INTRODUZIONE
L’onda emotiva seguita all’attentato al Trade World Center di New York dell’11 settembre
2001 si infranse sull’immaginario collettivo come pochi altri eventi nella storia recente, segnando
un tornante della storia e catalizzando l’attenzione su un nuovo fenomeno: il terrorismo anti-
americano associato al fondamentalismo islamico.
La portata epocale dell’evento fece dimenticare che già a partire dagli anni Ottanta gli Stati
Uniti si trovarono ad affrontare un’analoga escalation del fenomeno; il periodo venne caratterizzato
da una innovativa interpretazione dei fatti, allora attribuiti alla matrice “statale”.
All’epoca la reazione non fu certamente immediata e una volta elaborata, venne perseguita
prevalentemente sul piano militare, attraverso una serie di prove di forza e azioni definite
“chirurgiche” che accreditarono la supremazia militare statunitense.
Durante gli stessi anni le fondamenta delle società musulmane vennero scosse dall’emergere
di alcune nuove componenti: da un lato l’Islam politico, nato negli anni Venti e fino a quel
momento adombrato dal nazionalismo arabo, dall’altro lato il fallimento della secolarizzazione e la
comparsa di nuovi gruppi a sfondo religioso.
In alcuni casi i leader religiosi e politici, le élite culturali e le masse si allinearono al nuovo
corso dell’Islam, fornendo un aperto sostegno a nuovi gruppi attivamente impegnati principalmente
nell’ambito sociale e politico, ma a volte dediti anche a una nuova forma di terrorismo a matrice
religioso-ideologica.
Con la fine degli anni Ottanta si poté assistere al diradamento del fenomeno terroristico anti-
americano, alla fine della guerra fredda e al recupero della centralità americana in Medio Oriente:
l’unipolarismo americano sembrò l’unico orizzonte possibile, ma la nuova fase della violenza iniziò
proprio in quest’ultima area.
Alcuni gruppi a matrice islamica e sostenuti dall’Iran, in specie Hamas
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in palestina ed
Hezbollah
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in Libano, diedero vita a una lotta senza quartiere contro Israele; al contrario le attività
del nazionalismo laico dell’OLP
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si spostarono su un piano prettamente politico.
Negli anni Novanta iniziò una nuova fase terroristica anti-americana, anch’essa a matrice
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Metterei la nota per descrivere Hamas a questo punto, così forse è più chiaro…
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Metterei la nota per descrivere Hezbollah a questo punto…
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Metterei qui la nota per descrivere l’OLP…
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fondamentalista e basata su una strategia innovativa: piccoli gruppi o individui isolati, sfruttando le
nuove tecnologie, l’accresciuta mobilità e un addestramento specifico, colpirono gli interessi vitali
degli Stati Uniti e perfino il suo stesso territorio, agendo contro obiettivi militari, governativi e
civili.
L’amministrazione Clinton si trovò a dover risolvere questo grave problema senza
conoscerne i termini: poco o nulla si sapeva sui mandanti e sui gruppi interessati dal fenomeno; le
istituzioni, nate e cresciute all’ombra della guerra fredda, si rivelarono pesantemente inefficienti e
incapaci di rinnovarsi.
Incalzata dagli eventi, l’amministrazione, dopo un periodo di incertezza, agì in modo
progressivo, prima definendo alcuni principi e quindi riconsiderando gli obiettivi, fino a elaborare
una strategia coerente, che venne perseguita senza troppe esitazioni.
L’obiettivo dell’analisi è volutamente ambizioso: si tratta di comprendere se
l’amministrazione Clinton abbia realmente contribuito all’elaborazione di una nuova e più efficace
strategia nei confronti del fenomeno, oppure abbia concesso uno spazio di manovra abbastanza
ampio da consentire o addirittura agevolare, i fatti dell’11 settembre.
Naturalmente non è possibile raggiungere una risposta definitiva: la materia è molto vasta, le
fonti ancora opache, la storia viene continuamente riscritta e il prisma emotivo del presente distorce
gli episodi del passato.
Si tratta piuttosto di un percorso personale per ricuperare un punto di vista più obiettivo
possibile nel calderone degli avvenimenti, perché troppo è stato fatto per sostenere le ragioni degli
uni o degli altri.
