Introduzione
Il Novecento è certamente il secolo della rivoluzione temporale. A partire dal dibattito tra
positivisti e spiritualisti, per terminare con la rivoluzione informatica, mai il tempo è stato così
vicino (nella storia dell’uomo) agli interessi di così tante discipline: dalla filosofia alla fisica
quantistica, dall’arte alla psicologia. Il XX secolo scinde il sacro dal divino, l’autentico
dall’inautentico, l’artificiale dal naturale, la coscienza dalla conoscenza, la realtà dalla verità.
Cambiamenti radicali, significativi, emblematici. Comune denominatore è la progressiva
trasformazione della società occidentale, sospinta dalla sete di modernità, tecnologia e
conoscenza. Quelli della Belle époque sono gli anni delle nuove scoperte scientifiche e del
progresso. Ma la cieca fiducia nell’intelligenza umana è stata ripagata con la violenza delle
ideologie e la sconfitta paradossale di qualsiasi processo puramente conoscitivo. Il progresso,
erede diretto della conoscenza, ne ha acquisito i principi: accumulo e sostituzione. Esso non può
intendere il miglioramento e la novità che come verità che si rinnovano di continuo nel futuro.
Ma la verità, come vedremo, è tale solo nella sua unità: non è mai parte di qualcosa. La novità,
al contrario, necessita di almeno un riconoscimento reciproco per essere introdotta nel
meccanismo infinito del nuovo-vecchio. Essa è un rapporto, non una determinazione. Da ciò
deriva il senso di progressione, di avanzamento e cambiamento che in qualche modo ha
alimentato come un fuoco inestinguibile il mito del progresso. La verità, invece, dal momento
che non intrattiene nessun tipo di relazione, e non possiede un contenuto ma è essa stessa
contenuto, non può mai essere una novità.
La pretesa di verità più evidente, nel periodo della tarda modernità, l’uomo l’ha espressa nei
confronti del tempo. In questo studio l’attenzione è rivolta all’evoluzione del concetto di
temporalità all’interno dell’ambito filosofico-letterario, con particolare riferimento all’opera di
Marcel Proust e Winfried Sebald. Lo scrittore francese introduce per primo questi temi
nell’ambito della letteratura colta del ventesimo secolo, diventando di fatto il precursore di un
filone piuttosto ampio di autori che si sono interessati, dopo di lui, al medesimo concetto. Al
fine di comprendere quanto questo tema abbia attraversato tutto il Novecento, tuttavia, non è
sufficiente arrestarsi alla Recherche. Le opere di Sebald, infatti, permettono di attraversare
l’evidente frattura di metà secolo. Austerlitz non sembra trattare un periodo di appena qualche
decennio successivo ai primi anni venti del Novecento. Agli occhi dei lettori di Proust, tutt’al
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più, sarebbe apparso come un panorama apocalittico scatenato da chissà quale malsana fantasia.
Invece Austerlitz è un personaggio non troppo lontano dalla riflessione proustiana: anch’egli in
cerca della verità, anch’egli assalito da “attimi rivelatori”, e pervaso da quel sentimento del
tempo che caratterizza ogni istante della sua vita. Non diversamente che nella Recherche, nel
testo di Sebald il tempo e l’immagine compiono assieme il percorso che porta al tempio
celebrativo della coscienza. In entrambe le opere l’intelligenza non è più solo strumento, ma
limite del conoscibile: un limite riconosciuto non tanto nella dialettica tra il noto e l’ignoto, ma
nel rapporto di interrogazione e possesso che intrattiene con il mondo. La conoscenza, dunque,
non è mai senza ‘peccato’ nei confronti della verità. L’egoismo del ricordo di cui parla Proust
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porta infatti il marchio dell’intelligenza: il ricordo è un prodotto, ma la verità non è
riproducibile. La tarda modernità vede gli albori di una verità priva dell’aura sacra della
teologia: la progressiva secolarizzazione ha lasciato il posto alla fede nella scienza e nel
progresso come nuovi orizzonti conoscitivi del reale. Il metodo empirico è stato promosso a
strumento per stabilire la veridicità di una qualsiasi teoria scientifica: tuttavia la scienza in
questo caso è rimasta abbagliata dall’efficacia di una verità eventuale. Vuole l’empirismo, per
esempio, che l’interazione tra due elementi genera l’evento x. Al verificarsi sistematico di x, si
potrà affermare che la teoria è vera. Tuttavia questo processo annega nella logica in cui è nato:
tutto ciò che dimostra è la possibilità che l’intelletto umano ha di produrre, attraverso il
principio della conoscenza, una veridicità eventuale che si manifesta all’assottigliarsi delle
distanze tra il pensiero ipotetico e l’evento che si verifica. Quando l’enunciato è confermato
dall’evento, allora l’empirismo accumula o sostituisce una conoscenza.
