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INTRODUZIONE
Il tema dell’ageing è storicamente legato al sistema del pensionamento, poiché prima
che questo fosse introdotto si continuava a lavorare finché la salute lo consentiva.
Coloro che si ritiravano dal lavoro non erano pensionati nel senso attuale del termine,
ma semplicemente poveri senza lavoro (Tesauro 2012).
Da quando sono nate, le politiche del sistema previdenziale seguono l’andamento delle
statistiche demografiche, adeguando quindi l’età pensionabile all’aumento della
speranza di vita. Nel nostro Paese sono state emanate numerose riforme al sistema
pensionistico, a partire dal 1995 quando era consentito il pensionamento per chi
avesse raggiunto 20 anni di contributi indipendentemente dall’età (i cosiddetti “baby
pensionati”). In seguito sono state applicate una serie di riforme previdenziali che
hanno portato oggi a considerare anche l’età come requisito pensionistico oltre agli
anni di contributi versati. Se, infatti, l’età del ritiro dal lavoro rimanesse troppo bassa
in proporzione alla speranza di vita, correremmo il rischio che proprio il
pensionamento diventi il periodo più lungo della vita di una persona: si stima infatti,
con i dati attuali, che nel 2100 si avranno circa 35 anni di vita dopo la pensione
(Fraccaroli, Sarchielli 2013). Questa situazione comporta significative conseguenze
soprattutto per la spesa pubblica: un basso tasso di natalità aumenta il numero di
persone anziane senza figli e senza nipoti che in tarda età avranno necessariamente
bisogno di cure e assistenza tramite servizi privati oppure dalle sole strutture della
comunità; inoltre il cambiamento delle caratteristiche e della struttura del mercato del
lavoro, unito a periodi di forte crisi economica, non garantiscono una continuità
lavorativa ai giovani (che anzi spesso faticano a trovare un’occupazione una volta
terminati gli studi) dunque il rapporto tra numero di lavoratori per numero di
pensionati risulta sproporzionato (Marcaletti 2012). A fronte di questa insostenibilità
economica le istituzioni sono diventate maggiormente consapevoli della necessità di
un cambiamento del sistema previdenziale, anche se tutt’oggi risulta ancora
disomogeneo. Per troppo tempo si è fatto largo uso di forme di incentivazione per le
aziende ricorrenti al pensionamento anticipato, con la convinzione che l’uscita dal
mondo del lavoro per un anziano avrebbe favorito l’ingresso di un giovane alla prima
occupazione, ma come si è visto negli ultimi anni, questo sistema non ha funzionato
(Accorinti, Gagliardi 2007; Marcaletti 2012). Nel contesto italiano rimane infatti alta
la percentuale di disoccupazione giovanile (quasi il 38% nel 2015), riducendo così il
ricambio generazionale del mercato del lavoro. Secondo i dati Istat del 2015, in Italia,
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i tassi di occupazione dei lavoratori anziani (tra i 55 e i 64 anni) si attestano al 48.6%,
di cui il 59.7% costituito da uomini e il 38.2% da donne. In particolare in Piemonte il
30% dei dipendenti, di cui il 31% nella città di Torino, supera i cinquant’anni. Nel
2010 i lavoratori tra i 55 e i 64 anni erano duecentomila e sono aumentati del 35% nel
2014. Si stima che aumenteranno ancora del 32% circa in dieci anni (Fraccaroli,
Sarchielli 2013; IRES 2015).
Un’altra importante conseguenza negativa del prepensionamento è il ritiro forzato di
persone che vorrebbero invece continuare a lavorare e si sentono ancora perfettamente
in salute e produttive (Abburrà, Donati 2007). Spesso infatti vi è una straordinaria
non-corrispondenza tra età soggettiva e età formalmente decisa dalla legislatura per
andare in pensione: prima la parola pensionamento significava soprattutto ritiro e
riposo, oggi invece siamo arrivati ad un’evoluzione di questo concetto tale per cui esso
assume diversi significati a seconda della percezione di sé e della propria condizione
lavorativa (Zanfrini 2012, Sarchielli 2007).
