disciplina dell'ingresso al mercato del lavoro, riformata la legge 19
luglio 1994, n. 451 e toccata anch'essa dalla L. 196/97 che, introdotta
con finalità di incentivazione all'occupazione giovanile, si è
dimostrata uno degli strumenti di flessibilità più riusciti e
maggiormente utilizzati, soprattutto in virtù del contenimento del
costo del lavoro che riesce a realizzare.
Le problematiche generali della retribuzione saranno l'oggetto del
secondo capitolo, il quale descriverà l'evolversi della considerazione
del concetto di obbligazione retributiva, con particolare riguardo al
superamento del concetto di omnicomprensività, ritenuto propedeutico
all'affermazione delle nuove forme di retribuzione flessibile nel cui
ambito si colloca, in posizione primaria, la c.d. retribuzione variabile.
Tale ultimo concetto verrà qui analizzato principalmente alla luce
della sua introduzione ad opera del Protocollo sulla politica dei redditi
e dell'occupazione, del 23 luglio 1993 e del suo recepimento ad opera
dei contratti collettivi di livello nazionale e di livello aziendale.
Il terzo capitolo sarà dedicato all'analisi del principio di retribuzione
sufficiente e proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato,
introdotto dall'art. 36, 1° comma, Cost., ponendo innanzitutto in
evidenza le vicende storiche che hanno caratterizzato l'interpretazione
e l'applicazione della norma costituzionale ed il suo approdo alla
considerazione principale del riferimento ai contratti collettivi di
diritto comune, quale preferibile parametro per la determinazione
dell'equa retribuzione.
Tale percorso attraverserà i principali orientamenti della dottrina in
relazione al rapporto tra retribuzione sufficiente e retribuzione
proporzionale e le principali correnti giurisprudenziali che si sono
affermate in un intero cinquantennio, fino a giungere alle attuali
posizioni dei giudici di legittimità.
Attenzione particolare verrà in questa sezione prestata alla soluzione
dei problemi connessi alla necessaria estensione delle clausole dei
contratti collettivi ai rapporti di lavoro non regolati direttamente da
alcuna pattuizione, o le cui clausole retributive siano ritenute in
violazione del riportato precetto costituzionale. Un'ultima nota sotto
questo profilo riguarderà anche l'eventuale illegittimità costituzionale
dello stesso contratto collettivo.
Da ultimo si passerà a valutare, con semplice intento descrittivo, il
principio della parità di trattamento retributivo, anch'esso frutto di una
particolare interpretazione dell'art. 36 Cost.
Nel quarto capitolo si tratterà, a seguito delle precedenti
argomentazioni, della determinazione giudiziale della retribuzione,
attuata ai sensi dell'art. 2099 cod. civ., con la specifica considerazione
di come la giurisprudenza si sia nel tempo orientata nel dare rilievo
alle condizioni socio-economiche territoriali.
Si esaminerà dapprima l'evoluzione, dottrinale e giurisprudenziale,
dell'interpretazione dell'art. 2099 cod. civ. e le modalità in cui esso è
divenuto strumento per l'applicazione, individuale ed in via giudiziale,
dell'art. 36, 1° comma, Cost., in modo da giungere ad individuare
quegli elementi oggettivi e soggettivi rilevanti per poter
eventualmente giustificare uno scostamento dalle previsioni dei
contratti collettivi di diritto comune, attuato, in particolar modo, in
ragione delle condizioni territoriali e del mercato del lavoro proprie di
un'area geografica determinata.
In tale passaggio uno spazio particolare sarà dedicato alla divisione,
dominante in passato ma tuttora esistente, tra le decisioni e le
argomentazioni dei giudici operanti nelle regioni meridionali del
Paese e quelli operanti nel centro-nord. I primi, risentendo
probabilmente della depressa realtà in cui sono chiamati a svolgere il
loro ufficio, mostrano infatti un minore interesse nel senso della
considerazione del contratto collettivo quale parametro adeguato per
la determinazione della giusta retribuzione; cercheremo, sotto questo
profilo, di comprendere i motivi e, comunque, di valutare questo
atteggiamento.
