1. Analisi storica del servizio sociale
1.1 Il servizio sociale in Italia
1.1.1 Dalle origini alla nascita del servizio sociale moderno
In principio, la relazione d’aiuto può senz’altro essere fatta risalire all’avvento della
religione cristiana, così pervasa dall’idea di bontà e fratellanza nei confronti del povero o
del malato. Questa prima forma di sostentamento si evolse con la fondazione e la
costruzione di ospedali religiosi. Nel 1861, anno dell’unità d’Italia, anche per via della
noncuranza da parte dello stato, è ancora essenzialmente la sfera cattolica a disciplinare il
bisogno psico-fisico della persona per mezzo di asili, case di cura o luoghi d’internamento
per portatori di malattie psichiche, tramite le opere pie
7
.
Il binomio assistenza-carità ha senz’altro contribuito ad alimentare e cristallizzare la
relazione tra indigenza e delinquenza. L’onere dell’assistenza ricadrà su comuni e sulla
Chiesa fino alla fine del diciannovesimo secolo. Gli ultimi anni dell’Ottocento, infatti, sono
gli anni delle grandi indagini volte a denunciare gli illeciti commessi dalle strutture di
beneficenza e da parte delle opere pie. Tutto ciò condurrà alla promulgazione della prima
legge sul servizio sociale, ossia la legge 17 luglio 1890, n. 6972, meglio conosciuta come
legge Crispi
8
.
A pochi anni dall’Unità d’Italia si palesano sempre più le inefficienze, le anomalie e gli
eccessi smodati all’interno del governo degli istituti adibiti all’assistenza, tanto da
necessitare di una rivisitazione della legge 735/1862, nota come legge Rattazzi. La legge
735 diede vita alla congregazione di carità, organi statali di matrice ottocentesca presenti in
ogni comune volti al sostegno dei meno abbienti, allo scopo di svolgere un migliore
esercizio nella gestione della politica economica che muove dietro il mondo dell’aiuto e
della solidarietà; per il governo, quindi, dei luoghi adibiti alle elargizioni e delle strutture
confiscate alla Chiesa e, ancora, per vegliare ed esercitare un controllo sulle opere pie. La
7
M. MORINO, G. BOBBIO, D. MORELLO DI GIOVANNI, Diritto dei servizi sociali, Carocci editore, Roma, 2006, pp. 18-19.
8
Ivi, pp. 19-21.
7
chiave di volta all’interno della legge del 1890 consiste nell’aver intuito la necessità di
affidare al settore pubblico la carità. L’art.1 della suddetta legge si rivolge per la prima volta
alle opere pie con il nuovo appellativo di istituzioni di assistenza e beneficenza, il cui scopo
consiste, adesso, nel provvedere alla cura dei bisognosi ed anche alla loro istruzione al fine
di agevolarli all’abbandono della loro condizione di povertà
9
.
Bisogna, a questo punto, distinguere la beneficenza istituzionale da quella legale. Con il
primo termine si rimanda a tutti quegli istituti privati ridimensionati dalla costante verifica
al opera del settore statale. Il riferimento è, quindi, alle IPAB, le quali non perseguono
finalità di lucro, poiché poggiano sull’idea di gratuità delle elargizioni. Il secondo termine,
invece, fa riferimento a tutti quegli organi pubblici presenti su tutto il territorio nazionale
delegati all’assistenza ai bisognosi e regolamentati da leggi comuni
10
.
Gli ultimi anni dell’Ottocento sono caratterizzati dal palesarsi dell’impegno, da parte
dello Stato, di risolvere la questione povertà e di limitare e confinare lo smisurato potere
dell’ecclesia. Per raggiungere tali obiettivi, ci si è preoccupati di individuare nella
beneficenza legale la forma più idonea per arginare l’assistenza lontana da quella
concezione pubblicistica su cui getta le basi la legge Crispi. Inoltre si è cercato di attuare
una politica di verifica e controllo su tutti gli istituti privati di carità. Bisogna notare che
nell’ipotesi di una conversione da istituto privato di beneficenza ad istituto pubblico, questi
avrebbe fatto riferimento, per l’amministrazione dei propri beni, al proprio statuto, alla
propria autonomia, che di certo non contemplava l’osservanza di leggi statali. Ciò che è
scaturito da questa legge non è stato l’abbandono della concezione privatistica
dell’assistenza, ma solo un suo ridimensionamento
11
.
