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climatici o geologici.
Per altri autori (Stock ,1977, Botosaneanu & Holsinger, 1991) il passaggio da
acque marine ad acque sotterranee è avvenuto in modo passivo in seguito a
regressioni marine, eventi paleogeografici e climatici, che avrebbero portato gli
antenati marini alla colonizzazione, prima dell’ambiente interstiziale e
successivamente di quello delle acque sotterranee. Anche se, prudentemente, Stock
non entra nel merito della colonizzazione attiva o passiva, ma propone che, essendo
gli animali stigobi forme relitte, si siano trovate in condizione di poter colonizzare gli
ambienti ipogei a seguito di regressioni marine.
Altri autori ancora (Boutin & Coineau,1990), riuniscono i due filoni di
pensiero precedenti in un modello, il «Two step model of evolution» che, ripreso in
parte anche da altri autori (Notemboom, 1991) prevede la colonizzazione, da parte
del progenitore marino, degli ambienti acquatici ipogei attraverso due transizioni,
una orizzontale ed una verticale. Dopo una colonizzazione delle acque dolci
superficiali (transizione orizzontale), è prevedibile una seconda fase (transizione
verticale) di penetrazione nell’acquifero sotterraneo.
Alternativamente , altre popolazioni possono aver usato prima una transizione
verticale, nel passaggio da forme marine di superficie a forme interstiziali marine o
litorali e solo successivamente aver operato una transizione orizzontale colonizzando
le acque dolci sotterranee. (Fig. 2)
7
Fig. 2: Two Step Model of Evolution(da Boutin & Coineau, 1990, modificato).
Ogni transizione è resa possibile da un certo numero di preadattamenti e da
un’attiva fase di ricerca di nicchie ecologiche libere.
La particolare specializzazione ecologica della famiglia Stenasellidae, la sua
distribuzione mondiale, la mancanza di parenti epigei ed alcuni caratteri plesiomorfi
(esopoditi rudimentali sulla seconda antenna, due pleoniti liberi e ben sviluppati),
suggeriscono che la separazione dal presumibile capostipite ancestrale, deve essere
avvenuta in tempi molto remoti ed a seguito di eventi paleogeografici e climatici
(Magniez, 1981, 1999, Messana et al, 1995, Ketmaier et al, 1998, 1999, 2000).
Il Genere Stenasellus, Dollfus 1897, è presente nelle regioni Paleartica, Afrotropica
ed Orientale.
La fauna europea comprende diverse specie appartenenti al genere Stenasellus (da
Botosaneanu, 1986):
• Stenasellus virei Dollfus 1897, con quattro sottospecie (S.virei buchneri
Stammer, 1936, S.virei angelieri Magniez, 1968, S.virei boui Magiez,1968,
8
S.virei hussoni Magniez, 1968) distribuite nella Francia Sudoccidentale e nel
Nord della Spagna.
• Stenasellus buili Remy, 1949, in Francia meridionale.
• Stenasellus bragai Magniez, 1976, Stenasellus escolai Magniez 1976, Stenasellus
magniezi Escolà, 1976, nel Sud della Spagna.
• Stenasellus galhanoae Braga, 1962 e Stenasellus nobrei Braga, 1942, in
Portogallo.
• Stenasellus racovitzai Razzauti, 1925, in Toscana, Sardegna e Corsica,
• Stenasellus nuragicus Argano, 1968, Stenasellus assorgiai Argano, 1968, in
Sardegna.
Stenasellus racovitzai fu rinvenuto per la prima volta in Toscana nel 1923 da
Razzauti in una grotta denominata «Buca del Danese» nei pressi di Roselle (Gr).
Successivamente a partire dagli anni ’50 sono
stati ritrovati altri esemplari in varie località della
Sardegna e della Corsica (Magniez, 1981), sia in
ambienti carsici che freatici, fino agli ultimi
ritrovamenti in Toscana, nel «Fontanile dei
Cavalleggeri», all’interno del Parco Regionale
della Maremma (Gr). Gli individui delle
popolazioni del gruppo racovitzai non differiscono
tra loro, e sono state tutte deteminate come S.
racovitzai da Magniez (1976).
Fig.3: Stenasellus racovitzai,
Razzauti 1925
9
Come Stenasellus virei, Dollfus 1897, una
specie presente in Francia, S. racovitzai viene
considerata una specie politipica comprendente più
linee isolate geograficamente da molto tempo, ed è
una forma soprattutto interstiziale ed
eccezionalmente cavernicola (Magniez, 1976).