La trattazione non è concentrata sulla sequenza cronologica dei singoli fatti, perché durante
la fase di studio è emerso come fatti apparentemente estranei tra loro siano in realtà strettamente
connessi; in questo modo si è cercato di riprodurre non tanto una fotografia dai contorni sfocati,
bensì una scacchiera di quegli avvenimenti che hanno maggiormente contribuito a creare la realtà
poi affrontata dall’amministrazione Bush.
Certamente sarebbe auspicabile un maggiore approfondimento di alcuni aspetti, anche grazie
alla esemplare visibilità dell’amministrazione Clinton, ma purtroppo il tempo a disposizione e il
numero delle pagine si sono rivelati tiranni risoluti e invincibili.
Il primo capitolo è dedicato alla comprensione della politica praticata dagli Stati Uniti
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nell’arena medio-orientale, del fenomeno del terrorismo antiamericano “sponsorizzato dallo Stato”
tipico degli anni Ottanta, fino all’elaborazione della relativa strategia d’intervento.
Viene inoltre proposta una visione d’insieme della politica estera dell’amministrazione
Bush, fino all’emergere dell’unipolarismo americano e al raggiungimento della incontrastata
centralità degli Stati Uniti nel Medio Oriente.
La esposizione prosegue con la descrizione delle contraddizioni del primo mandato
presidenziale di Clinton, un periodo in cui l’idealismo, l’innovativo programma elettorale e la
volontà di cambiamento, si scontrarono con una serie di inattese difficoltà: continue sfide
nell’ambito della politica estera, rapporti sempre più difficili con il Congresso e una resistenza alla
leadership nel consesso delle Nazioni Unite.
In quel contesto il team della politica estera tentò di individuare, senza troppo successo, una
condotta efficace; riuscì invece nel determinare quella serie di principi che caratterizzarono il
secondo mandato presidenziale.
Il terzo capitolo dipinge l’Islam politico e le sue manifestazioni più estremistiche; viene poi
descritta l’incerta reazione dell’amministrazione Clinton a seguito della prima serie di attentati a
matrice fondamentalista.
Si è anche cercato di porre l’accento sul dibattito e sulle idee che contribuirono, dopo uno
smarrimento iniziale, al superamento della “teoria gradualista” nel processo di pace israelo-
palestinese e del concetto di “terrorismo di Stato”, fino all’elaborazione del “doppio contenimento”
di Iran e Iraq.
L’ultimo capitolo dibatte sulla innovativa visione strategica del secondo mandato, sul
marcato coinvolgimento del Presidente nella politica estera nel tentativo di porre fine alla violenza
nel conflitto israelo-palestinese e sulle innovative risposte ai gravi attentati, basate su un approccio
molto più ampio, globale, che incise sul piano politico, militare e diplomatico.
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Capitolo I
La nascita e il contrasto del fenomeno terroristico anti-americano
a partire dagli anni Ottanta.
I.1. La politica degli Stati Uniti nel Medio Oriente.
Le valutazioni sulle dinamiche che concorrono a formare la politica americana nel Medio
Oriente non sono affatto concordi, anche se possiamo grosso modo individuare due distinte linee di
pensiero.
La prima interpretazione sottolinea la dipendenza dell’attività politica da alcuni interessi di
natura interna e in particolare:
- la vitalità di Israele entro confini sicuri;
- il regolare afflusso di petrolio della regione.
Si tratta di interessi apertamente contraddittori, che non hanno mancato di creare problemi alle
amministrazioni succedutesi nel tempo; garantire il perseguimento contemporaneo di questi
obiettivi avrebbe richiesto l’adozione di un approccio paritetico nei rapporti con arabi e israeliani.
Questo perché privilegiare da un verso il lato arabo potrebbe invocare la collera del corpo
politico ebreo, piccolo ma potente ed estremamente organizzato, mentre dal lato opposto, l’enfasi
sugli israeliani potrebbe favorire un rialzo dei prezzi petroliferi, con effetti negativi sull'umore degli
elettori americani.
In pratica, le amministrazioni degli Stati Uniti hanno sempre tentato di mantenere una policy
medio-orientale equilibrata, a volte anche compiendo o prendendo scelte difficili, ma necessarie per
conservare la coesione della base elettorale.