Grazie infatti ai cambiamenti di ordine sociale, sanitario ed economico, oggi il
significato dell’età è radicalmente cambiato. Le persone raggiungono frequentemente
età avanzate in condizioni di buona salute e una persona che oggi ha 65 anni possiede
caratteristiche cognitive, fisiche, nonché potenzialità produttive paragonabili a una
persona che negli anni ’60 aveva dieci anni di meno (Laslett 1992).
Tuttavia vi sono anche contesti lavorativi in cui la prestazione è molto sensibile
all’avanzare dell’età, mansioni in cui la forza fisica è messa a dura prova oppure che
prevedono turni sulle 24 ore a rotazione veloce. Il settore sanitario è proprio uno di
quei contesti in cui il tema dell’invecchiamento è molto rilevante perché vi sono
numerosi fattori di stress che influiscono sulla capacità lavorativa del personale.
Inoltre è un settore ad alta concentrazione di impiego femminile e questo porta ad una
riflessione sulle differenze di genere all’interno del tema dell’invecchiamento
lavorativo. Le differenze di genere sono, infatti, ancora molto rilevanti nel mondo del
lavoro, dove la disparità tra i sessi porta le donne ad essere maggiormente esposte a
rischi di tipo psicosociale (Foddis, Ficini 2014). In Italia trova spazio la prospettiva
gender sensitive nella valutazione dei rischi grazie al Testo Unico sulla salute e la
sicurezza sul lavoro, entrato in vigore a maggio del 2009 con il correttivo al Testo
Unico (d.lgs. 106/2009). Nello specifico l’articolo 1, primo comma, sancisce
l’obbligatorietà del “..l’uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul
territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere, di età
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e alla condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori immigrati”.
Alla luce di queste premesse la ricerca esplorativa qui presentata è stata condotta allo
scopo di analizzare il fenomeno dell’invecchiamento della forza lavoro in relazione
alla qualità della vita organizzativa di una popolazione, i medici, gli infermieri e gli
operatori socio sanitari (di seguito OSS) appartenente all’ASL del Distretto TO3,
Collegno e Rivoli. Il progetto è frutto di una collaborazione tra la Prof.ssa Converso e
il Dipartimento di Psicologia con il Servizio di Psicologia dell’ASL TO3, diretto dal
Dott. Bruno Tiranti. Questo gruppo lavorativo è stato scelto perché, pur condividendo
le sue caratteristiche con altre popolazioni nel contesto sanitario, ne possiede alcune
peculiari in termini di età media dei lavoratori e anzianità di servizio degli stessi, sia
per quanto riguarda il Servizio Territoriale che gli ospedali.
Tutto il personale è impiegato per 365 giorni all’anno per 24 ore al giorno, in
particolare il personale ospedaliero è impiegato su turni da 8 ore, mentre il personale
del Servizio Territoriale è occupato su due turni diurni e la reperibilità notturna.
Tra le motivazioni della scelta dell’argomento e del tipo di ricerca vi è prima di tutto
un interesse dettato dall’esperienza personale e professionale con lavoratori maturi, sia
in famiglia che sul luogo di lavoro, grazie ai quali è nata la volontà di approfondire la
conoscenza di questo tema, per altro molto attuale. Ho scelto l’ASL TO3 come bacino
da cui estrarre un campione per la ricerca perché conoscendo le problematiche
all’interno del contesto di lavoro, soprattutto legate all’anzianità di servizio e alla poca
rotazione del personale tra le mansioni, ho voluto comprendere meglio l’interazione,
sia positiva che negativa, tra l’età e la qualità della vita lavorativa. Inoltre il contesto
preso in esame vede impiegata una forza lavoro a maggioranza femminile e questo ha
suscitato il mio interesse nell’analisi dei sintomi della menopausa in relazione al
benessere lavorativo.
