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RIASSUNTO
Recentemente, il problema dell’antibioticoresistenza è divenuto una questione di taratura
globale, dovuto in larga parte all’uso sconsiderato e spesso inappropriato delle risorse
antimicrobiche a disposizione per il trattamento delle infezioni. L’attenzione verso le Infezioni
Correlate all’Assistenza (ICA), causate da microrganismi Gram-positivi e Gram-negativi,
spesso resistenti al trattamento farmacologico, rappresenta un imperativo nell’assicurazione di
un’assistenza terapeutica efficace. Negli ultimi anni, per i farmaci considerati di ultima linea nel
trattamento delle infezioni ospedaliere, in particolare fluorochinoloni, piperacillina/tazobactam,
carbapenemi, daptomicina, linezolid e tigeciclina, si sono registrati consumi in continuo
aumento. L’obiettivo di questo studio è quello di caratterizzare le Unità Operative afferenti
all’ULSS 20 di Verona che in misura maggiore si rendono responsabili di questo uso spesso di
importante misura, e di valutare quindi, sulla base dell’analisi delle prescrizioni e
dell’isolamento dei patogeni, l’appropriatezza del percorso di scelta terapeutica, in relazione al
periodo 2014-2015.
I dati relativi al consumo dei farmaci ad azione antibiotica per le unità di interesse rilevate
(Geriatria, Medicina Generale, Unità di terapia Intensiva, Lungodegenza, Lungodegenza con
sede a Marzana e Case di Riposo) sono stati ricavati dai sistemi di gestione aziendale; tutte le
informazioni sulle generalità e caratteristiche dei pazienti, nonché delle prescrizioni per essi
formulate, sono stati raccolti mediante consultazione delle Schede di Dimissione Ospedaliera e
dei dati delle cartelle cliniche presenti nei sistemi di gestione dell’Ufficio di Prevenzione
dell’Ospedale di San Bonifacio. A conferma dei dati forniti dagli stessi, sono stati presi in
considerazione anche gli isolamenti effettuati dal laboratorio di microbiologia ed i relativi
antibiogrammi.
Nel 2014 i reparti più attivi nel consumo degli antibiotici si sono confermati quelli verso i quali
la struttura ospedaliera aveva manifestato il suo interesse nell’effettuare l’indagine. I dati,
espressi come DDD/100 giornate di degenza, hanno messo in luce che nel 2014 e nel 2015 sono
state consumate, rispettivamente, 141.21 e 158.55 DDD nell’Unità di Terapia Intensiva, 64.22
e 61.76 DDD in Geriatria, 50.08 e 22.90 DDD in Lungodegenza, 14.71 e 21.53 DDD nella
Lungodegenza di Marzana e 65.46 e 63.68 DDD nelle Case di Riposo. Di queste, circa il 90%
della quantità totale è rappresentato dai farmaci antibiotici di seconda, terza e quarta linea per il
trattamento delle infezioni, con picchi dal 96% al 99% in Geriatria e nella Lungodegenza. Una
percentuale che va dal 45% al 91% di questi ultimi sono in realtà rappresentati dai soli farmaci
di ultima linea, dimostrando una ricorrente tendenza a preferire tali farmaci rispetto a quelli di
prima linea per il trattamento delle infezioni. La Medicina Generale, invece, si pone in totale
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contrapposizione a questa tendenza, arrivando a consumare anche nessun antibiotico in alcune
categorie farmaceutiche.
Per questi reparti è stata eseguita un’analisi più approfondita, andando ad indagare quanti
pazienti avessero ricevuto una terapia antibiotica di ultima linea, di che tipo essa fosse e per
quale patologia fosse stata pensata. Dall’analisi è emerso che 2161 pazienti nei reparti
considerati hanno ricevuto un trattamento antimicrobico di ultima linea nel 2014, e che di questi
il 61% hanno ricevuto una terapia anti Gram- ed il restante 39% una terapia anti Gram+. Nel
2015 il numero di pazienti trattati è sceso a 1940, con una percentuale di distribuzione del tipo
di terapia simile.
Tra le terapie anti Gram+, il 55% nel 2014 ed il 48% nel 2015 dei pazienti ha ricevuto il
trattamento in modo empirico, e di queste circa il 70% è risultato essere una terapia di prima
scelta, e per le quali in meno della metà dei casi è stata richiesta la consulenza infettivologica.
Per quanto riguarda la terapia farmacologica basata sul referto microbiologico, invece, nel 2014
l’appropriatezza prescrittiva è stata valutata totale nel 56.5% dei casi nel 2015 e nel 31% nel
2015, considerando però anche una buona percentuale di appropriatezza parziale.