Nonostante le continue assicurazioni di un approccio paritetico, gli Stati Uniti hanno
evidentemente guardato con favore a Israele, con una influenza quarantennale che ha colpito
seriamente l'immagine americana nel mondo islamico; allo stesso momento, gli Stati Uniti hanno
adottato misure punitive verso gli stati della regione ritenuti “poco collaborativi”, provocando così
ulteriore ostilità del mondo islamico, già covata fin dagli anni Cinquanta
4
.
4
E. Watkins, The Unfolding Us Policy in the Middle East, in “International Affairs”, 1997, n.I, pp.1-15
4
Questa visione è comune a diversi autori ed è in special modo radicata nell’opinione corrente e
nel parere dei mass-media; è doveroso sottolineare come si tratti del principale punto di vista da
parte del mondo islamico.
Nella sua versione più estrema e “cospirativa” i contrastanti interessi statunitensi nella regione
avrebbero reso le amministrazioni americane una sorta di ostaggio di due potenti forze: le grandi
compagnie petrolifere e la potente lobby ebraica ben inserita nei gangli del potere, fino a provocare
una “deumanizzazione” delle società medio-orientali
5
.
Per comprendere quanto abbia fatto presa questa versione estrema e cospirativa basta scorrere in
qualsiasi libreria i titoli dei testi dedicati al Medio Oriente, mentre su internet dilagano i siti
sull’argomento.
Al contrario, secondo altri autori, la politica estera americana è determinata da una complessa
interazione tra vari organismi, istituzionali e non, i cui protagonisti sono:
- la burocrazia deputata a formulare la politica estera, ossia il Dipartimento di Stato;
- le missioni americane in loco;
- lo Stato Maggiore;
- gli organi di pianificazione politico-militare, tra cui il Dipartimento della Difesa con il DPG
– Defense Planning Guide –
6
;
- istituzioni nate dopo la seconda guerra mondiale, cioè il NSC – National Security Council e
la CIA - Central Intelligence Agency -;
- istituti privati di ricerca e analisi ( cosiddetti Think tanks ) e l’accademia in genere;
- solo a partire dagli anni Sessanta e con riserve, l’opinione pubblica e i mass-media.
Il Congresso, al contrario, non è un autentico promotore di iniziativa politica estera, in quanto la
sua attenzione è saltuaria e legata principalmente all’intervento economico nella regione
interessata
7
.
Secondo questa seconda e più realistica interpretazione, la politica estera americana è il prodotto di
un meccanismo assai complesso, che coinvolge gli interessi nazionali degli Stati Uniti, gli obiettivi
5
G.Valdevit, Stati Uniti e Medio Oriente dal 1945 ad oggi, Roma, Carocci, 2003, p. 7
Il capostipite di questa corrente di pensiero è il saggio dello studioso americano di origine palestinese Edward W.
Said, Orientalism, pubblicato nel 1978 e apparso in Italia nel 1991.
6
Il DPG è un documento biennale redatto dagli strateghi della Difesa; nel contesto della tesi è particolarmente
significativo il primo DPG redatto dopo il termine della guerra fredda.
7
W.I. Cohen, Gli errori dell’impero americano, Roma, Salerno, 2007, p. 57 e G. Valdevit, I volti della potenza,
Roma, Carocci, 2003 , pp. 7-10
5
politici dell’amministrazione al potere e un vasto palco di opinioni.
Questo confronto coinvolge sia apparati burocratici di governo, sia una comunità più ampia, la
foreign policy community, composta da ex statisti, da parte del mondo accademico, e soprattutto dai
Think tank, cioè dagli studiosi interessati professionalmente, che con l’amministrazione
intrattengono una relazione continua anche in qualità di consiglieri e consulenti, mentre le loro idee
vengono pubblicate sulle più autorevoli riviste politiche; tra i più celebri si possono citare H.
Kissinger, MG. Bundy e W. Rostow.
Il dibattito non è mirato a proporre o risolvere problemi ideologici, che sono eventualmente di
competenza dei politici al potere, ma è rivolto ad aspetti più pratici, come la scelta dei metodi e dei
mezzi da utilizzare; nello specifico il Medio Oriente ha sempre costituito il punto critico di ogni
confronto per la presenza di interessi contraddittori nell’area, ciò ha impedito di raggiungere punti
di convergenza.
