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Fig. 1 (Moroni M. et al., 1999) Comparsa di infezioni opportunistiche e tumori in relazione
alla riduzione dei linfociti CD4+. Questo processo - in assenza di cure adeguate - avviene
mediamente nell’arco di 12 anni.
Nei soggetti che presentano conte di linfociti al di sotto dei 200/µ l il rischio
cumulativo di sviluppare un’infezione opportunistica AIDS-correlata è del 33% il primo
anno e diviene del 58% entro due anni.
L'infezione da HIV può restare per lunghi anni clinicamente asintomatica; lo stadio
di malattia conclamata (AIDS) si diagnostica alla comparsa di determinati sintomi come
le infezioni opportunistiche e gli insoliti tumori maligni sopra riportati causati dalla
forte diminuzione dei linfociti nel sistema immunitario del paziente (Moroni M. et al.,
1999).
8
2. EPIDEMIOLOGIA
I primi casi di AIDS sono stati descritti negli USA, alla fine del 1981, tra
omosessuali maschi, colpiti da infezioni opportunistiche o da particolari tumori e affetti
da una forma di immunodeficienza dalle cause allora non conosciute.
Studi retrospettivi su sieri congelati hanno mostrato la presenza di anticorpi contro il
virus HIV in un soggetto morto in Africa nel 1959 e ciò può indurre a pensare che
l’HIV/AIDS abbia avuto il suo esordio già negli anni ’60, per propagarsi poi
ampiamente nella popolazione senza che fosse stato ancora diagnosticato.
Da dove è venuta questa malattia? Sono state formulate numerose ipotesi tra le quali
la più accreditata indicherebbe come progenitore del virus HIV un virus, l'STLVIII
(Simian T Cell Leukemia Virus III), che nella scimmia provoca una sindrome
riconducibile all'AIDS dell'uomo.
L'infezione, dunque, avrebbe colpito le zone rurali dell'Africa dove sarebbe rimasta
confinata per lunghi anni e, successivamente, si sarebbe diffusa alle aree urbane del
Centro Africa. Di lì, attraverso i rapporti commerciali con altri Stati, l'infezione avrebbe
raggiunto Haiti e l'America centrale per poi diffondersi negli USA, in Europa e in tutto
il mondo.
2.A NEL MONDO
I casi di AIDS/HIV notificati nel mondo al termine del 1999 erano diversi milioni.
Tuttavia si stima che i casi diagnosticati rappresentino solo la punta di un iceberg: si
calcola, infatti, che oggi i soggetti infettati dal virus nel mondo siano più di 34 milioni.
(WHO, 2000).
Per ciò che concerne le modalità di diffusione e l’incidenza dell'epidemia da HIV,
sono state descritte tre aree geografiche con differenti quadri epidemiologici:
1° gruppo: comprende gli USA, il Canada, l'Europa dell'Ovest, l'Australasia, il Nord
Africa, parti del sud America; qui l'epidemia si è diffusa soprattutto tra gli omosessuali,
i bisessuali e i tossicodipendenti.
I soggetti che hanno contratto l'infezione per via eterosessuale costituiscono una
minoranza, anche se la loro percentuale è in continuo aumento.
9
2° gruppo: comprende il resto dell'Africa e del Sud America; qui la maggioranza dei
soggetti ha acquisito l'infezione per via eterosessuale e il morbo ha colpito uomini e
donne in misura quasi paritaria.
L'AIDS in questi Paesi ha avuto un impatto drammatico: si stima che dei tredici
milioni di soggetti infettati dal virus HIV nel mondo, otto milioni risiedano nell'Africa
sub Sahariana. In questi luoghi il dilagare dell’epidemia è aggravato dalla mancanza di
prevenzione e dal fatto che le terapie farmacologiche, estremamente costose, non sono
fruibili dalla gran parte della popolazione.
Qui, a causa dell’elevata incidenza dell’infezione nelle donne in età fertile, la
trasmissione per via verticale (dalla madre sieropositiva al figlio) è molto comune.
3° gruppo: comprende Asia-Pacifico, Europa dell'Est e Medio Oriente dove il virus
HIV è stato probabilmente introdotto più tardi rispetto ai paesi appartenenti agli altri
gruppi; modesto era qui, in passato, il numero di casi notificati di AIDS.
