INTRODUZIONE
I. Il teatro nel cinema sin dalle origini
Quando si parla di arte, ancora oggi alcuni fanno fatica ad accostare ad essa il
mondo del cinema, o perlomeno se lo fanno è dopo aver messo in elenco discipline
più canoniche come poesia, musica, arti visive o plastiche. Una volta ricordatisi che
il cinema è “la settima arte” (e qui non vogliamo iniziare una querelle sul perchè il
cinema sia da considerarsi tale) , però, viene anche subito da riconoscere come esso
sia anche la forma artistica più popolare e che ha, potenzialmente, il bacino di utenza
maggiore assieme alla musica.
Se il teatro, la pittura e la scultura hanno origini antichissime e derivano da
esigenze legate a rituali religiosi, il cinema nasce come pura forma di divertimento,
senza alcuna iniziale finalità morale, religiosa e forse anche artistica. Puro spettacolo,
puro intrattenimento che aveva il semplice scopo di allietare la serata dei ceti medi a
costi più bassi del teatro e senza che si renda necessario un grande sforzo
intellettuale: le opere di Melies sono godimento visivo, quelle di Lumiere gustosi
spaccati di vita quotidiana nei quali rivedersi sia come classe sociale che, in alcuni
casi, nel vero senso della parola, magari in terza o quarta fila in mezzo a quegli
operai che stanno uscendo dalla fabbrica.
Il fenomeno del cinema si espanse prestissimo, ma le sue origini meno nobili
fecero come sentire il dovere di cercare vie per aumentarne il prestigio: la
contaminazione con altre arti di alta considerazione fu una delle soluzioni più
immediate, dunque si pensò quasi subito di portare sullo schermo soggetti presi dalla
letteratura o dal teatro.
Si pensi al panorama cinematografico italiano del primo Novecento: con il nuovo
genere del lungometraggio abbiamo come primi titoli di successo L'inferno (Adolfo
Padovan, Francesco Bertolini, Giuseppe di Liguoro, 1911) o L'Odissea (Adolfo
Padovan, Francesco Bertolini, 1911), direttamente di ispirazione letteraria, oppure il
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capolavoro di Mario Caserini Ma l'amor mio non muore!
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(1913).
Tale opera, che narra le tristi vicende amorose di una cantante lirica, aveva come
protagonista la diva del teatro Lyda Borelli, che tra l'altro in alcune scene richiamava
apertamente le sue interpretazioni e i suoi costumi da palcoscenico, specie citando la
Salomè di Wilde, suo cavallo di battaglia.
Anche Eleonora Duse, la diva italiana per eccellenza, ebbe modo di recitare sullo
schermo: era il 1916 quando uscì Cenere di Febo Mari, ispirato tra l'altro al romanzo
omonimo di Grazia Deledda. Non solo abbiamo un'attrice di teatro sul set, ma essa
interpreta un'eroina presa dalla letteratura, rendendo così l'opera la fusione di ben tre
arti in una.
Il teatro nel cinema, così, entra sin da subito e non lo fa solo perchè serva
qualcosa che nobiliti la nuova arte, ma anche perchè così facendo essa viene resa più
digeribile a chi ne fruisce per le prime volte e perchè solo una recitazione teatrale ed
esasperata poteva rendere comprensibile una storia priva di audio e raccontata solo
da qualche didascalia.
Il pubblico aveva frequentato il teatro per anni e i primi approcci furono un
tentativo di portare la visione teatrale sullo schermo per rendere in qualche modo tale
novità familiare: The India Rubber Head (1910, George Melies) e Le Mèlomane
(1903, George Melies) sono di impostazione pienamente teatrale e se non fossero
basati su trucchi visivi potrebbero essere veri spettacoli da palcoscenico ripresi dalla
sala.
Anche i primi film italiani, come il già citato Ma l'amor mio non muore! (1913,
Caserini), hanno una messa in scena che richiama il teatro: riprese spesso con
macchina da presa fissa e attori che si muovono in una scenografia in profondità
recitando in maniera esasperata e stilizzata secondo codici universali. Come
anticipato, tale prassi era necessaria anche a rendere lo spettacolo comprensibile,
poiché le didascalie non sempre erano sufficienti e non potevano interrompere troppo
di frequente la linearità della visione: vedere sullo schermo gesti che io già
conoscevo mi faceva facilmente comprendere cosa stesse provando il personaggio,
ad esempio dolore se si batte i pugni sul petto o stupore se si porta le mani sulla
1 Per ulteriori informazioni o approfondimenti sul film si invita alla lettura del saggio Ma l'amor mio non muore! La diva e
l'arte di comporre lo spazio, Stella Dagna, 2014, Mimesis
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bocca e sbarra gli occhi.