La distribuzione attuale di S. racovitzai è
probabilmente dovuta ad eventi paleogeografici, che
portarono l’antenato Stenasellidae presente in
Francia meridionale, prima a colonizzare la microplacca Sardo-Corsa e
successivamente la Toscana (Magniez 1981, 1983, Messana et al.,1995, Ketmaier et
al, 1998, 1999, 2000).
1.2 CENNI PALEOGEOGRAFICI
La distrubuzione odierna di S.racovtzai è ad eventi paleogegrafici che hanno
caratterizzato il Mediterraneo nel corso del Terziario (65 – 3,4 milioni di anni fa, ma)
e durante le fasi glaciali plio-pleistoceniche (5,2 – 1,64 ma). Per meglio comprendere
come questi animali si siano distribuiti, dobbiamo analizzare, brevemente, gli eventi
paleogeografici che hanno interessato l’area Mediterranea, in particolare della parte
Tirrenica, dal Terziario ad oggi.
I biogeografi della fine dell’ottocento, notarono che la fauna delle isole
maggiori del mediterraneo presentava alcune similitudini con quella delle zone
costiere continentali. L’ipotesi, che fu proposta all’epoca, prevedeva l’esistenza nel
Terziario di un vasto continente, la Tirrenide (60,5 ma), che copriva quasi tutta l’area
Fig.4: Distribuzione odierna di S.
racovitzai
10
occidentale del Mediterraneo, connettendo tra di loro Africa settentrionale, Europa
sud occidentale, Corsica, Sardegna, l’arcipelago toscano e parte della Toscana
(Forsyth Major, 1882, 1883), la cui disgregazione sarebbe avvenuta nell’Aquitaniano
(23.3 - 21.5 ma), cioè nel Miocene inferiore (Furon, 1950, 1951, 1959). A sostegno
di questa ipotesi esistono solo poche convalide. A partire dalla fine degli anni ’60,
nuove scoperte geofisiche hanno indotto a riconsiderare gli eventi geodinamici degli
ultimi trenta-quaranta milioni di anni (ma) con la seguente cronologia (Boccaletti et
al, 1990):
OLIGOCENE (35,4 – 29,3 MA)
Lo scorrimento della placca africana verso Est, rispetto all’Europa, provoca la
frammentazione della catena Alpidica, e di Baleari e Corsasardinia dall’Europa
meridionale, con conseguente migrazione di alcuni frammenti verso Sud e Sud-Est.
La Corsica e la Sardegna, collegate al massiccio Calabro-peloritano, si spostano
ruotando, in senso antiorario (30° per la Corsica e 64° per la Sardegna) staccandosi
dall’attuale Provenza. Evento che è probabilmente avvenuto nell’Aquitaniano ovvero
tra i 23,3 ed i 21,5 milioni di anni fa (Alvarez, 1972, 1974). Lo spostamento di queste
microplacche, ed il conseguente accumulo di materiale alla deriva, è la causa della
formazione della catena appenninica, al contatto con il promontorio Adriatico, e di
quella maghrebina al contatto con l’Africa. Le Alpi e l’Appennino non sono, in
questa fase, ben differenziati ma costituiscono un unico insieme montuoso. In
comunicazione, o immediatamente adiacente, all’Appennino è presente una grande
area calcarea sita nella zona oggi occupata dalle isole di Giannutri, Elba, Giglio ed
Argentario. Questa vasta area sprofondò nel Miocene superiore (Tortoniano, 10,4-6,7
11
ma) a seguito della tettonica distensiva tra Corsica e Toscana.
Fig.5: Rotazione della Microplacca Sardo-Corsica.
Al periodo corrispondente al Messiniano (Miocene superiore, 6,7-5,2 ma), si fa
risalire l’evento del prosciugamento del Mediterraneo. Tale fenomeno dovuto ad un
deficit idrico a causa della chiusura dello stretto di Gibilterra ad Ovest, della Tedide
ad Est e della fine dei collegamenti con l’Oceano Indiano a Sud-Est, trasformando il
Mediterraneo in un enorme lago. La chiusura ha avuto come conseguenza il
prosciugamento grazie ad una lenta evaporazione delle acque (Hsu et al., 1973).
Durante questo periodo noto come «crisi di salinità del mediterraneo», si aprirono
ampie connessioni terrestri tra appennino ed arcipelago toscano, e tra questo e la
Corsica.
PLIOCENE (5,2 - 3,4 MA)
Questo periodo è caratterizzato dal ripristino delle comunicazioni idriche tra
12
Mediterraneo ed Oceano Atlantico, grazie alla riapertura dello stretto di Gibilterra,
quindi in questa fase il Mediterraneo si riempie.