In questi Paesi, tuttavia, si riscontra oggi un forte incremento dei casi di infezione da
HIV al punto che, Michael Merson, direttore del Programma Globale sull'AIDS
dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, ha affermato che l'epidemia dell'Asia potrà
far scomparire tutte le altre sia come impatto che come portata.
La Thailandia ne è l'esempio più drammatico: anche qui, dopo i primi casi del 1984, i
gruppi più colpiti dalla diffusione epidemica sono stati dapprima i tossicodipendenti e le
prostitute, ma anche i giovani eterosessuali. Si è oggi riscontrato che, tra i giovani con
malattie sessualmente trasmesse, la presenza dei soggetti infettati da HIV è salita dallo
0% al 6,9% ed è destinata ancora ad aumentare (ricerca fatta sui sieri di 1000 giovani di
leva); nel Nord della Thailandia tale tasso raggiunge il 15,3% (WHO, 2000).
2. B IN ITALIA
In Italia, a partire dal 28 novembre 1986 (DM n. 288), l’AIDS è divenuta una
patologia infettiva a notifica obbligatoria. Da allora la raccolta sistematica dei dati
epidemiologici è gestita dal Centro Operativo AIDS (COA) dell’Istituto Superiore di
Sanità in collaborazione con le Regioni.
Dal 1982, anno della prima diagnosi in Italia, al 30 giugno 2000, sono stati notificati
in totale 46.534 casi di AIDS. Di questi 36.308 (78,0%) erano maschi, 10.226 femmine
(22,0%) e 688 (1,5%) soggetti in età pediatrica (minori di 13 anni).
10
Tra le nazioni europee maggiormente colpite dall’AIDS l’Italia si colloca al terzo
posto dopo Spagna e Francia.
0
1000
2000
3000
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numero di casi
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*
anno di diagnosi
Casi di AIDS in Italia per anno
Fig. 2: Casi di AIDS in Italia per anno di diagnosi (00*= Primo semestre 2000).
Dati dell’Istituto Superiore di Sanità.
Distribuzione geografica
Oggi in Italia sono presenti oltre 15.000 persone con AIDS conclamato su di una
popolazione di 56.700.000 italiani.
L’attuale distribuzione dei casi sulla penisola non è uniforme: la Lombardia con i
suoi 4.213 malati ospita più del 27% dei casi nazionali, seguono il Lazio (2.038),
l’Emilia Romagna (1.219) ed il Piemonte (909).
A Milano, dal 1982 ad oggi (dati del 1° semestre 2000), sono stati segnalati 4.092
casi di AIDS. Oltre 1000 sono oggi i soggetti residenti nella città affetti da AIDS
conclamato e i vari servizi ambulatoriali ospedalieri hanno in carico più di 5.500
persone con infezione da HIV.
Si stima che nel nostro Paese vi siano circa 104.000 individui sieropositivi.
Età
L’età dei soggetti colpiti da AIDS si concentra prevalentemente nella fascia tra i 25 e
i 39 anni (73,3% del totale); in particolare negli ultimi anni è aumentato il numero di
malati tra persone di età compresa tra i 35 ed i 39 anni (dal 1989 al 1999 si è passati per
i maschi dal 11,5% al 28,9% e per le femmine dal 5,6% al 25,7%).
11
Le campagne informative ad opera dei media hanno portato la popolazione a
conoscenza del problema e questo ha spinto molti soggetti “a rischio” a sottoporsi ai test
diagnostici. E’ stato in questo modo possibile mettere in atto interventi farmacologici
preventivi all’insorgenza dell’AIDS. Si è così ottenuto di ritardare, se non di evitare,
l’insorgenza della malattia conclamata.
Ne è conseguito un innalzamento dell’età mediana della diagnosi di AIDS,
progressivamente aumentata nel corso del tempo: dai 24-29 anni del 1985 ai 35-37 anni
del 2000.
Ciò è conferma del fatto che i regimi farmacologici, dal ’96 in poi, sono diventati per
fortuna molto più efficaci nel frenare l’avanzata del virus.
Modalità di infezione
Il 63,3% dei pazienti italiani ha contratto il virus tramite l’uso di sostanze
stupefacenti per via endovenosa. La distribuzione temporale del fenomeno mostra
tuttavia un notevole incremento negli ultimi anni di nuove infezioni per via sessuale
(omosessuale ed eterosessuale). Il 36,3% dei contagi nelle donne è avvenuto per via
sessuale.