Le istituzioni di pubblica assistenza e beneficenza, IPAB, sono inizialmente collocate
all’interno di categorie definite enti pubblici locali non territoriali, enti autarchici ed enti
autonomi. Con la prima definizione si vuole intendere che il luogo in cui l’IPAB svolge le
9
Ivi, p. 21.
10
Ibidem.
11
Ivi, pp. 21-22.
8
proprie attività serve solo a definire chi è per essa l’utente. L’IPAB può avere, quindi,
differenti conformazioni. Può essere, in base alla propria dimensione, regionale, nazionale o
intra-regionale ed offrire assistenza agli utenti appartenenti a quella determinata regione o a
tutto il territorio nazionale. Il secondo termine, invece, fa riferimento alla opportunità di
poter gestire da sé i propri beni e le proprie risorse, mentre il terzo attributo rimanda alla
possibilità di potersi autoregolamentare tramite la promulgazione di regole e disposizioni
12
.
Alla fine degli anni Trenta si giunge all’introduzione degli ECA
13
, enti comunali di
assistenza, si procede alla cassazione delle congregazioni di carità, ed ecco che i primi
prendono il posto delle seconde. In questo frangente non si può non notare un importante
passo in avanti ad opera del mondo dell’assistenza, poiché infatti non si fa più riferimento
alla condizione di indigenza dettata solo dalla estrema povertà, ma piuttosto allo stato di
bisogno. Con questa ultima espressione si rimanda adesso ad una condizione di precarietà,
non necessariamente stazionaria e non necessariamente legata al proprio status di
appartenenza, concernente, quindi, non solo l’incapacità di ovviare autonomamente alla
propria sussistenza ma anche l’impossibilità momentanea di far fronte ad un circoscritto
bisogno. L’eccessiva genericità della legge n.847 in riferimento all’utenza concede, però,
ampi spazi di autonomia a chi opera all’interno degli enti comunali di assistenza,
provocando lo scontro inevitabile con la legge del 1890, legge Crispi, e la disattesa del
principio secondo cui si decretava il divieto di parzialità, di particolarismi rimandanti a
questioni politiche o religiose
14
.
L’idea ottocentesca di beneficenza e di carità legata solo alla condizione di povertà, e poi,
alle fine degli anni Trenta, il riferimento alla condizione di bisogno segnano le prime tappe
fondamentali dell’evoluzione dell’assistenza sociale. Un’ulteriore traguardo viene raggiunto
nel momento in cui, terminata la seconda guerra mondiale e l’epoca totalitaria italiana, la
promulgazione dei diritti essenziali dei cittadini permette di ripensare all’assistenza e di
12
Ivi, pp. 22-23.
13
La legge 3 giugno 1937, n. 847 introduce e disciplina gli ECA, enti comunali di assistenza.
14
M. MORINO, G. BOBBIO, D. MORELLO DI GIOVANNI, op. cit., p. 23.
9
connetterla ai diritti sociali di tipo universalistico. Si abbandona quindi l’idea di assistenza
in senso meramente passivo e discrezionale e la si concepisce come motore universale in
grado di rafforzare l’identità personale e sociale del cittadino-utente. Poiché vi è, adesso, per
il cittadino un diritto all’assistenza da tutelare, un diritto soggettivo, si presuppone
l’obbligatorietà degli interventi da parte dello Stato. Tuttavia questa obbligatorietà sottostà
alle condizioni del sistema politico-economico del territorio, ossia, alle disponibilità
finanziarie del paese
15
.
“In sostanza, i servizi sociali, così come intesi dalla Costituzione, sono uno strumento di
promozione e di realizzazione dei diritti della personalità, ovvero di quei diritti
imprescrittibili che conferiscono dignità alla persona”
16
.