Presto ci si rese conto, però, di alcune differenze notevoli tra i due mondi: se a
teatro ho un contatto diretto con il pubblico, recitando per il cinema devo
relazionarmi solo con ciò che è con me sul set, con conseguenti notevoli ed evidenti
differenze in ambito espressivo. Nel primo caso, inoltre, devo poter essere udito e
visto da tutti, anche da chi è a grande distanza da me, nel secondo, invece, le
possibilità di piani ravvicinati danno spazio a una recitazione più intima e discreta:
per questo motivo, una volta diffusosi il montaggio e il ricorso ai piani ravvicinati
appunto, il cinema abbandona subito la recitazione enfatica e stilizzata che abbiamo
detto essere propria, ad esempio, dei sopra citati primi lungometraggi italiani. Presto
quello stile suona barocco, grottesco, non adatto al mezzo e viene così abbandonato.
Il cinema inizia ad avere una sua autonomia dal teatro e, anzi, si muove per cercare
innovazioni che possano distaccarlo e renderlo da questi indipendente, non più simile
a una semplice ripresa di una piece poi riprodotta così com'è su pellicola: ormai la
settima arte ha trovato spazio, pubblico, consenso e capacità di nobilitarsi di per sé,
senza dover brillare di luce riflessa o sfruttare prestiti e riferimenti.
Siamo a ridosso della Prima Guerra Mondiale, negli Stati Uniti, e nelle sale è
appena uscito un film che diventerà modello del cinema classico hollywoodiano: si
tratta di Nascita di una nazione (Birth of a nation, D.W. Griffith, 1915), caposaldo
per cui si inizia a parlare di inquadratura e sequenza, termini propri di un nuovo
metodo espressivo e non condivisi con il teatro, segno che davvero le due arti stanno
prendendo strade diverse, al punto che si rende necessario coniare termini nuovi e
propri di un campo piuttosto che dell'altro.
Il cinema sembra un figlio che si è staccato completamente dal genitore, ma,
come vedremo, certe volte sembra ancora avere bisogno di lui e torna a farsi ispirare
o a regalargli doni e omaggi colmi di affetto, ammirazione e, perchè no,
riconoscenza.
II. Come padre e figlio
Continuando la metafora del cinema come figlio del teatro (e della fotografia, che
noi però in questa sede trascuriamo) possiamo facilmente intuire quali siano i tratti
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ereditari che l'arte del palcoscenico ha lasciato alla sua discendente: in entrambi i casi
ci troviamo di fronte a un prodotto di finzione dove è l'uomo stesso che diventa parte
dell'opera d'arte, trasformandosi e togliendo i suoi panni per indossare quelli di un
personaggio, dimenticando la sua gestualità e il suo modo di esprimersi per utilizzare
quelli di altri. L'artista esce dal mondo del reale per interagire con una scenografia e
con altri artisti che a loro volta hanno momentaneamente allontanato la loro
personalità da un corpo che ha preso in prestito un'anima diversa.
A teatro, così come al cinema, il mio spazio è limitato da quattro pareti, tre che
racchiudono la scena (anche se nel cinema possono essere ideali, ad esempio nelle
scene in esterna) e una quarta che corrisponde o al limite del palcoscenico o al piano
immaginario su cui si trova l'obiettivo della macchina da presa. In entrambi i casi,
salvo evidenti ragioni registiche e artistiche, tali pareti sono di norma inviolabili.
Infine, somiglianza anch'essa facilmente accettabile, cinema e teatro raccontano
storie che sono opere letterarie (copione, sceneggiatura) che prendono vita in forma
visiva.
Non bisogna però evidenziare solo le somiglianze tra i due ambiti, perchè sarebbe
avvicinare in modo eccessivo due mondi che sono sì comunicanti, ma che restano al
contempo distinti: il teatro è un qualcosa che muore e rinasce ad ogni replica, ma non
si replica mai davvero! Molte sono le piccole modifiche, volontarie e involontarie,
che rendono ogni esibizione differente dalle altre. Il cinema, invece, è condannato a
non poter superare una impossibilità di modificarsi una volta che il lavoro è finito e
distribuito nelle sale: l'opera sarà sempre uguale a sé stessa, eterna contro l'effimero
del teatro.
Il cinema, dunque, è sicuramente in qualche modo figlio ed evoluzione della
pratica teatrale, nato dall'unione di questa e della fotografia opportunamente adattate
a una nuova forma d'arte: come ogni figlio, esso mantiene dentro di sé alcune
caratteristiche dei genitori e ciò rende lecita la nostra metafora.
Recitazione, testo, presenza di una scena entro cui muoversi e con cui
relazionarsi, esistenza di una parete di norma invalicabile, sono gli elementi comuni
ai due ambiti che tutti danno per scontato e che basterebbero di per sé a rendere
comunicanti cinema e teatro.
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III. Le convergenze tra cinema e teatro
Ci sono casi, però, in cui i possibili “prestiti” del teatro al cinema vengono
enfatizzati, divenendo non più caratteri comuni che interessano solo gli aspetti
generali della forma d'arte, ma ben più evidenti caratteristiche superficiali ed
estetiche che rendono QUEL film in particolare legato in modo speciale al teatro.
I punti d'incontro derivano così da precise scelte artistiche di chi lavora al film o
dipendono, in altre circostanze, da stili recitativi, testi o musiche che dal teatro
passano direttamente al mondo del cinema, il quale ne fa degli omaggi o delle
citazioni che spesso servono a nobilitare la propria opera, esattamente come avevano
pensato gli italiani degli anni Dieci.