La tesi è articolata in cinque capitoli ed è corredata di un’appendice e dell’elenco
bibliografico e sitografico. Nel primo capitolo si introduce il tema del processo di
invecchiamento generale della popolazione, descrivendo il tema dell’apprendimento
continuo e delle strategie utili per un invecchiamento di successo, che sono di grande
rilevanza per il tema dell’ageing. Si vedrà inoltre quali sono i principali cambiamenti
fisici e cognitivi legati all’avanzare dell’età. La conclusione del capitolo è dedicata
alla descrizione del delicato momento della menopausa e dei suoi aspetti, biologici e
psicosociali.
Nel secondo capitolo viene descritto in maniera più approfondita il tema
dell’invecchiamento lavorativo, il modello di gestione delle risorse umane basato
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sull’age management e sulla collaborazione tra generazioni.
Si descrive inoltre il modello della Work Ability secondo gli studi del Finnish Institute
of Occupational Health (Fioh) e viene presentato il tema dell’adattamento ergonomico
dei luoghi di lavoro ad una popolazione lavorativa matura. Infine si argomenta il
rapporto tra l’età e l’insicurezza lavorativa e la percezione del cambiamento,
soprattutto tecnologico.
Nel terzo capitolo si illustra il tema dello stress lavoro correlato e la sua interazione
con l’invecchiamento, soprattutto con la menopausa. E’ infatti opportuno considerare
a tutti gli effetti i sintomi della menopausa come rischio psicosociale per le donne,
dato che questa fase non coincide più con il termine della carriera lavorativa, ma anzi
la pervade per almeno un decennio prima del pensionamento.
Nel quarto capitolo viene presentato il tema dell’invecchiamento nel settore sanitario,
dando spazio all’analisi delle conseguenze della turnistica sulla salute dei lavoratori e
delle lavoratrici. Viene inoltre descritto come si intensifica il carico di cura per coloro
che assistono un familiare.
Nel quinto e ultimo capitolo viene presentata la ricerca, condotta con un approccio
quali-quantitativo. Dunque viene prima descritta la ricerca qualitativa, il cui scopo è
indagare la percezione dei lavoratori circa il tema dell’invecchiamento e la sua
rilevanza nel proprio contesto lavorativo. Successivamente viene presentata la ricerca
quantitativa il cui obiettivo è indagare e comprendere come effettivamente l’età in
generale, e nello specifico i sintomi della menopausa, interagiscono con il benessere
psicologico e la qualità della vita lavorativa. Vengono inoltre descritte le
caratteristiche della popolazione di riferimento, i metodi e gli strumenti utilizzati e
vengono discussi i risultati emersi.
A completamento dell’elaborato vi sono le conclusioni e l’appendice, nella quale sono
riportate le interviste condotte nell’ambito della ricerca qualitativa e il questionario
utilizzato per la parte quantitativa.
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CAPITOLO 1: L’invecchiamento della popolazione
Con il processo di transizione demografica, nella maggior parte dei Paesi
industrializzati il tasso di natalità risulta inferiore al tasso di mortalità, in Italia in
particolare è uno dei più bassi mai registrati, con il conseguente aumento della
popolazione ultrasessantacinquenne e che supera gli 80 anni. Gli studi sull’andamento
demografico nel nostro paese hanno dimostrato come la popolazione stia invecchiando
in maniera costante (Figura 1) e stimano un aumento considerevole degli anziani oltre
i settant’anni. (Noale et al. 2012).
Figura 1: Piramide della popolazione italiana tra il 2007 e il 2050. Fonte: Da Noale et al., 2012.
Longevity and health expectancy in an ageing society: implications for public health in Italy.
Secondo i dati demografici dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo
sviluppo economico comprendente la maggior parte dei paesi occidentali
industrializzati) oggi la speranza di vita ha raggiunto gli 81 anni, con differenze
notevoli tra i generi: le donne infatti hanno alla nascita una speranza di vita superiore
agli uomini di circa 5 anni (OCSE 2013). Inoltre da due decenni le proiezioni
suggeriscono una crescita dei “grandi anziani”, ovvero coloro che superano gli 80 anni
di età, che nel 2020 potrebbero arrivare a 32 milioni, il 3-4% dell’intera popolazione
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dei paesi membri dell’OCSE (Laslett 1992).