Per le terapie anti Gram-, circa il 90% dei pazienti in entrambi i periodi ha ricevuto il trattamento
previo accertamento microbiologico. Di questi, la terapia è valutata come appropriata nel
52.83% dei casi nel 2014 e nel 44.5% nel 2015. Dei pazienti che hanno ricevuto una terapia
empirica, invece, il trattamento è risultato di essere del 69% nel 2014 e del 91% nel 2015, mentre
la consulenza infettivologica è stata richiesta in una percentuale bassissima dei casi, nel 16% e
12% rispettivamente.
Complessivamente, quindi, è stata riscontrata una bassa tendenza alla consulenza infettivologica
da parte dei medici nel momento dell’impostazione della scelta terapeutica, e una propensione
alla scelta di medicinali di ultima linea senza prima aver richiesto un esame microbiologico utile
alla corretta formulazione della diagnosi e della prescrizione, senza tra l’altro ricorrere a
trattamenti di prima linea prima di iniziare una terapia definitiva.
Dall’indagine epidemiologica è inoltre emersa la necessità per le strutture ospedaliere e
residenziali dell’ULSS 20, ed in generale per ogni struttura assistenziale, di strutturare un
proprio programma di gestione della terapia antimicrobica che sia comprensivo di ogni aspetto,
dalla scelta terapeutica, al monitoraggio dell’epidemiologia delle infezioni, alla politica di igiene
e profilassi delle malattie infettive, e che coinvolga ogni attore interessato alla questione,
permettendo un passaggio di informazioni che possa essere utile per un buon esito clinico.
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INTRODUZIONE
La chemioterapia antimicrobica è definita come una disciplina farmacologica finalizzata alla
ricerca e allo studio laboratoristico-clinico di molecole dotate di tossicità selettiva verso i
microrganismi responsabili delle infezioni: rispetto alle altre classi farmacologiche, queste
molecole selettive sono peculiari, poiché mirano all’abbattimento della causa della problematica
piuttosto che a limitare gli aspetti sintomatici. A questa finalità concorrono insieme molecole
antibiotiche e chemioterapiche, che si differenziano le une dalle altre per la tecnica di
ottenimento, naturale nel primo caso e totalmente sintetica o semisintetica nel secondo.
Attualmente, in ambito della letteratura e della pratica medica, i due termini vengono utilizzati
in maniera indifferente tra di loro (Rossi, Cuomo, & Riccardi, 2001). Gli antibiotici si
differenziano l’uno dall’altro per numerosi aspetti, tra cui le proprietà chimiche e fisiche, lo
spettro d’azione, l’azione farmacologica ed il meccanismo d’azione. Esistono quindi, sulla base
delle diverse proprietà, altrettanto differenti modalità di classificazione, secondo la struttura
chimica di base, secondo lo spettro d’azione, secondo i microrganismi bersaglio, secondo la sede
della patologia interessata e quant’altro. La metodologia più utilizzata, però, e quella più storica,
è quella che si basa sulla struttura chimica che sta alla base delle molecole e sulla contemporanea
considerazione del meccanismo d’azione. In particolare si ricordano: agenti antimicrobici che
inibiscono la sintesi della parete cellulare batterica conducendo alla lisi cellulare (antibiotici a
struttura beta-lattamica e glicopeptidi), agenti antimicrobici che interferiscono con le
funzionalità ribosomiali batteriche producendo una modificazione nella produzione proteica
(macrolidi, tetracicline, aminoglicosidi), antimetaboliti e analoghi degli acidi nucleici che vanno
ad interferire con la produzione degli stessi (sulfamidici), agenti antimicrobici che agiscono sugli
acidi nucleici (fluorochinoloni, rifamicine). Nella pratica clinica, numerosi sono gli aspetti che
possono concorrere all’effetto finale, in particolare la capacità intrinseca del farmaco di
raggiungere il sito d’infezione e di inibire la proliferazione batterica; ma non è un aspetto
secondario anche lo stato di salute dell’ospite, il suo stato di difesa immunitaria, che se
compromesso e non ottimamente efficiente porterà alla necessità di somministrazioni ripetute e
di dosi massicce di farmaco che possano in questo modo assicurare la completa debellazione
della colonia batterica (Rossi, Cuomo, & Riccardi, 2001).