È da sottolineare inoltre che, secondo un’indagine condotta dal COA (Centro
Operativo AIDS), i pazienti che dichiarano di non conoscere la causa della propria
infezione sarebbero classificabili tra quelli contagiati per via sessuale.
Sono proprio i soggetti contagiati per via sessuale quelli che, non percependosi come
“a rischio”, giungono alla diagnosi e quindi all’avvio della terapia farmacologica con
grande ritardo, spesso solo quando si manifesta una situazione di AIDS conclamato. Gli
esperti chiamano AIDS “insospettabile” quello di queste persone che si scoprono malate
ma non ammettono neanche a se stesse di aver avuto comportamenti a rischio di
contagio.
Mortalità
In questi anni sono deceduti 31.332 pazienti con un tasso di letalità totale
1
del 67,3%.
In Italia l’AIDS è la prima causa di morte tra i maschi di età compresa tra i 18 ed i 40
anni e la seconda per le donne della stessa età.
1
Il rapporto fra i decessi avvenuti tra il 1982 ed il 2000 ed i casi diagnosticati nello stesso arco di tempo.
12
Il tasso di mortalità ha subito comunque una forte diminuzione a partire dal 1996,
anno di introduzione delle nuove terapie antiretrovirali combinate che hanno
notevolmente aumentato l’aspettativa media di vita dei pazienti. La segnalazione dei
casi di AIDS non è più quindi un efficiente indicatore della presenza del virus tra la
popolazione in quanto i nuovi farmaci hanno notevolmente rallentato l’evoluzione della
sieropositività in AIDS (il cosiddetto ‘effetto terapia’) (fig. 2, pag.6).
Trattamento terapeutico precedente la diagnosi di AIDS
Tra i casi notificati nel primo semestre del 2000 solo il 34,3% ha ricevuto un
trattamento terapeutico antiretrovirale prima dell’insorgere dell’AIDS. Una
combinazione di tre farmaci antiretrovirali è stata somministrata alla maggioranza di
questi pazienti (74,3%).
I dati dell’Istituto Superiore della Sanità evidenziano inoltre forti differenze
nell’accesso alle terapie tra le diverse categorie di pazienti: solo il 28% dei pazienti
infettatisi per via sessuale ha effettuato una terapia antiretrovirale contro l’oltre 50% dei
tossicodipendenti.
Ciò deriva dalla sottovalutazione del rischio di contagio nei comportamenti sessuali
che porta a non diagnosticare l’infezione da HIV prima che si sviluppi un quadro
morboso sintomatico (AIDS).
3. LE TERAPIE FARMACOLOGICHE
Dall’esordio dell’epidemia ad oggi sono state sperimentate numerose alternative nel
trattamento dell’AIDS.
Fino al 1984, in assenza di idee precise sull’eziologia dell’AIDS, la cura si limitava
al trattamento dei sintomi secondari delle infezioni opportunistiche.
Per far fronte al grave deficit immunitario provocato dal virus furono poi attuati degli
interventi che miravano ad agire sul ciclo biologico dei linfociti T, come trasfusioni di
globuli bianchi e trapianto del midollo, ma tutto ciò con risultati alquanto deludenti. Nel
campo della ricerca medico-farmacologica si fece largo l’idea della necessità di
sintetizzare farmaci immunomodulatori ed antivirali, ossia in grado di bloccare la
moltiplicazione del virus e la sua penetrazione nelle cellule. A tale scopo furono creati
13
degli antivirali fisiologici non specifici, come l’interferone, e delle sostanze chimiche
che bloccavano la moltiplicazione del virus in vitro.
Nel febbraio 1985 furono compiuti test in vitro utilizzando una molecola sintetizzata
nel 1964 da Jerome Howitz e lanciata sul mercato come farmaco contro il cancro. Tale
sostanza, chiamata AZT o ZDV (azidotimidina o zidovudina), inibiva fortemente il
virus dell’HIV nelle colture linfocitarie senza risultare tossico per le cellule stesse come
le sostanze precedentemente trovate. Dalla primavera del 1987 l’AZT è stato messo sul
mercato con il nome commerciale di Retrovir. La durata dei benefici della zidovudina è
stata fortemente limitata dalla capacità dell’HIV di sviluppare resistenza ai singoli
agenti antiretrovirali. L’introduzione di nucleosidi analoghi permise poi ai medici di
migliorare la gestione dei pazienti divenuti resistenti o intolleranti all’AZT (Mayer K.
H., 1999).