Nel 2002 l’ONU ha pubblicato un rapporto intitolato “World Population Ageing: 1950
- 2050” nel quale le proiezioni confermano che la popolazione anziana è triplicata tra
il 1950 e il 2000 e nel 2050 potrebbe raggiungere i 2 miliardi di persone in tutto il
mondo
1
.
Per quanto riguarda la situazione italiana, nel 2005 gli anziani sopra i 65 anni
erano il 19,6%, oggi essi sono il 20,01% della popolazione e le stime Ocse prevedono
che questa percentuale passi al 28,6 % nel 2035 e al 32,7% nel 2060.
1.2 Il Life Span e il Life Long Learning
L’approccio tradizionale allo studio dell’invecchiamento ha sempre ritenuto che lo
sviluppo cognitivo si arrestasse con la fine dell’adolescenza, perciò sia l’età adulta
che, in misura ancora maggiore, l’età adulta avanzata sono sempre state associate ad
un declino cognitivo generale ed a patologie degenerative come la demenza.
L’invecchiamento era quindi un concetto estremamente negativo. (Laslett 1992;
Borella, Cornoldi, De Beni 2009). Secondo tale approccio la vita di un individuo è
sostanzialmente stabile e suddivisa in rigide fasi, non solo identificabili da precise
fasce di età, ma anche caratterizzate da una serie di compiti e traguardi socialmente
assegnati come la formazione, la carriera e la famiglia (Laslett 1992).
Oggi invece si è consolidato un approccio più positivo riguardo l’invecchiamento e il
modello statico a fasi è stato sostituito dalla prospettiva dell’ ”arco di vita”: il life
span. Questo concetto nasce negli anni ’80 con lo studio di Baltes e Reese (1986) i
quali affermano che il processo di sviluppo individuale non è settoriale, come dicono
le teorie unitarie, bensì continuo e complesso e soprattutto interessa l’intera vita. Il
termine “prospettiva” chiarisce infatti che la psicologia dell’arco di vita non fa capo ad
un’unica teoria, ma costituisce soprattutto un orientamento che ha condotto alla
formulazione di molteplici modelli. L’assunto principale che caratterizza questo
approccio è che la crescita e lo sviluppo dell’individuo coinvolgono tutta la sua vita, in
ogni fase della quale operano processi di cambiamento che possono portare continuità
o discontinuità, mantenimento o innovazione rispetto alla definizione di sé, dei propri
progetti e aspettative (Baltes, Reese 1986; Marigo, Borella, De Beni 2009). Vi sono
vari fattori che influenzano tali processi, e quindi anche l’invecchiamento: l’età
(maturazione fisico-biologica dell’infanzia e dell’adolescenza), gli eventi storici come
1
dati disponibili in http://www.un.org/esa/population/publications/worldageing19502050
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le guerre o avvenimenti di una nazione, importanti per lo sviluppo di nuovi modelli
culturali (che possono coinvolgere l’individuo più o meno da vicino a seconda della
sua storia), ma anche influenze non normative che possono riguardare la storia
individuale, come per esempio l’inizio della menopausa per le donne, un divorzio, un
lutto o la perdita del lavoro in età matura (Fischer 2006). Ognuno ha quindi un ruolo
attivo nella costruzione del proprio sviluppo, così come del proprio invecchiamento e
sono fondamentali in questo le proprie strategie di coping. Per citare il modello di
struttura di vita di Levinson (1978), l’individuo conosce periodi di stabilità, in cui si
costruisce la struttura stessa, alternati a periodi di transizione e mutamento in cui la
struttura cambia attraverso compiti evolutivi che fanno sì che egli raggiunga dei
risultati soddisfacenti, oppure che debba impegnarsi in ulteriori attività e cambiamenti
finchè non otterrà il risultato desiderato. I cambiamenti prodotti in questa fase
innescheranno altri cambiamenti in fasi successive e così via, in un ciclo, appunto,
continuo.
All’interno di questa prospettiva si inserisce anche il concetto di life long learning
(apprendimento lungo tutto il corso della vita), che sottolinea come non vi siano un’età
o un momento preciso per apprendere: è possibile imparare a conoscere se stessi, i
propri limiti e le proprie risorse ogni qualvolta si presenti una sfida, una qualsiasi
situazione che ci metta alla prova (De Beni e Borella 2009), così come non si deve
considerare conclusa la propria formazione con l’inizio della vita lavorativa.