Di fronte alla concezione di una verità come quella a cui fa appello Proust, un sistema simile
non può che fallire: non solo l’empirismo non può nulla nei confronti di ciò che non è
quantificabile, ma oltretutto necessita di una natura eventuale che la verità assoluta non
possiede, dal momento che è libera dalla prigione del tempo, e liberi in essa sono i suoi
contenuti. Proust parla in nome di una verità che non spetta all’intelligenza, che rifiuta il
possesso, l’interpretazione e la quantificazione. In altre parole una verità che è unità e non
metodo: ciò distingue la scienza empirica dalla verità assoluta.
Eppure questo non spiega il passaggio dall’utopia liberatrice della Recherche – che
sembrerebbe, attraverso il caso e la fortuna, mettere il cuore in pace alla metafisica intesa come
«[…] il y a toujours moins d’égoisme dans l’imagination pure que dans le souvenir[…]». M. Proust, Sodome et
1
Gomorrhe, Gallimard, 2012, Paris, p. 151.
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filosofia della verità - alla distopia apocalittica di Austerlitz. Se è vero che Proust ha avuto il
merito di trovare uno spiraglio aperto sulla verità, nel bel mezzo della crisi dell’intelligenza, e
che questo spiraglio è universalmente valido per la Recherche (1913 - 1927) quanto potrebbe
apparentemente esserlo per Austerlitz (1999), allora per quale motivo liberarsi dalla prigione del
tempo non rappresenta più l’utopia ultima dell’uomo nel romanzo di Sebald?
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1.1 Alchimia del mondo moderno
Uno sguardo d’insieme.
Segnare l’inizio e la fine della modernità non è un compito semplice. Alcuni aspetti e alcune
dinamiche simili a quelle moderne sono infatti rintracciabili in tutta la storia umana (nel
passaggio dal nomadismo all’agricoltura, nel periodo della rivoluzione scientifica, o in quello
della riforma protestante, per esempio). Probabilmente sarebbe più opportuno chiedersi se
parlare di modernità significhi parlare di un evento risolto in un dato arco temporale
(indicativamente dal XVIII secolo al XX secolo), le cui propaggini si sono espanse tanto
nell’anticiparla quanto nel ricordarla; oppure se la si possa intendere come una serie di
componenti - uno stato di cose in presenza di un assetto mentale e spirituale - capaci di
caratterizzare un determinato passaggio nella storia umana. Se così fosse, significherebbe essere
dotata di capacità transitorie e situazionali, le quali verrebbero richiamate da periodi storici
critici: grandi cambiamenti, scoperte, invenzioni, guerre e disastri. Non più un età della storia
dell’uomo, ma una peculiare situazione che lo accompagna a cavallo di importanti
stravolgimenti. Ciò che, secondo alcuni storici e pensatori del XX secolo, ha segnato il
passaggio dalla modernità alla post-modernità, è stato, tra le altre cose, il superamento di
quell’inscindibile e necessario sistema di opposti che ne hanno caratterizzato, come vedremo,
tutto l’arco storico che ha occupato.