Un’altra pietra miliare nella gestione clinica dei soggetti sieropositivi è stata la
dimostrazione, avvenuta nel 1996, che l’aggiunta degli inibitori della proteasi alla
terapia nucleosidica antiretrovirale portava ad una significativa diminuzione della
viremia circolante nel sangue ed era significativamente associata con un miglioramento
della condizione clinica ed un aumento della speranza di vita (Deeks S. G. et al, 1997 ).
Abbiamo oggi a disposizione vari farmaci per curare l’infezione da HIV. Tra questi
si distinguono gli inibitori della trascrittasi inversa che impediscono la moltiplicazione
del genoma virale e gli inibitori della proteasi che impediscono la maturazione delle
particelle virali che, subito dopo la moltiplicazione, non sono ancora in grado di
infettare altre cellule. L’assunzione di tali farmaci in combinazione permette di ottenere
la più elevata attività antiretrovirale. Questa strategia di cura è universalmente
conosciuta come Higly Active Antiviral Therapy (HAART).
L’emivita
2
degli inibitori delle proteasi è piuttosto breve, ciò comporta la necessità di
un’assunzione ad intervalli regolari di 8 o 12 ore affinché la concentrazione plasmatica
dei farmaci raggiunga e mantenga i livelli ottimali (steady state). I medicinali
disponibili inibiscono la replicazione attiva, pertanto il virus può riprendere a proliferare
quando il farmaco viene sospeso.
2
Tempo necessario all’organismo per eliminare una quantità di farmaco tale da dimezzarne la concentrazione nel
sangue.
14
3.A MODALITA’ DI SOMMINISTRAZIONE
I regimi terapeutici costituiti da due inibitori della trascrittasi inversa associati ad uno
o due inibitori della proteasi permettono di ottenere la più elevata attività antiretrovirale.
Questi regimi terapeutici richiedono:
• L’assunzione di un elevato numero di compresse (anche 20 pro die).
• L’assunzione in orari precisi in rapporto ai pasti e ad eventuali altri
farmaci.
• L’assunzione di liquidi o di particolari cibi o bevande per migliorare
l’assorbimento o ridurre gli effetti collaterali dei farmaci.
Da tali prescrizioni derivano concrete difficoltà di ordine pratico, psicologico e
sociale che inducono un numero rilevante di persone sieropositive ad abbandonare la
terapia o ad assumere i farmaci in modo improprio.
Bisogna inoltre tenere presente che questi farmaci, molto aggressivi nei confronti del
virus, presentano un’elevata tossicità anche per l’organismo che li assume e possono
quindi causare la comparsa di numerosi e spesso gravi effetti collaterali quali diabete,
colesterolomia e anomala distribuzione del grasso corporeo.
3.B LA RESISTENZA AI FARMACI
L’HIV si replica ad una velocità di 10 miliardi di nuove particelle di virus al giorno.
Le mutazioni si verificano in circa una ogni 10.000 di queste particelle. Alcune di
queste mutazioni porteranno alla cosiddetta “resistenza”, rendendo così il virus non più
suscettibile all’azione dei farmaci antiretrovirali. Perciò si può dire che la replicazione
dell’HIV è all’origine di nuovi virus inattaccabili e, in ultima istanza, è la causa dello
sviluppo della resistenza ai farmaci (Chesney M., 1999).
Per evitare lo svilupparsi della resistenza si deve quindi bloccare la replicazione
virale.
Il dosaggio ottimale per ciascun farmaco dovrebbe mantenere l’efficacia terapeutica
(dimostrata dalla soppressione della carica virale
3
) ed allo stesso tempo minimizzare il
rischio che si verifichino effetti collaterali (Kastriossios H. et al., 1998).
3
Concentrazione di virus presente nel sangue.
15
L’assorbimento della molecola dipende da variabili biologiche individuali che il
medico deve valutare per ogni singolo paziente. Una volta individuata la combinazione
farmacologica ed il dosaggio ottimale il soggetto beneficerà dell’efficacia dei nuovi
farmaci nella misura in cui si atterrà alle indicazioni nell’assumere la terapia.