Su questo tema vi sono stati numerosi dibattiti e pubblicazioni. Per esempio
l’UNESCO, Organizzazione delle Nazioni Unite che ha lo scopo di promuovere la
pace tra le nazioni attraverso l’educazione, la scienza e la cultura (l’acronimo
UNESCO abbrevia l’inglese United Nations Educational, Scientific and Cultural
Organization), ha creato un organo apposito chiamato UIL (Unesco Institute for
Lifelong Learning), con sede in Germania ad Amburgo, che si occupa proprio della
promozione dell’educazione e dell’apprendimento continuo, staccandosi dalla visione
tradizionale dell’educazione, suddivisa in settori per età, per abbracciare il nuovo
paradigma e garantire a tutti la possibilità di accedere alle risorse necessarie alla
propria formazione in qualunque momento della vita si renda necessario (Marcaletti,
Zanfrini 2012).
Il Life Long Learning copre infatti l’intera esigenza personale di educazione e
formazione, andando ben oltre l’ambito scolastico ed accademico. Viviamo in un
mondo complesso e in continua evoluzione, in cui ci dobbiamo adattare rapidamente
ai cambiamenti acquisendo sempre nuove conoscenze, competenze e sviluppando il
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nostro potenziale a seconda delle diverse necessità (Yang, Valdès-Cotera 2011): sia
nel privato quotidiano che nell’ambiente lavorativo siamo sempre sottoposti a
pressione per il raggiungimento di obiettivi più o meno impegnativi e questo può
richiedere ulteriori risorse, compresa l’acquisizione di nuove skills. In particolare nel
contesto attuale la condizione dei lavoratori precari accentua il senso di incertezza
dato dalla crisi economica e aumenta i periodi inattivi, da colmare con la ricerca di una
nuova occupazione, ma anche con la formazione, per esempio per apprendere nuove
tecnologie o una lingua straniera, per far sì che l’individuo rimanga un soggetto forte
sul mercato del lavoro (Marcaletti, Zanfrini 2012).
1.3 L’invecchiamento di successo
Nel 2002 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce l’invecchiamento
attivo il “processo di ottimizzazione delle opportunità di salute, partecipazione e
sicurezza degli anziani, con l’obiettivo di migliorare la qualità di vita delle persone
che invecchiano”.
In un’ottica biopsicosociale, tra le determinanti dell’invecchiamento attivo, oltre a
fattori ambientali, economici, sociali e sanitari, l’OMS include anche fattori
comportamentali o stili di vita, e di personalità come abilità di coping, autoefficacia,
controllo interno, comportamento pro sociale e pensiero positivo (OMS 2002, Marigo
et al. 2009).
Questa visione più ottimista dell’età avanzata si inserisce perfettamente nel filone
della psicologia positiva, in cui trova ampio spazio il tema del benessere psicologico.
Raccoglie infatti sempre più adesioni la nuova visione ottimista dell’invecchiamento,
che riconosce e valorizza gli aspetti positivi dell’avanzare dell’età e si caratterizza per
la ricerca di criteri e condizioni che permettono alle persone di invecchiare bene
(Marigo et al. 2009). Molti studi si interessano al costrutto multidimensionale del
benessere e, in ambito clinico, alla relazione tra tale costrutto e l’età, in particolare alla
percezione di benessere negli anziani. Sono state riscontrate alte percentuali di
benessere percepito in anziani anche in anziani con patologie e condizioni di vita
povere, e anche tra gli anziani istituzionalizzati. E’ stato infatti dimostrato che con
l’età migliorano le capacità di adattamento a situazioni difficili perché si passa da
strategie di coping basate sulla soluzione di problemi a strategie basate sulle emozioni:
gli anziani che accettano di invecchiare affrontano le sfide dei cambiamenti legati
all’età con maggiori capacità di adattamento e maggiore abilità di gestione di queste