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Introduzione
Nella cultura occidentale raramente si è presa in considerazione la possibilità che
il soggetto, l’io di cui quotidianamente si fa esperienza, possa non essere reale. Si è
soliti considerare la propria identità come data: si è un nome e un cognome a cui
corrisponde un individuo. Questo, nonostante gli eventuali cambiamenti fisici o
caratteriali, ha un nucleo di caratteristiche inalterabili che permane al di là dello
scorrere del tempo; tale nucleo, tale serie di aspetti fondamentali, è ciò che si intende
con il concetto di sé. Naturalmente esistono prospettive diverse relativamente a quali
debbano essere gli aspetti su cui si costruisce l’individualità: alcuni ritengono che il
sé debba coincidere con il corpo, altri con la mente, altri ancora con l’anima. Le
possibilità sono numerose e si tenterà di approfondirle tutte, ma il proposito della
ricerca è quello di mostrare come questa sensazione di essere un io, per quanto
appaia robusta e convincente, sia una mera impressione. Il principio
d’individuazione, che porta l’uomo a intendersi come un soggetto, sarebbe
fondamentalmente errato. Non si contesta l’innegabile esistenza della sensazione di
essere un sé; soltanto si farà notare come, dietro questa impressione, non si possa
rintracciare alcun elemento stabile e permanente in cui identificare la radice della
convinzione di essere un io.
Le implicazioni di una simile posizione sono varie e coprono aspetti etici,
ontologici e, soprattutto, soteriologici: rinunciare all’idea di essere un io ha un forte
impatto sulla maggiore o minore possibilità di condurre una vita felice o priva di
sofferenza. Questo aspetto salvifico è centrale per la tradizione buddhista. Sebbene
non si possa dire altrettanto per quanto riguarda le scienze cognitive, riteniamo lecito
e doveroso valutare le implicazioni che anche la trattazione neuroscientifica del non-
io potrebbe avere in questo campo. A giudizio del Buddha, il rifiuto del sé è il passo
fondamentale per poter giungere a liberarsi da brama e attaccamento, fonti primarie
di sofferenza. Come si vedrà, quest’ultima si genera inevitabilmente per la natura
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transitoria e impermanente di ogni aspetto della realtà, la quale confligge con il
desiderio umano di possedere eternamente ciò che è ritenuto favorevole e piacevole.
Argomentazioni filosofiche e prove scientifiche svolgono dunque un ruolo
didattico, rendendo evidenti i limiti congeniti alla condizione umana. Si insiste nel
desiderare che nelle proprie vite permanga ciò che è stimato positivo, senza
comprendere come ciò sia impossibile, perché sono invece divenire, instabilità e
impermanenza i caratteri principali del reale.
Il sé è probabilmente l’elemento in cui tale dinamica risulta più evidente. Si è
convinti di essere il proprio io e per esso si combatte ogni giorno nel mondo, perché
si affermi, goda di prestigio, ottenga ciò che desidera, non muoia. Eppure, un simile
atteggiamento non può che essere fonte di sofferenza, poiché si attribuisce
all’impressione superficiale di essere un sé realtà effettiva e ci si comporta di
conseguenza. Tuttavia, alla luce dell’impermanenza, ogni forma di brama o
attaccamento è follia; a maggior ragione quella relativa all’io.
Buddhismo e neuroscienze sono in grado di mostrare che nessuno di noi è o è
mai stato un sé, rendendo logicamente consequenziale – e dunque favorendo – il
distacco da esso. I metodi utilizzati sono naturalmente differenti: si passa
dall’argomentazione filosofica alla prova scientifica. Anche per questa ragione non è
semplice porre in dialogo diretto le due diverse tradizioni.
In una prima parte del lavoro si è tentato di ricostruire il valore che in Occidente
e in Oriente si assegna al sé, così da comprenderne le varie sfumature e poter
successivamente valutare la portata della negazione. In secondo luogo, si è tentato di
mostrare le varie argomentazioni che la tradizione filosofica buddhista (soprattutto
indiana) propone per rendere evidente l’illusorietà dell’io; oltre alla trattazione del
tema da parte del Buddha stesso, si sono approfondite le teorie delle scuole
Theravāda, Sarvāstivāda, Sautrāntika, Pudgalavāda, Madhyamaka e Yogācāra. Un
successivo capitolo è invece dedicato alle prove neuroscientifiche in favore del non-
sé (con riferimenti particolari alla teoria metzingeriana del “tunnel dell’io”) e al
conseguente dibattito nato con la fenomenologia: né il senso di proprietà corporea, né
l’agentività, né la struttura narrativa o la mieità dell’esperienza paiono essere
candidati validi a rappresentare il sé. Infine, si è tentato di trarre delle conclusioni dal
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confronto delle due negazioni, evidenziandone caratteristiche, differenze e possibili
punti di contatto; in questo senso, le neuroscienze sono parse una via alternativa per
condurre sensibilità filosofiche diverse all’abbandono dell’egotismo auspicato dal
buddhismo.