I pazienti che aderiscono alla terapia in modo discontinuo od insufficiente sono per
ciò maggiormente esposti alla possibilità di sviluppare varianti del virus farmaco-
resistenti. Queste varianti possono dimostrarsi resistenti all’intera classe di molecole
(cross-resistance) riducendo così notevolmente le future opportunità terapeutiche per il
paziente. In tali situazioni, il risultato parossistico della terapia farmacologica è quello
di accelerare, piuttosto che rallentare, il progredire della malattia (APA, 1997;
Conference Report 1997; Lerner B. H. et al., 1998 ). Un elevato livello di resistenza del
virus è perciò un indicatore indipendente di progressione della malattia e di morte
(D’Aquila et al., 1995).
3.C LA SALUTE PUBBLICA E IL COSTO SOCIALE
Quando le terapie falliscono per una non ottimale assunzione, i farmaci devono
essere sostituiti o il loro dosaggio aumentato. Dato l’ingente costo di questo tipo di cure,
si determina un considerevole aumento della spesa pubblica. Si stima che, negli Stati
Uniti, la spesa dovuta alla non adesione alle terapie mediche si aggiri intorno ai 100
miliardi di dollari.
Né va trascurato il fatto che lo sviluppo di varianti dell’HIV resistenti alle attuali
terapie farmacologiche, oltre ad avere gravi ripercussioni sulla salute e sulla qualità di
vita del singolo, comporta anche la possibilità di diffusione di tali varianti: il soggetto
resistente al farmaco può trasmettere il suo virus ad altre persone con le quali abbia
comportamenti a rischio. L’infezione da virus resistenti si può contrarre per
trasmissione sessuale, percutanea e materno-fetale da malati in terapia farmacologica
(Erice et al., 1993; Fitzgibbon et al., 1993).
Da alcuni pazienti si sono sviluppati ceppi resistenti a più farmaci e sta purtroppo
aumentando l’incidenza delle infezioni primarie da virus resistenti ai medicinali che
abbiamo oggi a nostra disposizione.
16
3.D IL FALLIMENTO TERAPEUTICO
Gli studi nella letteratura medica sono concordi nell’affermare che esiste una stretta
correlazione tra l’esito positivo delle cure con antiretrovirali ed un buon livello di
“compliance”
4
(Kastriossis H. et al., 1998; Paterson D. L. et al., 2000; Cheever L. H.
1998).
Gli insuccessi clinici della terapia antiretrovirale si possono infatti manifestare solo
nel corso di infezioni causate da virus sensibili al farmaco che hanno colpito pazienti
altamente immunodeficienti o in seguito alla comparsa di mutanti resistenti al farmaco,
conseguenti, come si è detto, anche alla non adesione alla terapia (Hayden F. G., 1997).
Diverse ricerche hanno affrontato il problema di quale sia la quantità minima di
farmaco da assumere affinché la terapia risulti efficace.
La misurazione empirica dell’efficacia di un farmaco risulta però difficilmente
attuabile perché influenzata da numerosi fattori tra i quali hanno grande rilevanza le
differenze individuali di assorbimento e la farmacocinetica
5
stessa della sostanza.
Un principio-base della farmacocinetica è che l’efficacia terapeutica è funzione della
sistematica esposizione al farmaco, che, a sua volta, è funzione dell’assunzione della
terapia (Kastriossis H. et al., 1998).
Paterson et al. nel 2000 hanno effettuato uno studio osservazionale su di un
campione di 99 pazienti sieropositivi sottoposti a terapie con inibitori delle proteasi.
Dalla valutazione della compliance, effettuata tramite il conteggio elettronico delle
pillole assunte (Medication Event Monitoring System), è emerso che esiste una stretta
correlazione tra il grado di compliance ed il rischio di collasso virologico.
La regola invalsa nella letteratura medica degli ultimi anni è stata quella di fissare
all’80-85% di assunzione della dose prescritta il livello critico di aderenza alla terapia
nelle malattie croniche. Questo cut-off è stato ampiamente utilizzato in studi sui farmaci
per l’ipertensione e sulle terapie orali oncologiche e nei primi studi sui soggetti
sieropositivi (Eldred L. J. et al, 1998; Rodriguez-Rosado R., 1998).
Tuttavia, uno studio di Paterson D. L. et al. del 2000 (Fig. 3) dimostra che i pazienti
con una compliance al 95% o più hanno un esito terapeutico migliore in termini di
aumento dei linfociti CD4 e di diminuzione della viremia rispetto a coloro che
4
Per compliance si intende, come verrà ampiamente spiegato in seguito, l’adesione del paziente alle
indicazioni del proprio medico curante
5
Meccanismo di assorbimento, distribuzione ed eliminazione di un farmaco.