Molti presidenti hanno coltivato l’ambizione di ridisegnare le relazioni con l’area medio-
orientale, ma la presenza di questi interessi contrastanti e la difficoltà nel trovare un filo comune nel
dibattito politico ne hanno frustrato l’impegno.
Anche all’interno degli organi burocratici il confronto, specie riguardo al Medio Oriente, ha
creato varie fazioni e linee di pensiero, sino a giungere agli anni Ottanta, quando il dibattito si è
trasformato in un progressivo conflitto istituzionale, il cui apice è sicuramente rappresentato
dall’amministrazione Reagan.
In generale si tratta di un confronto molto più articolato rispetto al modo con cui si usa definirlo,
ossia con falchi da una parte e colombe dall’altra.
Il dibattito relativo alla politica estera rimane comunque confinato agli organi istituzionale e alla
foreign policy community, mentre l’intera società e i mass-media vengono coinvolti soltanto in
momenti eccezionalmente delicati, quando sono in gioco cambiamenti epocali oppure quando è
necessario recuperare rapidamente consenso; soltanto durante la presidenza Clinton l’opinione
pubblica verrà, al contrario, tenuta in grande considerazione
8
.
Prima degli anni Cinquanta l’interlocutore privilegiato per l’area medio-orientale era la Gran
Bretagna e non i paesi dell’area; solo successivamente gli Stati Uniti hanno innescato una serie di
relazioni bilaterali con i paesi della regione, all’interno di una gerarchia di interessi regionali e
8
G. Valdevit, I volti della potenza, cit., pp. 7-11
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globali; l’Unione Sovietica ha agito invece sullo sfondo della regione, limitando la guerra fredda
vera e propria al periodo compreso tra la metà degli anni Sessanta fino ai primi anni del decennio
successivo.
Negli anni si è posto il problema del contenimento del comunismo in Medio Oriente come
fattore di instabilità interna; l’accento è stato posto prima sulla “sicurezza” ( intesa come strutture
di cooperazione militare ), e poi sulla “modernizzazione” ( cioè crescita economica e riforme ), ma
mai entrambe insieme, com’è avvenuto in Europa.
Ne discende come gli Stati Uniti non abbiano tentato una “trasformazione” delle società medio-
orientali; al contrario l’interazione ha coinvolto solo élites politiche di governo o di opposizione,
nonché alcuni giornalisti e pochi militari: non più di una manciata di personaggi, e ad oggi
l’atteggiamento non è cambiato, anzi si è consolidato.
Riassumendo, l’esperienza americana in Medio Oriente non può essere più diversa da quella
realizzata in Europa, con una unica eccezione: Israele, con cui si è realizzata una “special
relationship” unica e irripetibile, anche se una visione più corretta deve includere una certa
“discontinuità nella relazione”, inserita nella cornice della straordinaria quantità di aiuti forniti: dal
1948 ben 65 miliardi di dollari solo in aiuti militari
9 .
Al termine della guerra del Kippur sorse il frenetico attivismo dell’amministrazione Nixon,
impegno successivamente perseguito anche dal presidente Ford: entrambi si avvalsero della
preziosa opera di Henry Kissinger.
Il presidente Nixon si trovò improvvisamente in una situazione estremamente difficile a causa
dello scandalo Watergate e si impegnò nella ricerca di un successo epocale nell’ambito della
politica estera.
L’impegno fu basato sull’esclusione dell’Unione Sovietica dai negoziati, sulla cosiddetta “teoria
dei piccoli passi” e sulla mediazione americana, rafforzata dagli aiuti forniti a tutti i paesi
interessati, pur nel rispetto della assoluta superiorità militare di Israele
8:
grazie a questo impegno si
costruì una autentica “centralità americana nel Medio Oriente”, come forma di stabilizzazione
dell’area.
Nel frattempo, tra il 1971 e il 1976, le presidenze Nixon e Ford patrocinarono forniture militari
all’Iran per ben 10 miliardi di dollari, permettendo così il reflusso sul mercato americano dei
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G. Valdevit, Stati Uniti e Medio Oriente dal 1945 ad oggi, cit., pp. 7-10
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