Introduzione
«Due persone entrano in conflitto: una afferra l’altra insultandola, le fa perdere
l’equilibrio, la colpisce alle gambe e al petto. Ci si potrebbe immaginare che una scena
del genere coinvolga due adolescenti, età in cui i giovani ricorrono di frequente alla
violenza fisica. In realtà, questo tipo di aggressioni si verifica spesso tra i bambini di
due anni circa. Molti genitori si sentono impotenti e a volte colpevoli di fronte alle
manifestazioni di aggressività dei loro figli. Sono consapevoli di svolgere un ruolo
fondamentale nella crescita dei bambini, ma mettono in discussione le loro competenze
come genitori».
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Il tema dell’aggressività nei bambini emerge costantemente durante le conferenze che si
rivolgono ai genitori o in occasione dei corsi di formazione per educatrici e maestre;
questo mostra come sia una componente centrale e inevitabile dello sviluppo infantile.
Nel seguente elaborato desidero approfondire la questione dell’aggressività nel bambino
da zero a tre anni. Questo argomento ha suscitato il mio interesse nel periodo di
tirocinio svolto all’asilo nido lo scorso anno, durante il quale ho potuto osservare che i
bambini erano molto aggressivi tra loro: si spingevano, si mordevano, si tiravano i
capelli, si picchiavano. Le domande che mi sono posta sono: perché i bambini a questa
età sono così aggressivi? Perché continuano ad assumere questi comportamenti
nonostante i continui richiami delle educatrici? Cosa dovrebbero fare educatrici e
genitori per tenere a freno l’aggressività dei bambini? Ma prima di tutto, che cos’è
l’aggressività? In questo mio lavoro cercherò di fornire una risposta a queste domande,
partendo dalla tesi rassicurante che l’aggressività è prima di tutto un’energia che, lungi
dall’essere patologica, se ben incanalata permette di affermarsi e di raggiungere i propri
obbiettivi. Mi concentrerò quindi sull’aggressività “normale”, necessaria per lo sviluppo
del bambino, con un breve accenno all’aggressività “patologica” nel primo capitolo, nel
quale tratterò anche la natura dell’aggressività, le concezioni teoriche di vari studiosi, lo
sviluppo dell’aggressività nell’arco di vita e le sue forme. Nel secondo capitolo
analizzerò i principali comportamenti aggressivi del bambino in questa fascia di età e le
cause che sottendono questi comportamenti, cercando cioè di capire quando un bambino
si comporta in un determinato modo e perché. Nel terzo capitolo affronterò l’intervento
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Bourcier (2015).
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educativo di genitori ed educatori: nello specifico come dovrebbero reagire ai vari
comportamenti aggressivi dei bambini, e più in generale quale stile educativo
dovrebbero adottare per farli crescere serenamente, assicurandogli un corretto sviluppo
individuale e sociale; trattando anche il ruolo che rivestono le punizioni, le storie e i
mass media.
I. La natura dell’aggressività
1. Definizione e forme di aggressività
Il dizionario della lingua italiana (1994), alla voce del termine “aggredire” riporta la
seguente definizione: «assalire, attaccare con violenza e all’improvviso: un ladro lo
aggredì. La Germania aggredì il Belgio. Fig. affrontare, investire con durezza:
aggredire con aspre critiche». Tuttavia, il termine “aggredire” deriva dal latino
“aggredi”, da “ad”, verso, e “gradi”, camminare, per cui sta ad indicare un
movimento in avanti, un andare verso, che non necessariamente implica l’intenzione
di danneggiare qualcosa o qualcuno. Anzi, come notano la Fagiani e Ramaglia
(2006) «la presenza di una certa quota di aggressività è indispensabile all’individuo
per esplorare il mondo, per muoversi verso di esso, come ci dimostrano i bambini
(l’età in cui cominciano a camminare è la stessa in cui imparano a dire “no” e in cui
manifestano il desiderio di mordere)». L’aggressività è spesso definita come
indesiderabile, una tendenza antisociale che fa sfortunatamente parte della natura
umana e che i bambini devono imparare a controllare e ridirezionare. Tuttavia, se
l’aggressività fa parte della natura umana significa che ha avuto un valore adattivo
nel corso della storia della nostra specie; è una pulsione necessaria per sopravvivere
e conquistare una sana espressione individuale e sociale. Infatti come scrive la
Ferraris (2006), questa aggressività “adattiva” è indispensabile in alcuni contesti, per
ottenere rispetto, per comunicare che determinati limiti non devono essere superati,
per non diventare una vittima e non lasciare che i propri diritti vengano calpestati.