L'ultima parte del capitolo andrà ad analizzare i principali
orientamenti della dottrina in relazione proprio alla estensione
dell'efficacia del contratto collettivo di diritto comune ed alla, non
unanimemente condivisa, possibilità di modulare la retribuzione in
ragione delle differenti condizioni territoriali riscontrabili in concreto.
In tale sezione verrà inoltre analizzata, l'eventualità, che la
differenziazione salariale sia attuata a livello collettivo, tramite la
contrattazione di ambito territoriale. Questa impostazione è infatti
ritenuta preferibile rispetto alla non considerazione della variabilità
del concetto di retribuzione sufficiente in base al luogo in cui la
retribuzione viene ad essere spesa ed ai rischi insiti nell'attribuzione al
giudice di una discrezionale, ed esclusiva, valutazione delle
condizione che influenzano la determinazione quantitativa dei salari.
Il quinto capitolo chiuderà la dissertazione e sarà dedicato ai nuovi
strumenti di politica attiva del lavoro, introdotti nell'ordinamento negli
ultimi anni, o comunque recentemente ridisegnati, a seguito del
fondamentale Patto per il lavoro del 24 settembre 1996.
Questi istituti, rappresentati principalmente dal contratto di
riallineamento retributivo, dal contratto d'area, dal patto territoriale e
dagli altri strumenti di programmazione negoziata, sono stati proposti
con l'intento di favorire l'occupazione tramite la predisposizione di
una politica di contenimento del costo del lavoro e di maggiore
flessibilità nel rapporto di lavoro, nonché con la previsione di
investimenti finalizzati a promuovere lo sviluppo imprenditoriale nelle
aree più depresse del paese.
Maggiore rilievo sarà attribuito al contratto di riallineamento,
attualmente disciplinato dal combinato disposto dell'art. 5 della L.
608/96 e dell'art. 23 della L. 196/97, avente principalmente la finalità
di far emergere il c.d lavoro sommerso, attuata tramite la concessione
alle imprese della possibilità di ridurre temporaneamente i minimi
retributivi fissati in sede nazionale e, nonostante questo, di usufruire
delle agevolazioni fiscali e contributive.
Gli altri strumenti offrono infatti, nonostante le intenzioni delle parti
sociali, minori possibilità di flessibilizzazione retributiva e, sotto
questo profilo sarà da ultimo analizzata la previsione legislativa che,
regolando i contratti d'area, ha esplicitamente introdotto il divieto di
fissare le retribuzioni in misura inferiore all’importo stabilito da leggi,
da regolamenti, da contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni
sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero dagli accordi
collettivi od individuali che stabiliscano un ammontare superiore.
CAPITOLO 1
LA FLESSIBILITA’ DEL RAPPORTO DI LAVORO
SOMMARIO: 1.1 – La flessibilità: nozioni. 1.2 – Tipologie di occupazione flessibile. 1.2.1 – La
flessibilità delle mansioni del lavoratore. 1.2.2 – La flessibilità della gestione temporale del
rapporto di lavoro. 1.2.3 – La flessibilità dell'ingresso nel mercato del lavoro.
1.1 – La flessibilità: nozioni.
Di flessibilità del lavoro si è cominciato a parlare in via sistematica
nei primi anni ‘70 ed in modo più insistente negli anni
immediatamente successivi. Tale termine indica in realtà un insieme
di fenomeni che individuano il grado di adattabilità del sistema
aziendale al manifestarsi dei mutamenti di mercato.
Possiamo in prima battuta distinguere tra una flessibilità tecnologica
che si riferisce ai caratteri di adattabilità e polivalenza degli impianti e
delle tecniche produttive delle aziende; una flessibilità dei lavoratori
riferita alla propensione di tali soggetti a cambiare tipo di occupazione
e di mansioni all’interno dell’impresa; una flessibilità giuridico-
amministrativa da intendersi come una maggiore possibilità per il
datore di lavoro di gestire i rapporti con i lavoratori e le loro garanzie
negoziali, compresa anche una maggiore facilità di licenziamento; una
flessibilità retributiva riguardante la possibilità per le imprese di
variare e modulare i salari in funzione della situazione economica
generale e di quella particolare dell’azienda; una flessibilità degli
oneri sociali e fiscali da intendersi come la parziale sottrazione da
parte dell’impresa agli oneri fiscali e contributivi tramite il ricorso a
forme di utilizzo della manodopera alternative all’assunzione di un
lavoratore dipendente; una flessibilità organizzativa relativa alla
capacità dell’impresa di adattare e modificare i sistemi di direzione e
di produzione interni ad essa; una flessibilità temporale, infine, intesa
come l’adattabilità e la modificabilità degli standard temporali interni
all’azienda.