1.1.2 L’evoluzione del servizio sociale: il Convegno di Tremezzo
La storia italiana del servizio sociale e del ruolo dell’assistente sociale fa senz’altro
riferimento ai mutamenti socio-economici, politici e, soprattutto, culturali che hanno
caratterizzato il territorio dalla seconda metà del Novecento. La tradizione vuole che il
Convegno di Tremezzo del 1946 rappresenti l’avvento del servizio sociale moderno, del
servizio sociale come professione. Fino a quel momento solo le assistenti sociali che
esercitavano il proprio mestiere all’interno delle fabbriche godevano di un mero
riconoscimento formale. Nel 1920, a Milano, Paolina Tarugi e Carla Lavelli Celesia
fondarono il primo Istituto italiano di assistenza sociale, rivolto solo alle donne che, una
volta conclusosi il percorso formativo, divenivano “segretarie sociali”, pronte ad operare
nelle fabbriche al fine di supportare gli operai. L’insegnamento, però, era troppo
semplicistico ed i programmi scarni e scadenti. L’assistenza, quindi, elargita tramite enti
15
Ivi, pp. 23-24.
16
Ivi, p. 23.
10
quali le IPAB, istituzioni di pubblica assistenza e beneficienza, fondate nel 1923, era di tipo
categoriale, a carattere volontario e guidata da principi di carità e solidarietà
17
.
La prima scuola superiore per assistenti sociali nasce a Roma nel 1928. L’accesso a
questo istituto presupponeva alcune peculiarità, quali vantare un corpo robusto o uno stato
civile nubile, in modo da potersi dedicare totalmente all’Altro; Altro inteso sempre come
operaio di fabbrica, sotto il regime fascista. L’assistente sociale di questo periodo storico è
guidata da principi pietistici, di carità, di regime, rivolto non a persone, ma a categorie, in
un’ottica puramente riduzionistica. Forse la prima forma di legittimità di questa figura
professionale la ritroviamo dopo la costituzione del Tribunale per i minorenni, nel 1934. Si
stabilì, infatti, che il giudice, nell’ambito di un processo avente per oggetto un minore,
avrebbe dovuto fare riferimento all’assistente sociale per adottare misure più adeguate
18
.
Al termine del secondo conflitto mondiale, si presentarono le realtà che avevano
caratterizzato il Paese qualche decennio prima, ossia: orfani, povertà estrema, famiglie
senza più dimora, senza più lavoro, senza mariti, senza stipendio. La faticosa fase di
riedificazione e rilancio del territorio costituì il pretesto per un ripensamento all’interno del
servizio sociale. In questo contesto l’assistente sociale contribuirà notevolmente a spogliare
il paese da quelle istituzioni totalitarie e coercitive che avevano caratterizzato il territorio
italiano dei primi anni del Novecento e all’incremento della democrazia, quantomeno sotto
il profilo socio-assistenziale. Venne immediatamente costituito il Ministero dell’assistenza
post-bellica, volto a rispondere in modo organico e completo ai bisogni degli individui
derivanti dal conflitto. Ad un anno dalla fine della guerra, questo stesso ministero
programmò un Convegno nazionale di studi sull’assistenza sociale, avente lo scopo di
riprogrammare ed ottimizzare, o perlomeno migliorare la politica dell’assistenza: il
Convegno di Tremezzo. Gli aderenti dialogarono circa la funzione che sarebbe stata affidata
all’assistente sociale, i cui compiti vennero percepiti come strategici per il recupero e la
rinascita della collettività, in vista delle nuove esigenze della società; disquisirono, ancora,
17
M. CESARONI, A. LUSSU, B. ROVAI, op. cit., pp.17-18.
18
Ivi, pp. 18-19.
11
di un possibile incremento della credibilità della figura in questione, di economia, di
governabilità, di democrazia
19
.
Ci si preoccupò di provvedere ad una erogazione di aiuti e prestazioni facenti capo a
figure legittimate tramite una formazione scolastica in qualche modo riconosciuta,
professionale. Sorsero, così, le prime scuole del dopoguerra, alcune improntate su principi
religiosi, altre laiche, senza però alcuna forma di coordinamento tra di esse
20
.