Nonostante ciò, è evidente che l’adozione di comportamenti aggressivi in alcuni
contesti e con particolare frequenza può risultare dannosa sia per chi li manifesta, sia
per chi li subisce, sia per l’ordine sociale; non tutta l’aggressività è però
necessariamente antisociale e molto dipende dall’obbiettivo e dal livello. Secondo la
Bitelli (2013) «possiamo definire l’aggressività positiva come un movimento
psichico necessario e vitale per la sopravvivenza degli uomini; possiamo parlare di
una “pulsione” fondamentale di cui è dotato l’uomo, come l’animale, per portare a
termine obiettivi di adattamento sociale. L’aggressività parte da una forza di base
auto conservativa, ma si trasforma in distruzione quando è associata all’emozione
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della rabbia: essa in particolare esplode quando il soggetto teme di perdere il proprio
spazio vitale a causa di quello che considera il sopruso e l’intrusione dell’altro». La
Mangione afferma che «nella nostra società, l’aggressività è una caratteristica che si
associa alla violenza e alla distruttività e non viene apprezzat a s o t t o f o r m a d i
intraprendenza, coraggio, determinazione. Possiamo immaginare un’aggressività
positiva associata alla determinazione e alla capacità di perseguire obiettivi e
un’aggressività negativa associata, invece, alla violenza e alla distruttività».
L’aggressività quindi non va confusa con la violenza; infatti «quest’ultima può
essere definita come un atto contro l’altro con l’intenzione di provocare una
sofferenza e/o una ferita. L’aggressività invece è un impulso spontaneo, una
manifestazione della forza vitale. Può trasformarsi in violenza (aggressività
negativa) oppure in grinta (aggressività positiva). La violenza costituisce quindi uno
degli esiti possibili dell’aggressività, ma anche in questo caso si può fare qualcosa
per deviarla. Per evitare la distruzione, da sempre la società h a m e s s o i n a t t o
strategie pacificatrici, che vanno dai riti collettivi alle competizioni sportive alle
espressioni artistiche».
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L’aggressività può assumere diverse forme: diretta (fisica e/o verbale), indiretta
(che si basa su varie forme di ostracismo), fisica o psicologica, esercitata in gruppi
o individualmente, accompagnata da forti emozioni o messa in atto freddamente,
selettivamente diretta o indiscriminata. La Fagiani e Ramaglia (2006) ritengono utile
distinguere fra:
• aggressività reattiva: è impulsiva, spesso esplosiva e incontrollata,
caratterizzata da alti livelli di arousal,
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rabbia e paura, e in genere si manifesta
come reazione a condizioni antecedenti che rappresentano, agli occhi del
soggetto, una provocazione.
• aggressività proattiva: è volta a perseguire un fine preciso, è dominata da
componenti cognitive e intenzionali e caratterizzata da bassi livelli di arousal.
L’aggressività proattiva, se associata ad una scarsa capacità di empatizzare con
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Ferraris (2006).
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“Arousal” (dall’inglese “eccitazione, risveglio”): è una condizione temporanea del sistema nervoso, in
risposta ad uno stimolo significativo e di intensità variabile, di un generale stato di eccitazione,
caratterizzato da una pronta reazione agli stimoli esterni.
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gli altri e in generale di provare emozioni profonde viene definita anche
psicopatia.
• Secondo la Bitelli (2013) esiste anche un terzo tipo di aggressività, definita pro
sociale: non vuole infliggere un danno a qualcuno o qualcosa, ma si prefigge di
conquistare un obbiettivo socialmente approvato. Questa aggressività è già
presente nei bambini di 2 anni, nei quali, le finalità perseguite sono
principalmente tre: difendere le proprietà personali; stabilire una dominanza nel
gruppo, anche per risolvere i conflitti; agire a livello psicomotorio tensioni
psicologiche, coerenti con le diverse fasi di sviluppo.
Schaffer (1998) distingue tra:
• aggressività ostile, che comprende quegli atti per i quali l’obbiettivo principale è
di infliggere danno o ferite alla vittima;
• aggressività strumentale, che comprende azioni aggressive nella forma e che
possono danneggiare un’altra persona, ma sono motivate da ragioni non
aggressive.
La distinzione dipende dall’intenzione dell’individuo, non dall’atto in sé:
nell’aggressività ostile, colpire è un fine in sé, nell’aggressività strumentale è un
mezzo con un fine assai differente come quello di ottenere un oggetto che
l’aggressore desidera.
Gli studi sembrano dunque confermare che una certa dose di aggressività è
necessaria per vivere; è un’energia vitale che se rimane entro certi limiti, ci
garantisce la sopravvivenza, ci permette di affermarci e di raggiungere i nostri
obbiettivi. Si è concordi sull’importanza di esercitare un freno sull’aggressività, e
nel ritenere che uno dei principali compiti dei genitori, degli insegnanti e degli
educatori sia proprio quello di assicurare che il bambino apprenda presto a
controllare gli impulsi ostili e a incanalare questa energia in termini di utilità.
2. Concezioni teoriche sull’aggressività
L’aggressività è stata da sempre un oggetto di studio centrale e, sono state elaborate
allo scopo di definire quali sono le sue origini varie teorie, che differiscono l’una
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