Chiameremo da ora queste incursioni di teatro nel cinema convergenze e nelle
pagine a seguire saranno analizzate e definite tutte le possibilità di convergenza
riscontrabili tra le due arti.
Va detto che gli approcci iniziali al mondo del lungometraggio non possono,
però, rientrare in tali categorie, proprio per il loro essere forme di transizione e di
definizione di una nuova forma artistica che è andata consolidandosi come autonoma
per proprietà estetiche e linguaggio (anche in senso concreto e terminologico) solo
con l'avvento almeno di Griffith.
Il saggio, inoltre, si pone come scopo quello di identificare e di spiegare le
possibili convergenze tra cinema e teatro senza farne una storia o un'analisi
cronologiche, ma semplicemente scegliendo come esempio i film dove tali
caratteristiche sono sfruttate al meglio o nel modo più evidente. Non si avrà, quindi,
una storia del rapporto cinema- teatro, ma una codifica di tutte le possibilità che tale
rapporto offre.
Per facilità di cose ci si concentrerà su esempi derivanti dal cinema cosiddetto
occidentale, poiché il cinema orientale è colmo sì di riferimenti teatrali, ma
ovviamente legati alla tradizione di quella cultura, complessa, vastissima e
diverissima dalla nostra al punto che solo chi abbia compiuto studi approfonditi in
merito ad essa possa riconoscere e, dunque, individuare in maniera consapevole e
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corretta eventuali convergenze.
Ma quali sono le possibilità di incursioni del teatro nel cinema?
Per dare, innanzitutto, una definizione precisa delle convergenze, possiamo dire
che esse sono situazioni in cui nell'elemento cinematografico si inseriscono elementi
di derivazione teatrale. Tali convergenze possono essere classificate come dirette o
indirette e possono essere nuovamente suddivise in estese, quando interessano tutta
la pellicola, o particolari se riguardano solamente un numero limitato di scene.
Avrò convergenze dirette quando il teatro è richiamato in modo concreto, preciso,
consapevole e funzionale al film o ad una sua scena e tale richiamo è palese e
facilmente riconoscibile da ogni spettatore. Esse si possono suddividere in sette
sottocategorie:
1) convergenza diretta letteraria, ossia la sceneggiatura del film è la
trasposizione di un'opera teatrale o una sua rivisitazione;
2) connvergenza diretta analitica, ossia il teatro, i suoi protagonisti e il suo
ambiente sono analizzati mediante il film;
3) convergenza diretta di ambientazione, ossia i protagonisti del film sono attori e
la vicenda si svolge all'interno dell'ambiente teatrale, ma la trama della pellicola
devia dall'analisi di quel mondo e lo sfondo è usato per fini legati solamente alla
storia di per sé;
4) convergenza diretta di luogo, quando il teatro inteso come edificio è
l'ambientazione di alcune scene del film, ma nessun personaggio appartiene al
mondo dello spettacolo e nulla di tale mondo è realmente raccontato nel film;
5) convergenza diretta scenografica, quando il teatro è richiamato mediante l'uso
di scenografie evidentemente finte e così realizzate con un preciso intento artistico;
6) convergenza diretta recitativa, cioè il teatro è richiamato mediante una voluta
recitazione da palcoscenico applicata invece al set;
7) convergenza diretta musicale, cioè il film utilizza note musiche del repertorio
teatrale, in questo caso di quello lirico;
8) convergenza diretta totale, quando nel film vediamo una rappresentazione
teatrale filmata così com'è messa in scena;
Avrò, invece, delle convergenze indirette quando il teatro è richiamato da
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elementi che non sono rilevabili semplicemente osservandolo, ma o presumono una
cultura di base da parte dello spettatore oppure riguardano le persone che hanno
lavorato alla pellicola e non il prodotto finale in sè.
Esse sono divisibili in quattro sole sottocategorie:
1) convergenza indiretta registica, ossia il regista del film è una figura impegnata
anche nell'ambito teatrale;
2) convergenza indiretta attoriale, ossia l'attore del film è anche un attore da
palcoscenico;
3) convergenza indiretta letteraria, quando lo sceneggiatore del film è uno
scrittore di teatro;
4) convergenza indiretta di allestimento, ossia a lavorare sul set sono
collaboratori teatrali, ad esempio per costumi, luci o scenografie;
Un simile schema, è palese, appare abbastanza articolato e complesso e
sicuramente le definizioni non sono mai esaustive quando si parla di fenomeni
artistici. Per questo motivo, tale saggio intende analizzare singolarmente ognuna di
queste convergenze e analizzare come, quando, da chi e perchè sono state applicate a
un particolare film.
Appare evidente, a questo punto, come sia necessario selezionare i casi più
esemplificativi e dare spazio, quando possibile, a pellicole note: trattare tutti i film
che contengano incursioni teatrali in un unico volume ci appare non solo uno sforzo
troppo grande e superfluo, ma alla lunga anche inutilmente tedioso per il lettore.
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