Negli ultimi anni l’uso degli antibiotici nei paesi industrializzati ha assistito ad un notevole
aumento, e con esso è aumentato il processo di selezione naturale di specie resistenti e la loro
diffusione. L’incremento nell’utilizzo delle molecole ad attività antimicrobica è legato a
numerosi fattori, fra cui la maggiore complessità delle procedure diagnostiche e cliniche che
necessitano di profilassi o terapia con antibiotici, l’aumento del numero di pazienti “fragili”
perché immunocompromessi o sempre più anziani e l’aumento della richiesta di antibiotici nella
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pratica clinica ambulatoriale. La comparsa di resistenze è, però, spesso molto più veloce del
processo che porta alla scoperta di nuove antibiotici, diventando in questo modo un problema
per le strutture sanitarie che risultano sempre più inermi nel trattamento delle infezioni più gravi,
con un conseguente aumento della mortalità, della durata della degenza, dello sviluppo di
complicazioni associate al trattamento e alla possibilità della generazione di epidemie, nonché
di un’aumentata spesa a carico del Sistema Sanitario Nazionale. Questo aumento del dispendio
economico è motivato dall’allungamento del periodo di degenza nella struttura ospedaliera e dal
sempre più frequente ricorso alle molecole di ultima linea nel trattamento delle infezioni, che
sono spesso costose (Spellberg, et al., 2008). Le analisi relative al consumo degli antibiotici
dimostrano che essi vengono spesso utilizzati in maniera inappropriata, sia in termini di scelta
del farmaco in riferimento ad una patologia, sia in termini di dosaggio e durata della terapia:
questo contribuisce pesantemente all’aumento dei costi sanitari ed alla probabilità di sviluppo
di resistenze antimicrobiche. Al fine di garantire il corretto utilizzo delle risorse che si hanno a
disposizione, è necessario porre in relazione le informazioni relative ai farmaci con i dati delle
rilevazioni microbiologiche. La valutazione del consumo degli antibiotici e dei costi della terapia
in parallelo con i dati della microbiologia relativi agli isolamenti effettuati e alle resistenze
riscontrate nei campioni, può costituire un elemento utile ai fini della gestione di un’Azienda
Ospedaliera, per la sorveglianza delle infezioni e la programmazione di interventi finalizzati al
miglioramento della qualità prescrittiva. Per poter garantire il migliore esito clinico e di gestione
della terapia, è necessario assicurare che la terapia empirica venga svolta in accordo con la
definizione di qualità, che venga ottimizzata in termini di scelta della terapia sulla base
dell’epidemiologia locale, nonché in termini di posologia derivanti dall’analisi delle
caratteristiche farmacocinetiche dei diversi composti. Questo dimostra come sia di fondamentale
importanza agire sulla responsabilizzazione del prescittore e sulla programmazione di un sistema
idoneo a garantire la rilevazione della situazione ospedaliera e utile a ridefinire nuove linee di
intervento (McNulty, Cookson, & Lewis, 2012). L'esperienza dimostra che i programmi di
gestione degli antibiotici possono essere implementati in modo efficace in una vasta gamma di
ospedali e che il successo dipende dall’attuazione di un piano definito e da un approccio
multidisciplinare coordinato (Wise, 2006).
L’ANTIBIOTICORESISTENZA
L’antibiotico-resistenza è un fenomeno di vasta entità che necessita di un cambiamento culturale
per evitare che la potente arma di difesa di cui disponiamo, i farmaci antibiotici, diventino
inefficaci, mettendo così a grave rischio i risultati di decenni di scoperte scientifiche e la salute
dei pazienti (Ramsay, Brown, Hartman, et al., 2003). La resistenza batterica può originarsi a
diversi livelli: nelle comunità, nelle strutture sanitarie territoriali ed anche negli allevamenti.
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All’interno delle strutture residenziali, i pazienti possono acquisire il batterio resistente e quindi
veicolarlo in ambiente ospedaliero; il batterio può diffondersi ad altri pazienti attraverso il
contatto con mani non adeguatamente pulite o con oggetti contaminati. Una volta ricevuta la
dimissione dall’ospedale, i pazienti possono trasmettere questi batteri resistenti nella comunità
a persone che non seguono la comune prassi di igiene (McNulty, Cookson, & Lewis, 2012). La
selezione di resistenze antimicrobiche avviene in maniera relativamente facile, poiché i batteri
sono esseri viventi dotati di elevata capacità replicativa ed in grado di adattarsi rapidamente al
cambiamento ambientale (Rossolini & Mantengoli, 2008). La relazione esistente tra l’utilizzo
dei farmaci e la resistenza batterica è particolare e complesso, poiché l’antibioticoresistenza è
un fenomeno che dipende da diversi fattori che possono essere legati intrinsecamente al farmaco
e al microrganismo, ma anche all’ambiente circostante. La resistenza agli antibiotici, infatti,
oltre ad essere una caratteristica innata in alcune specie batteriche, risulta invece favorita da un
uso degli antibiotici non appropriato, che può essere dovuto a prescrizioni non corrette, a dosi
non sufficienti di farmaco, a periodi di esposizione troppo prolungati o, al contrario, ristretti e
anche alla scarsa aderenza alla terapia. A questi generici fattori, se ne sommano altri quando si
vanno a considerare i pazienti ospedalizzati, i quali spesso vengono sottoposti a trattamenti di
collocazione di dispositivi medici e diagnostici invasivi come il catetere intravascolare o
urinario, con conseguente formazione di colonie batteriche adese alla superficie degli stessi,
spesso incentivata dalla noncuranza da parte del personale ospedaliero (Courvalin, 2008).