17
assumono una minore quantità di farmaco. Una quota fisiologica di pazienti, che si
aggira intorno al 22%, va comunque - nell’arco di 6 mesi - incontro ad un aumento della
viremia nonostante il rispetto quasi assoluto delle indicazioni mediche riguardo
all’assunzione dei farmaci (95% o più di terapia assunta). Questa percentuale passa però
dal 22% al 61% se l’aderenza del paziente è tra l’80% e il 95%. Se la percentuale di
terapia assunta scende poi sotto all’80% si osserva un fallimento terapeutico nell’80%
dei casi. Risultati analoghi a quelli di cui s’è detto - evidenziati nella figura n.3 -sono
emersi da uno studio di Cheever L. W. (1998).
22
61
80
0
20
40
60
80
Collasso
virologico,%
>95 80-94,9 <80
Adesione %
Adesione al trattamento antiretrovirale e fallimento della
terapia
Fig. 3: Il grado di aderenza è stato significativamente associato con il rischio di
collasso virologico (P< 0.001).
4. COMPLIANCE: I PRIMI STUDI
Il problema dei pazienti non cooperativi è antico: i medici cominciarono ad
occuparsene nel 1890, quando Robert Koch scoprì che la tubercolosi era una malattia
infettiva. I malati dovevano seguire rigide procedure che si credeva potessero impedire
la trasmissione del virus ad altri. L’interesse dello Stato e del personale sanitario per la
compliance dei malati era finalizzato unicamente a fermare l’avanzata dell’epidemia
(Biggs, 1904). Perciò, nel 1903 a New York soggetti non collaboranti e perciò ritenuti
“viziosi e pericolosi per la società” venivano isolati all’interno di appositi ospedali
(Foster, 1905).
L’introduzione nel 1945 di antibiotici curativi per la tubercolosi aumentò l’interesse
nei riguardi di quei malati che non si attenevano alle terapie. I pazienti che si
18
opponevano all’assunzione dei farmaci vennero denominati “recalcitranti”; il medico
imponeva la cura ed il paziente doveva obbedirgli.
Nel 1950, l’introduzione di molti nuovi antibiotici portò a riconsiderare la “non
adesione” anche in pazienti con altre infezioni (Mohler D. et al, 1955).
Sono stati così, in epoca più recente, ad esempio messi in atto i primi veri studi su
adulti e bambini sottoposti a cure con penicillina e si è osservato che nell’arco di 10
giorni solo il 19% dei pazienti aveva assunto nella sua interezza il numero di pillole
previsto (Charney E. et al., 1967).
Si venne così a scoprire che una scarsa compliance era prevalente nella popolazione.
In tutte le terapie mediche i livelli di assunzione della cura prescritta si aggiravano
intorno al 40% - 70% per poi calare ulteriormente nelle terapie di profilassi.
Era dunque contraddetta l’idea iniziale che solo i pazienti poveri o alcolizzati non si
attenessero alle indicazioni mediche (Lerner et al., 1998; Steiner et al., 2000).
Altre malattie croniche e HIV
Il problema della “compliance” è certo antico quanto la storia della medicina, ma
solo negli ultimi decenni ha ricevuto adeguata attenzione in relazione al crescente
interesse verso alcune patologie che, pur essendo poco sintomatiche o del tutto
asintomatiche, richiedono l’assunzione cronica di farmaci.
Per descrivere il fenomeno il termine compliance è stato usato per la prima volta nel
testo di Sackett e Haynes (Sackett et al., 1976; Haynes et al., 1979).
Con tale espressione in medicina si intende la disponibilità e la capacità del paziente
di seguire le istruzioni e le prescrizioni del medico, di assumere regolarmente e
correttamente i farmaci, di non sospendere la terapia.
Il problema, ovviamente, si pone soprattutto in relazione alle malattie croniche come
il diabete o l’ipertensione nelle quali è richiesta una sostanziale partecipazione del
paziente al suo trattamento. Parimenti per l’HIV che, con l’introduzione delle nuove
terapie farmacologiche, è considerabile come una malattia cronica. Tuttavia - a
differenza ad esempio del diabete nel quale, a seguito dell’iniezione di insulina il
paziente ha immediati riscontri positivi in termini di sensazione di benessere - nell’HIV,
come nell’ipertensione, all’assunzione di farmaci non segue un immediato riscontro
19
della loro efficacia. Anzi, sono spesso gli stessi farmaci a provocare pesanti effetti
collaterali.