La collaborazione tra prospettive filosofiche differenti richiede sicuramente
impegno, poiché è necessaria una comprensione che permetta di riconoscere analogie
senza finire per farsene travolgere. Tuttavia, qualora il dialogo risultasse equilibrato,
si otterrebbero sia un ampio ventaglio di argomentazioni in merito alla negazione del
sé sia la possibilità di integrare i limiti di una prospettiva con i pregi dell’altra.
Le ragioni per cui si è voluta approfondire la negazione dell’individualità in
tradizioni tanto dissimili sono varie. Probabilmente la prima ragione è la convinzione
che, oggi, una teoria filosofica non possa non confrontarsi con i risultati che
provengono, in relazione al proprio ambito, dalla ricerca scientifica. Frequentemente
filosofia e scienza conducono vite separate, che corrono in parallelo, evitando di
incrociarsi. Pur argomentando da una prospettiva filosofica scettica, riteniamo che
l’incisività soteriologica di una qualsiasi affermazione dipenda dalla sua coerenza
rispetto all’intero sistema delle conoscenze umane, in cui sono comprese tanto la
filosofia quanto la scienza. Perciò è opportuno che un qualsiasi sistema filosofico sia
sempre aggiornato sulle posizioni scientifiche riguardanti il proprio campo di ricerca;
quantomeno perché è difficile, per una filosofia, mantenere lo stesso vigore
argomentativo qualora si trovasse in contrasto con i dati provenienti dalla scienza.
Naturalmente non sempre le due si possono confrontare direttamente: nel caso in
esame, ad esempio, il diverso approccio delle due tradizioni è evidente. Esso non è
limitato alla teoria del non-sé ma sorge, più genericamente, dal diverso ruolo
attribuito alla ricerca filosofica in Occidente e in Oriente; mentre nella dimensione
occidentale è possibile pensare una pura teoria, che sia slegata dall’interesse per lo
sviluppo spirituale del soggetto, in quella orientale la liberazione dalla sofferenza è
un obiettivo che pervade continuamente la ricerca filosofica. Queste differenti
tendenze si riverberano anche sulla negazione dell’io, poiché mentre la prospettiva
neuroscientifica è eminentemente ontologica, quella buddhista è intrinsecamente
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soteriologica. Tuttavia, una volta riconosciuta e sottolineata la differenza, riteniamo
possibile lavorare per assegnare anche all’approccio scientifico un fine eudemonico:
ben vengano prove scientifiche in grado di liberare dalla sofferenza.
Un ulteriore elemento che ha contribuito alla scelta di proporre un confronto
multidisciplinare è l’idea che ogni sistema logico sia una delle possibili
interpretazioni del mondo, mai realmente aderente a esso (si pensi, ad esempio,
all’insostenibilità del principio d’identità in una prospettiva dove tutto è divenire e
nulla è mai realmente uguale a se stesso). L’esito scettico di questa posizione, oltre
ad assegnare di conseguenza un ruolo fondamentale alla dimensione pre-razionale
della pratica meditativa, stimola l’incontro di logiche diverse, dalla cui
collaborazione possa nascere un sistema filosofico più completo attraverso cui
avvicinare il soggetto a un percorso che si pone, in realtà, interamente al di fuori del
dominio della logica stessa.
Questo sforzo interdisciplinare è già stato a in parte intrapreso da studiosi o
istituti quali il “Mind and Life
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”, che ha prodotto una serie di lavori volti a sviluppare
il dialogo tra scienza occidentale e buddhismo. Tuttavia, si ha avuto l’impressione
che il confronto sia parzialmente frenato da residui religiosi che spesso la filosofia
buddhista porta con sé. Si è tentato dunque di privare il buddhismo di tali elementi,
mettendo a confronto le recenti scoperte neuroscientifiche unicamente – per quanto
possibile – con la dimensione filosofica della tradizione buddhista indiana.
