentemente, del benessere e dei consumi privati
(miglioramenti salariali e reddito pro capite). La scuola fu
ovviamente investita frontalmente da questa età di forte
“mutamenti”: di mobilità sociale, per i movimenti immigratori
del sud verso il nord e dalle campagne verso le metropoli; di
crescente lievitazione delle domande di forza-lavoro, tanto da
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assorbire una mano d’opera “femminile” tradizionalmente
escluse dai circuiti produttivi; di socializzazione delle culture,
tanto da portare le culture “subalterne” a rivendicare livelli di
vita e standards formativi pari a quelli goduti da gruppi sociali
più emancipati (appartenenti al settentrione e ai centri urbani
del nostro paese). La scuola diventò ben presto uno dei punti di
scarico, uno dei crocevia nevralgici di queste spinte socio-
culturali) di questa complessa trama di “bisogni-domande-
aspettative”: sia in quanto agenzia sociale (servizio
assistenziale), sia in quanto agenzia formativa (strumento di
liberazione ed emancipazione culturale).
Dunque, il decennio cinquanta/sessanta e soprattutto una
stagione di gestazione, di primo dibattito di un movimento
riformatore che darà i sui frutti soltanto negli anni sessanta . Fu
in questo arco di tempo che furono redatti i programmi Ermini
D.P.R.L. 4-06-N530 (1955,) che, sull’onda dello spiritualismo
pedagogico allora imperante, nello spostare il baricentro
educativo dalla sfera intellettuale a quella etico/affettiva (è
l’educazione ai “valori” più che alla “conoscenza” ad
interessare il Legislatare) hanno il merito di alleggerire e ridurre
il carico culturale e la frantumazione didattica della scuola
elementare degli anni cinquanta, soprattutto puntando
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sull’organizzazione di un insegnamento scanditi in due cicli col
compito di individualizzare i processi cognitivi ai ritmi e alle
capacità di ciascun allievo.
All’insegnante è concessa la massima discrezionalità e la libertà
didattica che trova quale unica barriera l’ideologia stessa che
informa i programmi e cioè l’orientamento cattolico a cui
tassativamente deve uniformarsi l’insegnante allo scopo di
realizzare un’educazione che abbia come suo fondamento e
coronamento l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la
forma ricevuta dalla tradizione cattolica.
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b) bilancio critico dei Programmi del “55..
Fare un bilancio critico dei Programmi Didattici del “55
significa porsi, con uno spiccato senso di onestà intellettuale, il
seguente interrogativo: quali motivi e quali principi ispiratori
dei vecchi Programmi hanno resistito alle trasformazioni della
società e quali, invece, sono stati superati dalla necessaria
evoluzione della realtà, delle scienze umane e delle tecnologie?
A mio avviso i motivi di fondo e sempre attuali, del progetto
educativo-didattico dei programmi del “55 sono individuabili:
- nella prospettiva ontologica, giuridica e filosofica del
personalismo, secondo cui l’individuo viene riconosciuto come
“persona”, cioè come ente portatore di valori e di diritti
inalienabili che lo stato, la collettività, la scuola (come
istituzione essenzialmente democratica) devono tutelare e
promuovere;
- nell’accettazione dei principi psicologici dell’aderenza
all’ambiente e alla strutturazione psichica del fanciullo come
criteri necessari ai fini della progettazione e dell’attuazione
dell’iter educativo-didattico;
- nella proposta del principio pedagogico della “formazione
integrale” della personalità del fanciullo cioè dello sviluppo
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armonico unitario di tutte le sue componenti: da quella
intellettivo-cognitiva a quelle etico sociali ed artistico-
espressiva;
- nella scansione del tempo scolastico secondo il principio
psico-pedagogico della ciclicità;
- nella proposta del criterio dell’insegnamento
individualizzato e nell’alleggerimento del carico delle nozioni
disciplinari;
- nel potenziamento delle attitudini “osservazione –
riflessione – espressione” e nelle sollecitudine di “fare scaturire
dall’alunno stesso l’interesse all’apprendimento”;
- nell’esigenza di potenziare l’atteggiamento critico del
fanciullo, come garanzia di una società più umana e più
rispettosa del potenziale creativo del singolo.
I motivi di fondo poco attuali, a mio avviso, possono essere così
schematizzati:
- i programmi del ’55 cadono nel difetto di super-
valutazione della componente religiosa, considerata come
“fondamento e coronamento di tutte l’opera educativa”; da qui
anche il criterio metodologico-didattico secondo cui la vita
scolastica abbia quotidianamente inizio con la preghiera, che è
elevazione dell’animo a Dio;