Al fine di questo elaborato, la modernità può essere intesa, così come la intende Marshall
Berman , come un fenomeno in divenire: una fase pre-moderna ( XVI – XVIII secolo, in cui si
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assiste al trauma che ‘prepara’ l’avvento della modernità, cioè la capitolazione di quella
convinzione esistenziale che poneva l’uomo al centro dell’universo), la modernizzazione
(XVIII – XIX secolo, i secoli ‘rivoluzionari’) e la fase performativa (XX secolo, là dove la
modernità in quanto tale era percepibile nell’atto di pragmatizzazione delle grandi ideologie,
prima fra tutte il Progresso). Ciò che viene sottolineato dalla sua opera, il cui titolo rimanda a
una frase di Marx, «tutto ciò che è solido svanisce nell’aria», contenuta all’interno del
Marshall Berman insegna Scienza politica nella City University di New York. Tra i suoi libri The Politics of
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Authenticity (1970) e Adventures in Marxism (1999).
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Manifesto del Partito Comunista , sono due particolari punti: il primo vuole mettere in luce una
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forte dicotomia tra il fenomeno della modernità e i suoi soggetti; un dislivello capace di rendere
inadatti i suoi stessi elementi attivi, motivo per cui nascerà il concetto e il fenomeno di
“spaesamento”. Il secondo punto rende nota la natura dinamica della modernità, la quale,
manifestandosi nella ‘modernizzazione’ come una «condizione di perpetuo divenire» nel XX
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secolo, colloca i suoi soggetti su due piani distinti: il primo, il mondo ‘antico’, a cui
originariamente appartengono avendone piena memoria, trovandosi con esso in un contesto di
abbandono, e il secondo, dinamico, inarrestabile, non educato al ritmo naturale dell’uomo. In
una parola autonomo. Nasce infatti, nel diciannovesimo secolo, il tempo artificiale del lavoro in
fabbrica, e si sviluppa lo stile di vita cittadino:
Con la rivoluzione francese e le sue ripercussioni, viene improvvisamente e
drammaticamente alla luce un grande pubblico moderno. Questo pubblico è
accomunato dalla sensazione di vivere in un’epoca rivoluzionaria, in un’epoca
che produce esplosivi capovolgimenti in ogni dimensione della vita personale,
sociale e politica. Nello stesso tempo, il pubblico moderno del diciannovesimo
secolo è in grado di ricordare cosa significa vivere, sul piano materiale e non
meno che su quello spirituale, in un mondo che non sono affatto moderni. Da
questa intrinseca dicotomia, da questa sensazione di star vivendo
contemporaneamente in due mondi, scaturiscono e si palesano i concetti di
modernizzazione e modernismo.
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Sintomatico è l’utilizzo del termine «pubblico»: indica una precisa posizione dell’uomo nei
confronti di questi cambiamenti. Si tratta di rendere noti quei meccanismi inarrestabili e
rivoluzionari del mondo, dove i soggetti stessi sembrano essere racchiusi in un processo
chimico di elementi noti, i quali, messi a contatto, non possono fare altro che reagire. Il
pubblico e la sostanza, nella modernità, coincidono. Questo non significa certamente dover
cadere nell’illusione secondo cui, in quanto frutto di una precisa situazione, la Storia come tale,
al pari di una perfetta equazione scientifica, non possa che svolgersi in una data maniera.
Berman anzi allontana, sconfessa la possibile attendibilità di questa asserzione mettendo in luce
quella dicotomia, quella disparità tra elemento e reazione, tra soggetto e azione, che rende
imprevedibile qualsiasi probabile e sicura interpretazione della modernità a priori: ciò che è
K. Marx F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, 2005,Torino, p. 14.
3
M. Berman, Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria, Il Mulino, 2004, Bologna, p 26.
4
Ivi, p 27.
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