L’elemento comune a tali fenomeni è quello di essere tutti comunque
legati alla necessità, dettata da esigenze produttive, di affievolire le
tutele prestate dall’ordinamento ai lavoratori dipendenti, generalmente
con l’obiettivo di realizzare “una strategia di aggiramento della
maggiore delle rigidità normative del rapporto di lavoro, e cioè la
limitazione del potere di recesso del datore di lavoro”
1
. La
convinzione sottostante, alla base delle considerazioni esposte, è che
questo sia l’unico possibile compromesso tra l’aumento della
competitività delle imprese e la diminuzione del livello di
disoccupazione.
Il concetto di flessibilità va dunque a contrapporsi a tutti quegli
elementi legali e contrattuali che garantivano il lavoratore nei
confronti dello strapotere economico e sociale del datore di lavoro e
1
Così G. SANTORO PASSARELLI, Rigidità e flessibilità nella disciplina del rapporto di lavoro, in
MGL, 1998, n.2, p. 356.
che sono stati ritenuti colpevoli di irrigidire eccessivamente il sistema
produttivo.
Furono ovviamente le imprese a porre in essere una prima domanda
di flessibilità, chiedendo sostanzialmente un minor costo del lavoro ed
una maggiore governabilità della forza lavoro. La situazione c.d. di
emergenza, propria del panorama sociale dell’epoca, generata dal
soprattutto dal preoccupante aumento del livello di disoccupazione,
convinse però ben presto sia il legislatore che le stesse organizzazioni
dei lavoratori, a riconoscerne la necessità. Si trattò dapprima
dell’esigenza di interventi straordinari i quali si sono successivamente
trasformati in una vera e propria strategia, tendente sia alla
promozione delle opportunità di impiego della forza lavoro, cui si
tentava di offrire maggiori possibilità, che allo stimolo alla domanda
di manodopera da parte delle aziende, tramite la soppressione di
alcuni vincoli.
In conseguenza di tale nuova situazione il tema della flessibilità
divenne ben presto il terreno principale di negoziato tra i sindacati dei
lavoratori ed i rappresentanti dei datori di lavoro, negoziati cui
successivamente si aggiunsero anche gli organi governativi. Accanto
ai negoziati salariali si arrivò a quella che è stata definita
contrattazione di concessione, pratica che nel tempo ha portato alla
perdita di quei diritti dei lavoratori che erano visti come rigidità ed a
cui erano come detto imputate le colpe dei molti mali che affliggevano
l’economia e lo stato sociale quali, fondamentalmente, la riduzione del
tasso di sviluppo e l’aumento del tasso di disoccupazione.
In sostanza si sono riconosciute come pienamente legittime le
richieste imprenditoriali e si è ritenuto che solo dando la possibilità
alle imprese di gestire in maniera più semplice, più flessibile per
l’appunto, la manodopera, collegando maggiormente la sua
utilizzazione e la sua retribuzione alle necessità della produzione e del
mercato, queste avrebbero potuto essere più competitive, più
produttive ed anche più capaci di assumere nei momenti di necessità
generati da fasi espansionistiche del mercato, proprio in quanto più
libere di licenziare nei momenti di diminuzione della domanda.
Tale nuovo orientamento ha portato alla definizione di una nuova area
di rapporti lavorativi che sono andati allontanandosi dallo schema
classico del lavoro subordinato il quale prevedeva, fondamentalmente,
un rapporto a tempo pieno ed indeterminato destinato a durare per
tutta la vita lavorativa del dipendente.