Durante la parte iniziale del Pliocene medio in Toscana è caratterizzata da una
fase marina regressiva. La Toscana in questo periodo si presenta essenzialmente
come una pianura, in corrispondenza delle fosse tettoniche riempite da sedimenti
marini del Pliocene inferiore. Questa pianura è alternata da alcuni rilievi, che sono le
antiche isole come, ad esempio, i Monti Livornesi. Non è ancora del tutto chiaro
quanto ad occidente si sia spinta questa regressione (Mazzanti, 1984).
QUATERNARIO (1,64 – 0,00 ma)
Il Quaternario ha avuto grande importanza nel caratterizzare flora e fauna
attuali, infatti, questo è il periodo delle glaciazioni, che hanno portato anche a
variazioni del livello medio delle acque del Mar Mediterraneo. Le glaciazioni sono
state un evento che ha modificato drasticamente l’areale di distribuzione delle specie
animali e vegetali, alcune scomparvero altre sono presenti oggi come forme relitte.
Non solo le glaciazioni caratterizzano il Quaternario, rilevanti sono anche i
movimenti tettonici di assestamento, movimenti sismici ed eruzioni vulcaniche
frequenti. È molto dubbia l’ipotesi che ci siano stati contatti tra Corsardinia ed Isola
d’Elba nel periodo pleistocenico (1,64 – 0,01 ma), dato che il canale tra loro è andato
incontro ad un graduale approfondimento a partire dal Miocene, e che le variazioni
del livello del mare non hanno superato i + / - 100-150m. La profondità marina
attuale, tra l’area sardo-corsa e l’Elba, è di circa 500m; non sembra possibile, quindi,
che una qualsiasi glaciazione possa aver messo in contatto le due terre. Il contatto, se
c’è stato, è avvenuto indirettamente e per un tempo limitato durante la glaciazione
13
Mindel, tramite l’isola di Capraia, date le basse profondità tra questa, l’Elba e Capo
Corso (dai 200 ai 358 m).
Per quel che riguarda la specie S. racovitzai, nel suo lavoro del 1983 Magniez,
propose l’ipotesi, secondo la quale, una popolazione progenitrice fosse presente
inizialmente in Provenza. Da qui sarebbe passata, in quelle che sarebbero poi
divenute la Corsica e la Sardegna. La microplacca si staccò, come detto,
nell’Aquitaniano (23,3 – 21,5 ma). In seguito alla rotazione, venne successivamente
(Pliocene, 5,2 - 3,4 ma) a scontrarsi con quelle che diventarono le isole fossili della
Maremma (Lanza, 1984), permettendo una continuità di falda e la colonizzazione
della Toscana meridionale da parte della popolazione ancestrale originaria,
differenziatasi, poi, in S. racovitzai. Nonostante siano molto difficili da trovare, i
rappresentanti di questa specie sono sicuramente (grazie alle loro caratteristiche
biologiche) degli indicatori della storia paleogeografica del mediterraneo (Magniez,
1981, Messana et al., 1995). Sono infatti forme relitte, stenoece, hanno una limitata
capacità di dispersione, un alto grado di specializzazione stigobia e come già detto
con caratteri morfologici primitivi.
Gli studi che sono stati effettuati precedentemente sulle popolazioni di
Sardegna e Corsica, sono state condotte con metodologie morfologiche ed
elettroforetiche, ormai affermate.
L’analisi morfologica classica non ha rilevato differenze sostanziali tra le
popolazioni di S. racovitzai di Sardegna, Corsica e Toscana.
Studi di tipo enzimatico sono stati effettuati sulla specie (Messana et al., 1995,
Ketmaier et al., 1998, 1999, 2000), in cui sono state confrontate le popolazioni
14
toscane con quelle sarde. Da questi è stata evidenziata una distanza genetica, D
ottenuta con l’indice di Nei (1978), tra le popolazioni sarde e le due popolazioni
toscane (D=1,05 – 1,305), queste ultime sono più vicine tra loro (D=0,177). Anche le
distanze tra le popolazioni toscane e quelle corse, determinate nel lavoro di Ketmaier
et al.(2000), sono notevoli in quanto variano da D=0,983 a D=1,280.
L’analisi di tipo elettroforetico è un’indagine dei patterns enzimatici che sono
espressioni della variazione dei geni che codificano le proteine. Le mutazioni a
carico dei geni codificanti per le proteine, come la maggior parte dei geni codificanti
tendono ad essere fissate molto lentamente, in quanto il mal o non funzionamento
anche di una sola di esse può compromettere la fitness. Le mutazioni tenderanno a
fissarsi, ovvero, ad essere ereditabili, solo se queste portano ad un effettivo vantaggio
all’animale o se avvengono nel genoma non codificante.