Il paziente sieropositivo può valutare l’efficacia della terapia che assume solo sulla
base della lettura dei propri esami plasmatici nei quali sono riportati i livelli di viremia e
di CD4 presenti nel sangue. E’ quindi necessaria da parte del paziente una grande
capacità di astrazione per attribuire al dato di laboratorio la verifica del proprio stato di
salute. E’ inoltre fondamentale la capacità di “vedere a lungo termine” e di posticipare
nel tempo la verifica dell’efficacia di un farmaco che viene spesso direttamente
percepito dal paziente come fonte unicamente di tossicità e non di vantaggi per il
proprio organismo.
E’ stato ipotizzato (Visintini R. et al., 1998) che l’osservazione del modo con cui il
paziente considera i propri valori ematici durante i controlli possa fornire elementi utili
sull’idea che il soggetto ha del proprio essere paziente. I soggetti che terranno in
maggior considerazione il numero dei linfociti CD4 (le cellule attive del sistema
immunitario) avranno la tendenza a considerarsi parte attiva nella lotta contro la
malattia (“locus of control”
6
interno); viceversa i soggetti che prenderanno
maggiormente in considerazione il livello di viremia del sangue si sentiranno più passivi
e impotenti di fronte alla lotta tra i farmaci e il virus nel loro organismo (“locus of
control” esterno).
Un altro problema, oltre a quello della non immediata visibilità degli effetti positivi
dei farmaci, è che l’HIV, a differenza delle altre malattie croniche, è accompagnato da
uno stigma sociale che può ostacolare il paziente sieropositivo nell’assunzione dei
propri farmaci in luoghi pubblici e sul posto di lavoro (Crespo-Fierro M., 1997).
6
Per locus of control si intende la tendenza ad attribuire la causa di un evento a se stessi piuttosto che ad
altri (per una spiegazione più esaustiva vedi anche capitolo 2).
20
4.A DIFFICOLTÀ’ NELL’ASSUNZIONE DELLE TERAPIE PER L’HIV
I regimi terapeutici combinati (HAART) prevedono l’assunzione di un numero molto
elevato di compresse (anche più di 20 pro die) suddivise in diverse somministrazioni ad
orari precisi nell’arco della giornata. Per molte molecole è anche richiesta l’assunzione
a stomaco pieno/vuoto, con determinati tipi di cibo e con molta acqua per migliorarne
l’assorbimento e minimizzare gli effetti collaterali.
Oltre all’HAART possono venire prescritti altri farmaci per la profilassi o la cura di
malattie opportunistiche in corso o derivanti dagli effetti collaterali della terapia stessa;
il numero di pastiglie che il paziente deve assumere giornalmente può venire così
ulteriormente aumentato.
Da una posologia complessa derivano forti difficoltà d’ordine pratico: il paziente
deve riorganizzare la propria routine quotidiana in funzione della malattia. La capacità
del soggetto di adattarsi e di cambiare è chiamata in campo in un momento di forte
shock: la persona ha appena scoperto la propria sieropositività e deve subito
riorganizzare la propria vita intorno ad essa. Una vita che però continua e non è più
come un tempo (quando le terapie erano meno efficaci e le aspettative di vita più
modeste) catalizzata verso l’attesa della morte. Il paziente non può e non deve più
costruirsi un’identità di “malato terminale” ma deve cercare di integrare nella propria
identità una cura del proprio corpo molto intrusiva nella vita di tutti i giorni. Non
s’instaurano più “angosce di morte” ma “angosce di vita” legate alla responsabilità di
riorganizzare la propria esistenza.
L’assunzione di un così alto numero di farmaci, alcuni dei quali necessitano di essere
tenuti in frigorifero, non passa certo inosservata agli occhi degli altri. Pazienti
particolarmente sensibili al giudizio altrui possono essere ostacolati nell’assunzione dei
farmaci proprio dalla paura di essere visti e stigmatizzati come “infetti”.
4.B DIVERSI TIPI DI NON ADESIONE
Sono stati identificati cinque tipi di non adesione alle prescrizioni mediche (Bronson
J.G., 1991):
1. la tendenza a modificare i dosaggi delle terapie: a) la costante tendenza al
sottodosaggio del farmaco per timore della sua tossicità e dell’insorgere di effetti
collaterali; b) il costante sovradosaggio nella convinzione di aumentarne l’effetto.