Si sono così nel tempo avute deroghe alla regola della chiamata
numerica dei lavoratori, facilitazioni all’ingresso nel mondo del lavoro
tramite il nuovo contratto di apprendistato e quello di formazione e
lavoro, eliminazione degli automatismi che portavano alla crescita del
costo del lavoro, deroghe ai vincoli che restringevano eccessivamente
la possibilità di ricorso al contratto a tempo determinato, introduzione
del lavoro a tempo parziale, del c.d. contratto week-end e del job-
sharing
2
, particolari disposizioni sulla regolamentazione delle
eccedenze di personale e la estinzione del rapporto di lavoro, fino ad
arrivare alla recente introduzione, tramite la legge 24 giugno 1997, n.
196, del c.d. lavoro interinale.
2
Su questo particolare argomento si veda la recente pubblicazione di TIRABOSCHI, La disciplina del
job-sharing nell’ordinamento giuridico italiano, in DPL, 1998, n. 22, p. 1335.
Il problema che in questi ultimi anni si è posto in relazione a tali
modificazioni dell’ordinamento del lavoro, è stato fondamentalmente
legato al fatto che la vecchia organizzazione, e soprattutto tutti i diritti
dei lavoratori che avevano creato queste rigidità, erano stati il punto di
arrivo di una lunga evoluzione storico-sociale; occorreva quindi capire
come mai quelle caratteristiche del rapporto di lavoro - stabilità,
incentivazione tramite avanzamenti di carriera, retribuzioni non
associate alla produttività - che fino ad un certo momento erano
ritenute desiderabili, in seguito non lo fossero più in quanto
considerate elementi di rigidità.
Di certo le risposte a tale quesito possono essere molte, a seconda del
punto di osservazione dal quale si vuole iniziare a ragionare.
Dal punto di vista economico, del mercato, e quindi delle imprese,
occorre valutare i mutamenti che si sono avuti, anche grazie alle
innovazioni tecnologiche, nei modi di produzione; i primi segni della
c.d. flessibilità si sono infatti riscontrati proprio a livello di
organizzazione del ciclo produttivo che si è andato frammentando,
decentrando ed automatizzando, nella tendenza alla riduzione dei costi
di produzione, ritenuta necessaria per mantenere competitive le
aziende in un mercato sempre più internazionale. Nella corsa al
ribasso imposta dalla concorrenza aveva ovviamente un ruolo
fondamentale il costo del lavoro che, nelle esigenze delle imprese,
doveva essere più collegato alla produzione effettiva, specie in un
momento di notevoli oscillazioni della domanda. Tutto ciò ha portato
ad aumentare l’interesse verso i rapporti a tempo parziale e
determinato, nonché alla sospensione o riduzione della retribuzione e
dell’orario di lavoro ed alla conseguente crisi del modello di rapporto
lavoristico che si era instaurato, ovvero quello “a tempo
indeterminato, stabile e di lunga durata, esclusivo e a tempo pieno,
capace di contenere nel suo involucro una carriera”
3
.
Dal punto di vista sociale, in special modo da quello dei lavoratori,
occorre invece valutare altri importanti fattori. Se è infatti vero che la
nuova organizzazione del lavoro porta ad una certa precarizzazione
del rapporto e ad una perdita di diritti per i lavoratori, è anche vero
che la tendenza verso un lavoro più libero, con orari meno vincolanti e
con possibilità di cambiare occupazione nel corso della vita lavorativa,
potrebbero sembrare situazioni allettanti e tali da giustificare le
rinunce ad altri diritti di cui precedentemente essi godevano. In realtà
tali osservazioni si mostrano eccessivamente superficiali e non
tengono conto di quella che deve essere considerata la vera necessità
del lavoratore dipendente, ovvero il ricevere in cambio della
prestazione lavorativa una retribuzione che gli permetta quella che la
Costituzione chiama “una esistenza libera e dignitosa” e che va vista,
più pragmaticamente, come la possibilità di compiere liberamente le
proprie scelte all’interno del mercato, possibilità questa che si realizza
soltanto attraverso il raggiungimento della sicurezza di una costante
disponibilità economica che può esser data sola dalla certezza di
mantenere stabilmente il proprio posto di lavoro, semmai con la
speranza di migliorarne le condizioni.