Esistono zone del DNA che non codificano, con tassi di mutazione più alti, che
non possono essere rilevate dalla tecnica elettroforetica.
È intuitivo il vantaggio di includere anche il genoma non codificante nelle
analisi, inoltre, le tecniche enzimatiche hanno necessità di un numero ed un
quantitativo di campione molto maggiore rispetto alle tecniche di indagine del DNA,
ed i campioni, nel nostro caso, non sono facili da reperire, anche in numero limitato.
Prendendo spunto dai lavori precedentemente citati, che hanno impiegato
tecniche allozimatiche, è stata sentita l’esigenza di valutare S. racovitzai alla luce di
tecniche molecolari che ne indagassero direttamente il genoma codificante e non.
15
1.3 ANALISI MOLECOLARE MEDIANTE TECNICA RAPD
L’analisi molecolare su DNA può essere effettuta con varie tecniche, ma
genomi sconosciuti, come quello di S. racovitzai, sono analizzati bene mediante la
tecnica RAPD (Random Amplified Polymorphic DNA).
La tecnica RAPD fu ideata e sviluppata, indipendentemente in due distinti
laboratori (Williams J.G.K. et al 1990, da Welsh & McClelland 1990). Questo
metodo era innovativo, perché in grado di valutare polimorfismi del DNA, attraverso
l’amplificazione di DNA genomico tramite PCR (Polymerase Chain Reaction)
utilizzando singoli primers di sequenza arbitraria.
In questa reazione il primer utilizzato si lega al DNA in due siti diversi dei
filamenti opposti e se il frammento compreso tra i due siti non è troppo lungo,
l’amplificazione produrrà quantità rilevabili di DNA. Quello che si ottiene
dall’amplificazione dei filamenti di DNA è una serie di filamenti di diverso peso
molecolare che sono poi evidenziati mediante elettroforesi su gel di agarosio. I
frammenti vengono discriminati sulla base del peso molecolare ed appaiono come
bande luminose alla radiazione utravioletta. L’insieme delle bande relative ad un
individuo costituiscono il pattern (o modello) di amplificazione caratteristico per
quel DNA e quel primer.
La tecnica prevede l’impiego delle bande basandosi sulla loro presenza/assenza
per determinare le distanze genetiche tra gli individui esaminati.
16
Fig.6: Legame Primer/Filamento di DNA.
Gli autori della tecnica l’hanno definita utile nel generare markers genetici, in
quanto discrimina i polimorfismi del DNA, mediante amplificazione casuale di
porzioni di DNA.
Polimorfismo significa la presenza per lo stesso gene, o porzione di DNA, di
due o più alleli, ovvero due o più forme alternative, con una frequenza tale che non
possono essere dovute a mutazione spontanea ricorrente (Polsinelli et al., 1992).
Sorgenti di polimorfismo possono essere mutazioni puntiformi, delezioni in
corrispondenza del sito di attacco del primer, inserzioni che rendono il sito di attacco
troppo distante per consentire l’amplificazione o inserzioni che rendono il segmento
differente in dimensioni senza impedire l’amplificazione.
I ricercatori che hanno inventato la tecnica, hanno effettuato studi relativi alle
caratteristiche degli oligonucleotidi utilizzati per innescare la reazione di
amplificazione. Dati importanti sono stati ricavati relativamente al contenuto in
Guanina (G) e Citosina (C) dei primers utilizzati nell’amplificazione; Williams et al
(1990) riportano nel loro lavoro esperimenti svolti con contenuti di G e C negli
oligonucleotidi che variavano da zero al 100%. La conclusione alla quale sono
arrivati è che il minimo contenuto di GC sufficiente per ottenere un’amplificazione
RAPD è del 40%, oltre ad una lunghezza minima del primer di nove nucleotidi.
Inoltre usando primers che differivano per un solo nucleotide, ottenevano patterns
17
diversi, diversità meno accentuata nel caso di sostituzioni in posizione 5’. Questo
dimostra che, analogamente, la mutazione di una singola base nei tratti del genoma,
ai quali il primer si attacca, può impedire l’amplificazione di questi, si viene a creare
cioè un disappaiamento tra le sequenze dei siti d’attacco del primer ed il primer
stesso.
Dopo l’uscita di questi articoli è iniziata una produzione molto ricca nel campo
della biologia molecolare relativamente all’uso dei RAPD. Uno dei primi lavori di
applicazione della tecnica a problematiche di carattere filogenetico, è quello di
Wilkerson et al. del 1993 nei Ditteri, in due specie del genere Anopheles. In questo
studio le due specie di laboratorio, che erano morfologicamente indistinguibili,
furono distinte sulla base del pattern RAPD. Gli autori, infatti, sono riusciti ad
utilizzare i RAPD per affermare una loro possibile recente separazione.