Nell’ultimo ventennio si è osservata globalmente una sempre più consistente diffusione di
microrganismi Gram negativi resistenti a diverse classi di antibiotici. In precedenza, nella pratica
clinica il fenomeno della multiresistenza agli antibiotici era stato riscontrato, tra i Gram negativi,
in modo pressoché esclusivo nei confronti di Pseudomonas aeruginosa, per poi passare ad altri
comuni Gram negativi tra i quali le Enterobacteriaceae produttrici di beta-lattamasi a spettro
ampio (ESBL), così come Acinetobacter baumannii resistente a diverse classi di molecole
antibiotiche. In tutti i casi, però, i batteri Gram-negativi risultavano ancora sensibili ai farmaci
carbapenemici. Nel 2001 è stato registrato per la prima volta in Klebsiella pneumoniae un nuovo
fenotipo di resistenza, dovuto alla produzione di una carbapenemasi particolare, la
carbapenemasi di tipo KPC (Klebsiella pneumoniae carbapenemase) (Yigit, Queenan,
Anderson, et al., 2001). In un periodo recentissimo è stata descritta una ulteriore nuova
carbapenemasi in un ceppo di Klebsiella pneumoniae isolata da un paziente svedese di ritorno
dal Pakistan, ed in particolare si tratta di una metallo-beta-lattamasi (MBL), denominata NDM-
1: esse si possono riscontrare negli enterobatteri, che possono acquisirle da Gram negativi come
Pseudomonas aeruginosa (Yong, Toleman, Giske, et al., 2009). Di recente è stata valutata la
diffusione di questo tipo di beta-lattamasi che, a partire dalla prima segnalazione in Svezia,
sembra essersi allargata fino a territorio britannico, tanto che in Inghilterra sono stati segnalati
37 pazienti che presentano un’infezione da Enterobacteriaceae portatrici dell’enzima in
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questione (Kumarasamy, Toleman, Walsh, et al., 2010). La diffusione dei ceppi di batteri Gram-
negativi multiresistenti potrebbe diventare presto un problema più che rilevante, soprattutto a
causa della poca conoscenza consapevolezza degli operatori, specialmente medici, verso
problema, che può sfociare nella selezione indotta dagli antibiotici utilizzati in maniera scorretta
negli ospedali, in particolare in soggetti che sono esposti a terapie antibiotiche prolungate,
principalmente in trattamento con fluorchinoloni e antibiotici beta-lattamici, e che presentano
altri fattori di rischio (comorbidità, età avanzata, altre terapie in corso).
A partire dagli anni ’70 dello scorso secolo, in aggiunta, la resistenza batterica è diventata un
problema anche nei confronti dei microrganismi Gram positivi, specialmente nei confronti di
Streptococcus pneumoniae penicillino ed eritromicino-resistente, Staphylococcus aureus
meticillino-resistente (MRSA) e gli enterococchi vancomicino-resistenti (VRE), che sono
patogeni rilevanti nell’ambito delle infezioni ospedaliere che interessano pazienti con
comorbidità. In particolare, l’attenzione è stata posta sugli ultimi due patogeni, responsabili di
gravi infezioni nosocomiali spesso resistenti non solo ai farmaci a struttura beta-lattamica ma
anche ad altre classi. Questa emergenza è sfociata in un aumento tangibile del ricorso ai
glicopeptidi, vancomicina e teicoplanina, nella pratica clinica (Aksoy & Unal, 2008). Solo negli
ultimi anni negli Stati Uniti, si è assistito ad un aumento dal 2% al 25% di ceppi VRE: in Italia,
invece, il problema non sembra ancora agli apici, ma resta il dato importante che, pur essendo
rilevati relativamente raramente, le infezioni da essi provocate sono la causa di elevata mortalità,
fino al 30% dei casi. La resistenza antibiotica è in misura maggiore causata dalla pressione
selettiva che i farmaci causano nel momento in cui essi vengono utilizzati in modo non
appropriato: l’antibiotico, infatti, concorre alla trascrizione di geni che sono responsabili dello
sviluppo di resistenze, che possono poi essere trasmesse da un ceppo all’altro mediante il
trasferimento di geni, con l’ausilio del materiale plasmidico, oppure con meccanismi di
trasformazione e coniugazione batterica. L’avvento della resistenza, quindi, si configura come
un cambiamento stabile per il batterio e trasmissibile alle successive generazioni (Dzidic,
Šuškovic, & Kos, 2008; Giedraitienė, Vitkauskienė, Naginienė, & Pavilonis, 2011).