La posizione dei lavoratori si mostra quindi in netto contrasto con
quella del mercato e delle imprese, e difficilmente avrebbe potuto
3
Così GIUGNI, Il diritto del lavoro negli anni ’80, in DLRI, 15, 1982, p. 373 ss.
essere altrimenti. Tale contrasto, all’apparenza insanabile, si è nel
tempo attenuato esclusivamente per due ordini di ragioni, da una parte
lo spettro dell’incremento della disoccupazione ha reso i lavoratori ed
i loro rappresentanti più sensibili ai meccanismi economici e
dall’altra, sia a livello negoziale che legislativo, si sono sviluppati dei
nuovi metodi di tutela della mutata posizione del lavoratore flessibile
che hanno aperto del tutto le porte ad una nuova stagione
dell’organizzazione del rapporto di lavoro: la stagione della
flessibilità.
Tutte queste evoluzioni hanno mutato il volto del settore
dell’ordinamento di nostro interesse e si sono ripercosse sul diritto del
lavoro che, pur trovatosi di fronte a novità molto importanti, deve
continuare ad adempiere al difficile compito di mantenere l’equilibrio
sociale pur nel rinnovato ambiente.
Per raggiungere tale obiettivo si deve anzitutto prescindere
dall’utilizzo di norme universali, rigide e standardizzate e si devono
adeguare le strutture normative alla nuova situazione che ha visto lo
smantellamento della maggior parte degli apparati protettivi esistenti.
In secondo luogo si deve tener presente che le trasformazioni avvenute
hanno di certo portato ad un rafforzamento del potere sociale delle
imprese in quanto, come detto, sono state le esigenze di queste a
contribuire maggiormente alle modificazioni dell’ordinamento del
lavoro.
Una delle aree che maggiormente hanno subito cambiamenti è
certamente quella dei contratti di lavoro. Tali contratti erano
precedentemente caratterizzati dall’avere natura quasi di tipo
normativo, erano comunque unitari; essi si sono invece in tale
contesto evoluti verso un pluralismo tipologico, conseguenza
obbligata della moltiplicazione delle discipline applicabili al rapporto
di lavoro, hanno previsto l’abbattimento di qualsiasi orientamento
della domanda di lavoro all’interno dei segmenti sfavoriti e la
revisione della maggior parte delle garanzie proprie dei prestatori di
lavoro. Le ragioni della flessibilità hanno così portato ad un contratto
che non ha più la sola funzione di far acquisire diritti ma che va
realmente a gestire il rapporto di lavoro, giungendo anche a poter
sopprimere alcune precedenti posizioni di vantaggio del lavoratore; un
contratto che va inoltre ad arricchire il sistema delle relazioni
industriali tramite l’ammissione della possibilità di concorrenza tra le
varie fonti contrattuali collettive di diverso livello, nonché tramite il
riconoscimento di spazi, finora negati, al contratto individuale di
lavoro.
Il nuovo problema che deve essere risolto appare dunque quello di
riorganizzare, in questo nuovo ambiente dominato dalla flessibilità, e
senza il compimento di nessun passo indietro che andrebbe a discapito
dell’organizzazione imprenditoriale, i metodi di tutela degli interessi
deboli del mondo del lavoro, almeno in quel termine minimo
rappresentato dalla garanzia delle prestazioni essenziali e, in quanto
possibile, dalla garanzia di una continuità, pur relativa, della
occupazione presso più datori di lavoro, in modo tale che si possano
“rendere compatibili le ragioni di efficienza e produttività delle
imprese con l’esigenza di tutela e protezione dei prestatori di
lavoro”
4
. Fondamentalmente occorrerà evitare che, in una situazione
nella quale devono considerarsi superati gli iniziali connotati
dell’emergenza, e nella quale i nuovi modelli flessibili non si sono alla
fine rivelati particolarmente indicati alla lotta alla disoccupazione, in
quanto l’occupazione flessibile temporanea non compensa comunque
la disoccupazione di lungo periodo relativa ad aree geografiche
determinate, classi anagrafiche e gruppi professionali, si sia travolti
dal fenomeno di sostituzione tra occupazione stabile e garantita ed
occupazione fluttuante e sottoprotetta.
4
Citazione tratta da G. SANTORO PASSARELLI, Flessibilità e rapporti di lavoro, in stesso autore,
Flessibilità e diritto del lavoro, Giappichelli, Torino, 1997, vol. III, p. 3.