INTRODUZIONE
La guerra, secondo quanto afferma l'ex ufficiale dell'esercito inglese Rupert Smith, non
può essere semplicisticamente considerata come una conseguenza dell'innato istinto di
competizione insito nella natura umana. L'istinto infatti, quando si parla di guerra, lascia
il posto alla razionalità, all'organizzazione, alla divisione del lavoro ed alla
coordinazione mirata a sconfiggere il nemico, allontanando l'idea di “lotta animalesca”
e portando a considerare questo fenomeno una vera e propria specializzazione
dell'essere umano
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. Il modo di fare la guerra si è evoluto nella storia, progredendo negli
anni ed utilizzando sempre nuovi mezzi e nuove tecniche per facilitare la vittoria sul
nemico. Nonostante gli sviluppi tecnologici e la creazione di armi sempre più
sofisticate, a rimanere costante nelle varie guerre è l'essere umano, il vero protagonista
dei conflitti nella storia a prescindere dagli strumenti utilizzati. Ancora oggi, infatti, a
fare la differenza sui campi di battaglia è il “fattore umano”, unica discriminante da
considerare a parità di armi utilizzate e sviluppo tecnologico. Per “fattore umano” si
intende la qualità dei soldati, le loro capacità di essere efficienti sul campo di battaglia e
di riuscire ad uccidere il nemico senza subire ripercussioni dal punto di vista fisico e
psicologico. E' proprio il “fattore umano”di un esercito l'oggetto di studio di questa tesi,
che mira ad identificare gli elementi principali che caratterizzano l'efficienza dei soldati
in combattimento. Per poter realizzare l'obiettivo è parso necessario mettere a confronto
l'evoluzione storica del combattimento con la riflessione sulle motivazioni al
combattimento generata dall'esperienza storica. Per questa ragione è stato scelto un case
study che è stato ricostruito attraverso i suoi analisti coevi nei due conflitti più
importanti del Novecento: le due guerre mondiali. Il caso scelto è stato quello dell'Italia,
il cui esercito è stato spesso considerato tra i meno efficienti del secolo. L'efficienza dei
soldati in combattimento è stato argomento molto discusso sia in Italia che all'estero,
attraverso analisi attente dei conflitti più importanti del XX secolo: a partire dalla guerra
russo-giapponese, in cui i nipponici riuscirono ad avere la meglio nonostante la
sproporzione numerica, passando per le due guerre mondiali, fino ad arrivare a conflitti
come la guerra in Vietnam e quella delle Falkland/ Malvinas. In tutti questi studi è
1 Rupert Smith, L'arte della guerra nel mondo contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 22
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emersa una linea comune, che ha visto attribuire ai fattori morali e motivazionali delle
truppe il ruolo chiave per l'esito finale dei combattimenti e più in generale per delineare
l'approccio delle varie forze al fenomeno guerra. In questo contesto, il caso italiano è
quanto mai emblematico: il Regio esercito è un late comer rispetto a strutture militari
consolidate come ad esempio quelle di Inghilterra e Francia e, nelle poche esperienze in
cui è stato impegnato negli anni precedenti al primo conflitto mondiale, aveva ricevuto
giudizi severi e poco incoraggianti. L'impiego delle truppe italiane in uno scontro con
nemici attrezzati sostanzialmente con lo stesso equipaggiamento ha testato sul campo di
battaglia la reale influenza dell'aspetto morale sull'efficacia in combattimento, mettendo
alla prova questi giudizi negativi che inquadravano i soldati come vili, indisciplinati,
confusionari e disorganizzati. Proprio per questo motivo l'analisi dell'esercito italiano e
del suo rendimento nei due conflitti mondiali risulta essere un ottimo caso di studio per
verificare le effettive cause di un' eventuale inefficienza e per identificare i fattori
principali che hanno caratterizzato l'aspetto morale dei soldati in combattimento. Si è
provato quindi a mettere in risalto questi elementi costanti che hanno influenzato in
entrambi i conflitti le motivazioni dei soldati, cercando di approfondirne la natura,
specificarne le caratteristiche e descriverne gli effetti a trecentosessanta gradi,
integrando la ricerca storica con il contributo di opere di psicologia militare e ricerche
strategico/militari. Lo scopo è stato quello di comprendere come fattori psicologici e
sociali potessero incidere sul morale del soldato al punto di migliorarne le prestazioni in
combattimento, permettendogli di avere il sopravvento su un nemico magari meglio
attrezzato dal punto di vista tecnologico ma con motivazioni inferiori.
Il primo capitolo tratta l'esperienza delle truppe italiane nella Prima Guerra Mondiale, le
differenze sulla gestione dell'esercito da parte dei due Capi di Stato Maggiore Cadorna e
Diaz e le decisive modifiche apportate in seguito alla sconfitta di Caporetto che hanno
portato gli italiani alla vittoria. La ricerca si è basata su fonti primarie come articoli
della “Rivista Militare Italiana” e quindi su pareri ed opinioni di ufficiali dell'epoca, su
memorie redatte da ex ufficiali come De Bono e Russo ed infine su opere di storici
militari come Rochat, Gibelli, Pieri, Monticone e Labanca, sottolineando i contributi di
Isneghi e Mondini per quanto riguarda la propaganda di guerra ed i giornali di trincea.