La resistenza antibiotica, inoltre, può manifestarsi in altri modi, e non è da escludere il fatto che
uno stesso batterio possa presentare diversi meccanismi di resistenza: il batterio può agire
apportando modificazioni alla struttura molecolare dell’antibiotico nella sua parte attiva, o può
provvedere alla sintesi di un enzima differente ma con la stessa funzione biologica rispetto a
quello sul quale l’antibiotico andava ad agire; ancora, il batterio può procedere con la
modificazione post-trascrizionale e post-traduzionale del substrato verso il quale il farmaco
dimostra la sua attività, diminuendone così l’affinità e di conseguenza bloccandone l’azione
diretta; mutagenesi con risultante prodotto modificato verso il quale l’antibiotico non dimostra
più la capacità di agire; diminuzione della captazione del farmaco dall’esterno verso l’interno
del batterio o, viceversa, aumentato efflusso dello stesso mediante pompe di flusso; un ultimo
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meccanismo è quella della sovrapproduzione di molecole target. In determinati casi il batterio
dispone del meccanismo di resistenza in qualunque momento, cioè esso risulta espresso sempre,
ma in specifiche situazioni la resistenza può risultare occasionale: i batteri che vengono a
contatto con le molecole antibiotiche verso le quali possono sviluppare un meccanismo difensivo
modulano l’espressione dei geni di resistenza garantendo la protezione. Questo tipo di
resistenza, che permette al batterio un risparmio energetico, è però spesso difficile da rilevare
mediante i test di laboratorio (Courvalin, 2008; Dzidic, Šuškovic, & Kos, 2008; Giedraitienė,
Vitkauskienė, Naginienė, & Pavilonis, 2011).
A fronte di un isolamento di microrganismi resistenti, si deve impostare, non prima di aver
sottoposto il caso specifico alla consultazione con personale medico esperto in terapia antibiotica
o specialista in infettivologia, una terapia antibiotica corretta; in senso più ampio, è opportuno
promuovere e attuare a livello ospedaliero programmi di politica di gestione antibiotica
(Antimicrobial Stewardship Programs), che costituiscono una componente perno verso un
approccio integrato e multidisciplinare nei confronti della prevenzione della formazione e
diffusione delle resistenze (Dellit, et al., 2007). Con questo termine viene riconosciuta la
necessità di indicare sempre la terapia antibiotica, la scelta della molecola e la prescrizione di
dosi e modalità di somministrazione che siano ottimali in vista del buon risultato clinico ed
epidemiologico, con conseguenze positive anche sugli effetti tossici e sulla selezione di ceppi
resistenti.
LE INFEZIONI CORRELATE ALL’ASSISTENZA
Le infezioni ospedaliere hanno subito nel tempo una evoluzione del loro concetto e, di
conseguenza, ne è risultato un cambiamento sostanziale per quanto riguarda la loro gestione ed
il loro controllo. Questa evoluzione è stata dettata, in parte, dallo sviluppo del sistema sanitario:
da un’assistenza centrata sull’ambiente ospedaliero si è passati ad un modello integrato, nel
quale l’assistenza territoriale e domiciliare svolgono un ruolo di pari importanza e
complementare a quella ospedaliera. Si è passati, quindi, da un’infezione che insorge durante il
ricovero in ospedale ad una infezione correlata alle pratiche assistenziali (ICA) distinguibile in:
infezione ospedaliera propriamente detta, in quanto legata a pratiche assistenziali erogate nelle
strutture nosocomiali; infezione ospedaliera, pur emergente, non correlata a pratiche
assistenziali, anche se manifestatasi in concomitanza con il ricovero presso la struttura sanitaria;
infezione contratta in ospedale, ma con modello di trasmissione di tipo comunitario; infezione
con modello nosocomiale, ma legata a pratiche assistenziali erogate in ambiente ambulatoriale
o che si sviluppano nell’ambito dell’assistenza domiciliare integrata (Agenzia Italiana del
Farmaco, 2015).