Riteniamo una simile operazione fattibile e proficua, partendo dal presupposto che
entrambe le parti in causa si sono più volte dette pronte ad abbandonare le proprie
convinzioni dinanzi a prove concrete. Se questo può essere scontato e costituire un
aspetto imprescindibile del metodo scientifico, è meno banale che una tradizione
filosofica e religiosa si dica pronta a tale atteggiamento.
Oltre alle ragioni finora esposte per giustificare il confronto, ve ne sono anche
altre, di carattere più pratico. Come fa notare anche il neurobiologo F. Varela
2
,
l’alleanza tra buddhismo e neuroscienze offre l’opportunità di formare soggetti in
grado di riportare le proprie esperienze estatiche con competenza fenomenologica a
1
Il “Mind and Life” è un istituto di ricerca fondato da F. Varela e A. Engle, con l’intento approfondire
i legami tra scienza e buddhismo; ne è membro anche il Dalai Lama.
2
Cfr. HARRINGTON, A., ZAJONC, A. (2008) (a cura di), Il Buddha in laboratorio. Dialoghi fra il Dalai
Lama e la scienza sulla natura della mente, Edizioni Amrita, Torino.
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scienziati altrettanto in grado di comprendere i contenuti fenomenici riportati. A ciò
Varela aggiunge che «queste testimonianze in prima persona non sono soltanto una
“conferma” di ciò che la scienza può comunque scoprire: ne sono un complemento
necessario»
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. Il dialogo va però costruito lentamente, passo dopo passo, perché
mondi tanto distanti possano cogliere il significato delle esperienze e del linguaggio
provenienti dall’altra tradizione. Qualora si realizzasse una simile sintonia, lo
scambio diverrebbe fecondo: il buddhismo avrebbe prove scientifiche a cui fare
riferimento per sostenere il proprio rifiuto del sé e le neuroscienze avrebbero
l’opportunità di attingere all’enorme esperienza del buddhismo in fatto di
interiorizzazione e traduzione della teoria all’interno della pratica di vita quotidiana.
Del resto, lo scienziato rimane a sua volta un individuo destinato a soffrire se, alle
proprie scoperte, non fa seguire un mutamento della propria condotta. Nella
prospettiva buddhista, non è sufficiente provare l’illusorietà dell’io; è necessario che
a ciò segua un lungo lavoro di correzione del proprio approccio alla realtà. La pratica
meditativa (non solo quella buddhista) è probabilmente la strategia migliore per
contribuire a questo: in essa, al di là di ogni argomentazione o prova, è possibile
esperire direttamente una condizione mentale entro la quale l’io viene meno ed è
concretamente saggiabile la vacuità del concetto di “sé”.
3
Ivi, p. 5.
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Il sé prima della negazione
Comprendere che cosa significhi negare il sé, che portata culturale questo possa
avere e fino a che punto si sono spinti coloro che l’hanno negato sarà l’obiettivo del
presente lavoro. Tuttavia, prima di procedere in questa direzione, è necessario fare un
passo indietro e gettare uno sguardo a come la tradizione indiana e quella occidentale
abbiano dato forma a questo concetto di “sé” che verrà poi messo in discussione
rispettivamente dal buddhismo e dalle neuroscienze.
La convinzione di possedere un io sorge per diverse ragioni, quali la sensazione
di potersi identificare con il proprio corpo o con le proprie azioni e dalle conferme
che giungono dalla realtà che circonda l’individuo, a partire dalla sfera grammaticale
e linguistica.
L’idea di un sé evolve in maniera diversa e con sfumature differenti nei due
ambiti culturali; ripercorrere, seppur sommariamente, alcuni aspetti dello sviluppo di
tale concetto potrebbe rivelarsi utile: del resto, per valutare somiglianze e differenze
nella negazione del sé è necessario avere chiaro a che cosa ci si riferisca nelle
rispettive culture con questo termine.
Inizialmente ci si concentrerà sullo sviluppo del concetto di ātman in India e
nella tradizione hindu da cui il buddhismo successivamente emerge. In un secondo
tempo, invece, si sposterà l’attenzione sull’evoluzione del concetto di sé nel
panorama culturale occidentale, partendo dalla filosofia greca, passando dal ruolo
giocato dal cristianesimo e giungendo infine alla rivisitazione moderna e
contemporanea del concetto.