Questa ricerca trasversale ha delineato i fattori chiave per l'interpretazione dell'aspetto
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morale delle truppe, cercando di comprendere come eventuali scelte organizzative
potessero influenzare le motivazioni dei soldati e la loro efficienza in trincea. L'episodio
di Caporetto può essere considerato come lo spartiacque tra una gestione che ha
indebolito fisicamente e moralmente il Regio esercito portandolo vicino ad una rovinosa
sconfitta e di un'altra che ha invece messo i soldati nelle condizioni di esprimersi al
meglio, guidandolo verso una vittoria fino a pochi mesi prima insperata.
Il secondo capitolo prosegue l'analisi del case study italiano, descrivendo gli elementi di
impreparazione che portarono l'esercito ad un pessimo rendimento nella Seconda
Guerra Mondiale. L'inferiorità italiana rispetto agli altri eserciti in campo fu da
attribuire in buona parte a problemi di innovazione tecnologica, ma il morale dei soldati
fu influenzato principalmente da scelte inadeguate da parte della leadership militare che
condussero le truppe in scontri con palese squilibrio a favore dei nemici. Anche in
questo caso la base della ricerca sono stati articoli di una rivista dell'epoca (“Nazione
militare”), fondamentali per riuscire a comprendere la dottrina militare riguardo la
meccanizzazione e la motorizzazione dell'esercito, così come l'approccio alla guerriglia
e all'addestramento delle truppe. Come per la Prima Guerra Mondiale, si è deciso di
utilizzare opere di memorialistica, sfruttando le autobiografie dei Generali Badoglio,
Roatta e Graziani, membri influenti dello Stato Maggiore dell'esercito e protagonisti in
prima persona di molti degli eventi decisivi in merito all'oggetto della ricerca. A queste
fonti si sono aggiunti i contributi di esperti di storia militare come i già citati Rochat e
Labanca, altri come Montanari e Del Boca, oltre alle opere di Raniero e dell'Istituto
storico della resistenza in Piemonte in merito ai prigionieri di guerra. Quello della
prigionia è, infatti, un aspetto molto importante per quanto riguarda il valore
motivazionale della guerra poiché, essendo stato il combattimento “falsato” dal palese
squilibrio organizzativo, è proprio nei campi di prigionia che emergono valori come
l'opportunismo o la fedeltà alle istituzioni, che guidano il soldato ad una scelta piuttosto
che ad un'altra.
Il terzo ed ultimo capitolo punta ad uscire dal contesto prettamente italiano, senza però
prendere distanza dagli elementi emersi nel caso di studio. Si analizzano, infatti, in
maniera approfondita i vari fattori evidenziati durante l'esempio storico, cercando di
descrivere le caratteristiche e le modalità con cui essi influenzano il morale dei soldati e
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quindi la loro efficienza in combattimento. Questa analisi si è basata principalmente
sulle opere di Marshall, pioniere della valutazione del rendimento delle truppe grazie ad
elementi come la firing ratio oltre ad essere tra i primi ad introdurre il concetto di
gruppo primario, e di Hugh McManners, ufficiale durante la guerra delle Falklands
/Malvinas e sostenitore del rafforzamento morale delle truppe attraverso elementi come
la religione e lo spirito di gruppo. Oltre ad opere prettamente di stampo storico, sono
stati utilizzati contributi di diversa natura come ad esempio ricerche psicologiche sulla
paura di uccidere e di morire oppure studi prettamente strategico/militari sugli effetti di
un addestramento classico, realistico o simulato, allo scopo di approfondire i vari
fattori in grado di influenzare il morale dei soldati.
Attraverso questa analisi emergono le varie fasi che avvicinano un soldato al momento
decisivo del suo “mestiere”, vale a dire lo scontro a fuoco con il nemico.
Dall'addestramento, alla monotona quotidianità della trincea, passando per la
propaganda ed il rapporto con i leader, il soldato supera tutti gli step che lo portano al
combattimento, evento per cui si è reclutato ma che paradossalmente spera rimanga il
più lontano possibile. Elementi come una visione negativa del nemico, nazionalismo e
patriottismo sono una sorta di “antidoto” per combattere dei timori insiti nell'essere
umano che un soldato deve superare per poter affrontare il nemico ed essere in grado di
ucciderlo senza a eccessive ripercussioni psicologiche. Un soldato deve riuscire ad agire
in senso opposto rispetto al naturale istinto di sopravvivenza, mettendo in pericolo la
propria incolumità con lo scopo di raggiungere l'obiettivo imposto ed affrontare scelte
decisive con freddezza e razionalità anche in momenti in cui risulta complicato
mantenere la concentrazione. Questa ricerca tenterà inoltre di dimostrare come la
società abbia sempre provato a sostenere moralmente i propri soldati, cercando di
stimolarne le motivazioni per garantirne l'efficienza in combattimento. I risultati non
sempre hanno dato esito positivo, come nel caso dell'esercito italiano, ma comunque
esistono elementi che permangono nel tempo e che si possono utilizzare per migliorare
il rendimento di un esercito al netto di potenziamenti e sviluppi di armi e tecnologie. I
mezzi cambiano ma gli uomini devono essere costantemente efficienti: la base
dell'efficienza in combattimento è uccidere il nemico e chi non è in grado di farlo non
può essere utile alla causa.
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