A fronte di un discreto numero di lavori pubblicati sull’applicazione della
tecnica RAPD sul subphylum Crustacea, sull’ordine degli Isopodi la letteratura non è
molto ampia, Dalens et al (1996) confrontarono tre diverse specie del genere
Oritoniscus (Isopoda) mediante la tecniche morfometrica, allozimatica e RAPD. I
dati RAPDs sono, in questo lavoro, presi in considerazione per concludere che le tre
specie, che vivono quasi in simpatria, sono ben distinte.
Baratti et al. (1999), hanno utilizzato la tecnica RAPD su Stenasellus
racovitzai, utilizzando cinque primers e confrontando entrambe le popolazioni
toscane con una corsa, determinando che le popolazioni della Toscana sono la stessa
specie e che geneticamente distano poco (D=0,175).
La validità della tecnica RAPD nello studio della variabilità genetica e
18
nell’analisi filogenetica di generi, specie o popolazioni, è stata valutata confrontando
i risultati di questa nuova tecnica con quelle già ampiamente in uso. Tibayrec M. et
al (1993) effettuarono su sei specie di protozoi parassiti una duplice indagine, la
prima tramite RAPD, la seconda con il metodo enzimatico multilocus tramite
elettroforesi. Il risultato cui pervennero fu quello di un’assoluta coincidenza delle
distanze genetiche (utilizzando l’indice di Jaccard) tra le varie specie, calcolate con i
due metodi.
1.4 VANTAGGI E SVANTAGGI DELLA TECNICA RAPD
Tra i vantaggi maggiori che si possono riconoscere alla tecnica sono
essenzialmente la possibilità di ottenere un’informazione genetica senza bisogno di
ulteriori informazioni sul genoma, e capacità di ottenere polimorfismi genetici, senza
una selezione a priori delle porzioni del genoma in studio. Infatti i patterns genetici
RAPDs riflettono variazioni sia nei loci codificanti che non, sia nei loci mitocondriali
(o del cloroplasto) che nucleari. Questo spesso aumenta la possibilità rilevare
differenze a livello intraspecifico, rispetto ad esempio, a tecniche come l’elettroforesi
di allozimi (Isabel et al., 1995, Nusser et al., 1996; Thomas et al., 1997, , Buso et al.,
1998, Jenczenski et al., 1999). In pratica con questa tecnica vengono amplificate
delle porzioni genomiche che rimangono sconosciute, a meno che non si proceda con
ulteriori analisi molecolari.
Fino alla messa a punto della tecnica RAPD, i metodi molecolari disponibili,
per evidenziare polimorfismi genetici, erano, molto laboriosi (ad esempio RFLP con
Southern blotting) e richiedevano informazioni a priori del DNA in studio, con costi
19
spesso proibitivi.
I prodotti dell’amplificazione ottenuti con il metodo RAPD sono porzioni
anonime di DNA, dato che i primers amplificano qualsiasi DNA a prescindere dalla
provenienza, ovvero impurità, infezioni e parassiti eventualmente presenti nei
campioni da cui è stato estratto. Questo, può non creare problemi se il DNA
indesiderato, eventualmente presente, è sufficientemente diluito.
Un’obiezione che sovente viene sollevata, sull’impiego dei primers RAPD
come markers, è la riproducibilità, base fondamentale di ogni ricerca scientifica. Per
poter essere accettato, il pattern di un primer, deve essere confermato da almeno atre
due reazioni successive. Wilkerson R.C. et al (1993) sollevarono il problema della
scelta dei markers adatti; infatti, non tutti i primers decameri con alta prevalenza di
Guanina e Citosina possono essere utilizzati nell’analisi RAPD. Spesso, i primers
sono scelti dopo uno screening iniziale, solo se riproducibili, ed utilizzati quindi
come markers. In caso di assenza di bande comuni tra due specie molto affini o tra
due popolazioni della stessa specie, il primer, secondo gli autori, non dovrebbe essere
impiegato come marker.
Jones et al nel 1998, effettuando prove RAPDs, rigidamente alle stesse
condizioni, in nove laboratori diversi sparsi per l’Europa, trovarono che non si
produceva sempre lo stesso pattern, concludendo che la tecnica in questione ha sì
molte applicazioni ma che non può essere utilizzata nei laboratori che necessitano di
scambiarsi dati o farne dei collage; gli autori aggiungono che non è facile ottenere la
riproducibilità se viene cambiato il materiale di consumo, oppure il personale.