Il Convegno di Tremezzo sancì lo scardinamento da un’idea meramente assistenzialistica
del servizio sociale. Vennero fissati, in questa sede, i principi, i ruoli e gli obiettivi comuni
per tutti gli operatori del sociale. Questi ultimi hanno adesso dei compiti precisi,
istituzionalizzati, ossia essere agenti di cambiamento per i più deboli, per la società e nel
rapporto tra quest’ultima e l’individuo. Ciò che realmente stravolge e scuote il compito
dell’assistenza concerne il non agire più in un’ottica passiva, a danno avvenuto, bensì di
prevenzione. Ci si servì delle conoscenze del metodo da parte di professionisti anglosassoni
che educarono sul “Come fare?”, sugli strumenti da utilizzare, lasciando in penombra, però,
obiettivi più alti, quali le funzioni e il “Che fare?”. Ecco che le scuole italiane adottarono
testi americani o inglesi e recepirono il metodo del case work, del trattamento del caso,
importato dalla studiosa Anna King
21
. Gli operatori del sociale individuarono, nell’utilizzo
di questo nuovo strumento assorbito dalla cultura anglosassone, l’occasione che avrebbe
potuto conferire credibilità alla professione, e che avrebbe permesso di negare quel mero
assistenzialismo da sempre legato al servizio sociale
22
. Quest’ ultimo cominciò a servirsi di
strumenti ispirati a fondamenti scientifici, e di conseguenza esso stesso tese a divenire un
po’ più scientifico, riconosciuto. Gli anni Cinquanta sono gli anni del group work e del
community work
23
, dello studio, cioè, dell’appartenenza ad un gruppo o alla comunità; sono
19
R. MAZZA, I modi della storia, gli spazi della prassi, in M. A. TOSCANO (a cura di), Introduzione al servizio sociale,
Laterza, Bari, 1996, pp. 66-67.
4
M. CESARONI, A. LUSSU, B. ROVAI, op. cit., p. 20.
21
Ivi, pp. 21-24.
22
R. MAZZA, op. cit., p.71.
23
La tecnica del community work venne introdotta in America con lo scopo di studiare il fenomeno dell’immigrazione
e contrastare le discriminazioni razziali, M. CESARONI, A. LUSSU, B. ROVAI, op. cit., p. 24.
12
gli anni della diffusione dei primi centri sociali, aventi lo scopo di accrescere il senso di
adesione, di comunione. Nonostante questi stravolgimenti, l’assistente sociale continuò a
sottostare alle politiche sociali previdenziali, volte a tutelare il lavoratore e ad esercitare,
ancora negli anni Cinquanta - Sessanta, nelle fabbriche o nell’ambito del lavoro o della
previdenza
24
.
1.1.3 L’abbandono della vecchia idea di carità e la ricerca di una nuova identità
del servizio sociale
Se è vero che le assistenti sociali italiane potevano godere di nuovi strumenti per
rispondere ai bisogni della società, è pur vero che si necessitava ancora di una vera identità
del servizio, di una professione lontana dai principi autoritari e caritatevoli su cui
inizialmente gettò le basi. Le contestazioni di donne, operai e giovani studenti del 1968
scossero anche il servizio sociale, il quale riconobbe la necessità di uno stravolgimento, non
soltanto politico, ma anche sociale e culturale, al fine di agire nei confronti della comunità
in un’ottica promozionale e per poter modulare le risposte degli operatori in base ai nuovi
rischi dei cittadini, non più intesi come categorie ma persone; persone con esigenze diverse
e risorse differenti. In realtà il pensiero dell’assistente sociale si poneva in una posizione
antitetica rispetto al proprio agire; infatti, l’erogazione di servizi ed interventi risentiva
ancora della pervasiva politica fascista assai lontana dall’idea di decentramento e autonomia
dell’utente. Ad esempio, resistevano ancora gli ECA, enti comunali di assistenza, istituiti
durante il regime
25
.
“L’assistente sociale deve essere l’agente di cambiamento nel quadro di una politica che
mira al mutamento della società
26
”.
24
Ivi, pp. 20-25.
25
Ivi, pp. 27-29.
26
Ivi, p. 30.
13